Archive for settembre, 2009

ricordi di fine estate

Posted by Giro Batol on settembre 25, 2009
pensieri / 1 Commento

06.00 del mattino, dell’ultima notte prima delle vacanze: la tracheotomia di una paziente sanguina un po’ e sarà da rivedere, l’ACT del suo vicino di letto è un po’ basso e bisogna aumentargli la velocità d’infusione dell’eparina, ma tutto sommato la notte sta scivolando via tranquilla ed allora steso sulla branda dello studiolo si può pensare ad un anno di Notti di Guardia.
Non è una cosa che si fa spesso, generalmente i ritmi di lavoro non concedono tanto spazio a tali riflessioni e quando lo si fa sono quasi sempre i momenti drammatici che ti attraversano la mente per affacciarsi alla soglia dei ricordi con una tale violenza da travolgere tutto ciò che incontrano: come il padre di quel ragazzo abbattuto per strada da un emopericardio per rottura di cuore che mi guarda con gli occhi stravolti quando gli dico in Pronto Soccorso che per suo figlio non c’è stato niente da fare, che è morto: “Dottore, non è giusto! Un padre non dovrebbe mai sopravvivere a suo figlio, non è giusto!”, sono le uniche parole che ha trovato la forza di dirmi.
Già, parole che porterò sempre con me e che rivivo tutte le volte che sto per arrendermi durante una rianimazione cardio-polmonare conscio che di lì a poco riincrocerò occhi stravolti, riascolterò parole dilanianti.
Ma ecco che in questa occasione ci sono anche altri ricordi che affiorano con tonalità completamente diverse ed un lieve sorriso increspa i lineamenti: e sì, per esempio la notte con Francesca, 15 anni e occhi blu profondo, ma con la pelle che progressivamente si stava ricoprendo di macchie purpuree lievemente rilevate, sempre più estese sempre più confluenti: “Sepsi meningoccica” era stata l’inesorabile consegna di qualche minuto prima, “sta andando molto male adesso le ho dovuto mettere su le amine; i genitori le sono lì accanto nell’isolamento, sono distrutti”.
“E no, ragazza mia, non mi fare uno scherzo del genere perché io stanotte non vado a dire ai tuoi genitori che non ce l’hai fatta” è stato il primo pensiero.
Parlarle e spiegarle, insieme a Carlotta, l’infermiera del Pronto Soccorso, tutte le varie manovre invasive che una dopo l’altra abbiamo eseguito su di lei era stato meno difficile del previsto con l’eccezione dell’intubazione oro-tracheale: “Tranquilla Francesca, adesso ti addormenti e quando ti sveglierai starai meglio” già peccato che non ne fossi affatto sicuro e il pensiero che tante altre volte quelle erano state le ultime parole udite dai miei pazienti mi torturava.
Poi la ricerca su Internet, la possibilità di usare un farmaco da poco in commercio gravata però dal rischio di un sanguinamento cerebrale, il consulto alle 02.00 con il primario, il colloquio con i genitori, la corsa del taxi dall’ospedale pediatrico per recuperare la Proteina C zimogeno ed infine una piccola inversione di tendenza divenuta poi una marea montante fino alla definitiva dimissione dopo più di un mese di interminabili trattamenti medici e di chirurgia plastica in Rianimazione e Medicina d’Urgenza superati con una incredibile forza d’animo e volontà di lottare.
E il signor G3 chi se lo dimentica? 48 anni, Rumeno, lavorava in Italia con le sue due figlie, mentre la moglie era rimasta in patria: 2000 di glicemia, polmonite evoluta in shock settico, infarto miocardio acuto in corso e linfoma non Hodgkin con localizzazioni sovra e sottodiaframmatiche istologicamente tipizzato come G3, insomma quasi morto, quasi senza indicazioni rianimatorie, ma quasi… e allora quasi quasi ci proviamo e tra l’incredulità generale giorno dopo giorno, notte dopo notte ecco che Costel si tira fuori di qui e va a casa pronto a lottare di nuovo contro il suo linfoma: ma ormai ci contiamo, i G3 rispondono bene alla terapia.
E così tra un ricordo e l’altro si son fatte le otto, tempo di consegne per chi arriva e tempo di ferie per chi smonta: diceva Oscar Wilde che “il ricordo di un dolore è sempre un dolore, mentre il ricordo di una gioia non è più una gioia”. Beh, caro Oscar, ti vorrei presentare Francesca e Chelmus: credo che cambieresti idea! Non solo è ancora una gioia, ma è una gioia contagiosa e stimolante che ci aiuta tutti a non mollare anche quando fatica, stress e malinconia si fanno sentire durante le notti di guardia.

Giro Batol

donne

Posted by jumba on settembre 16, 2009
racconti / 2 Commenti

“Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattrocchi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
Le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue”

Eugenio Montale, Satura (Xenia II), 1962-1970.

Stare dall’altra parte è diverso.
Ti trasformi, cambi specie nel tempo di una mitosi, passi dallo stato di medico a quello di paziente. E non un paziente qualunque, ma il peggiore. Quello che nessuno, ma proprio nessuno di noi vorrebbe trovarsi davanti non dico in sala ma nemmeno in ambulatorio. Già, perché solo il fatto di essere “dottoressa” puzza di complicanza inevitabile, di fattore di rischio maggiore per qualche casino tipo shock anafilattico, infezione, etc
Già il collega radiologo, venuto a conoscenza della mia allergia al nickel (tradotto: eczema ai lobi auricolari da orecchini di bigiotteria), si è astenuto dall’iniettarmi il mezzo di contrasto durante la RMN, per cui la mia massa addominale di ndd continuava a rimanere di ndd.
Poi c’è la Paura. Fino al giorno prima ridi e scherzi, minimizzando l’intervento, dicendo che al massimo in una settimana sarai già in pista, facendo finta che la pancia gonfia come un pallone sia la conseguenza del colon irritabile (con tutte quelle guardie micidiali altro che stress!!!), e che quel dolore sordo ed insistente alla gamba sia dovuto ad uno strappo durante quella partita a tennis (risalente ormai a 2 mesi fa).
Poi c’è la Paura. Arriva all’improvviso, come entrare in una cella frigorifera nel mese di agosto. Arriva precisamente quando ti siedi davanti all’anestesista per la visita, dopo tutta la mattina che giri digiuna per i padiglioni dell’ospedale (non il tuo, qui nessuno ti conosce, nessuno ti chiama dottoressa, ora sei una signora) con in mano una manciata di codici a barre e la provetta delle urine.
La collega, gentile, giovane, carina, per niente stressata e pure abbronzata (sarà l’aria di quest’ospedale, chissà se cercano cardiologi da queste parti) mi bombarda di domande seguendo una check list, mi spiega il tipo di anestesia, mi “rassicura” dicendo che quasi sicuramente l’intubazione non sarà difficoltosa, quasi sicuramente non si dovrà prendere una via centrale e che quasi sicuramente non sarà necessaria una degenza postoperatoria in rianimazione… CAVOLO (ad essere precisi l’imprecazione muta che mi è esplosa dentro è stata un’altra). Sorrido, annuisco, ma ho le mani sudate e non vedo l’ora di alzarmi ed uscire a respirare un po’ d’aria inquinata e a strafogarmi di bomboloni alla crema al bar dell’angolo.
E pensare che io, tutti i giorni, devo dare ai pazienti notizie nefaste, comunicare diagnosi definitive di patologie croniche ingravescenti ed invalidanti, proporre interventi cardiochirurgici, impianti di devices, inserimento in lista trapianto….Il tutto mentre ti chiamano al telefono dal pronto soccorso, entra l’infermiera con un ECG urgente da refertare e la signora con il numero 93 verde bussa con insistenza alla porta per reclamare il proprio turno. Io non sono come la collega che mi ha appena visitata. Io non sono più tanto giovane e tantomeno abbronzata, mi sforzo di essere gentile ma i miei gesti intrisi di caffeina tradiscono il fatto che tutto mi sta arpeggiando sui nervi.
Chissà che percezione hanno di me i pazienti? Chissà qual è il loro stato d’animo quando escono dalla mia stanza?
E comunque adesso tocca a me, porca miseria. Fra 4 giorni è fissato l’intervento. Meno male che da ora a quel momento c’è il weekend di guardia! Magari riesco a non pensare.
E così infatti è stato. In terapia intensiva fila via tutto liscio, c’è solo un paziente critico ancora ventilato la cui criticità maggiore sembra essere la sua situazione familiare (la compagna è una mia amica…). Ce ne fossero di guardie così tranquille! Potrei anche cercare di dormire, ma non ce la faccio a stare da sola nella mia stanza. Vago per l’ospedale con il dect in tasca. Possibile che non ci sia in Pronto qualche dolore toracico, qualche curva enzimatica da chiudere, qualche FA parossistica in chirurgia? Niente. Arriva finalmente mattina. Raccolgo le mie cose, mi porto via dall’infermeria una confezione di X-prep e l’occorrente per le medicazioni e mi tuffo nel mondo esterno. Alla bollatrice, come dice un collega, avviene il “passaggio di stato”. Questa volta però le mie gambe non sono come al solito leggere, ma assumono una consistenza gelatinosa, che insieme con lo stomaco galleggiante e l’intensa peristalsi intestinale caratterizzano una sola nota condizione: la paura.
La mattina successiva mi presento sulle mie gambe instabili nel reparto per il ricovero, dotata di valigia 24 ore e di marito. Sono le 7, c’è il cambio di guardia, per cui vengo parcheggiata in sala d’attesa con altre donne per un’oretta. E’ interessante vedere come tutte, ma proprio tutte, proviamo la stessa paura, abbiamo le stesse mani sudate ed irrequiete; immediatamente la rivalità che normalmente serpeggia tra donne si trasforma subito in solidarietà: ci si dà del tu, ci si racconta senza veli, sicure che la nostra interlocutrice sia in uno stato di totale empatia, ci si aiuta allacciarci il camice monouso…
Gli uomini si defilano con le solite scuse banali: le sigarette, la macchina parcheggiata male, la telefonata…Poco importa, chi ha già partorito sa che certi momenti della vita non sono fatti per i cromosomi Y.
Sono la seconda della lista operatoria, quindi ho giusto quella mezzoretta di tempo per struggermi ancora un po’. Nel bel mezzo di tale struggimento arriva un angelo: Mariella, l’anestesista che da qualche mese si è trasferita dal mio ospedale. Sono felice di vederla. E’ come ritrovare una vecchia compagna d’armi…In effetti abbiamo combattuto insieme diverse battaglie, alcune vinte, moltissime perse. Anche se non è di turno in sala rimane accanto alla mia barella e mi distrae mentre l’antibiotico mi scorre in vena. Con voce di velluto mi rassicura, mi sistema i capelli nella cuffietta e sorride. Io sono figlia unica, ma in quel momento penso che se avessi una sorella mi piacerebbe che fosse esattamente come lei. Senza la sua presenza non avrei sopportato l’entrata del chirurgo (nervoso, sfuggente, quasi incazzato).
Nel frattempo si è materializzata anche Maria, la mia ginecologa, che è in pensione da qualche mese ma non riesce a stare lontana dall’ospedale. Si sta vestendo per entrare in sala, mentre con parole sapienti mi tranquillizza. La paura finalmente si scioglie e lascia il posto alla commozione. Non mi aspettavo tanta partecipazione…
Finalmente entro in sala. Maledetti allarmi, quanto li odio! L’anestesista, con accento straniero e gentile, mi annuncia che sta per farmi la preanestesia. In un attimo la scialitica sopra di me si fa più brillante ed inizia ad ondeggiare, il campo visivo si contrae, poi il nulla.
Dài atleta, dai un colpo di tosse! Riemergo con l’allarme insistente della frequenza cardiaca nelle orecchie. Apri gli occhi, tira fuori la lingua!
Capisco che è tutto finito e che sto stranamente benissimo. Solo il giorno dopo, in preda all’astinenza, capisco che è la morfina a regalarmi questo stato di soffice galleggiamento…
Qualcuno mi dice che, all’esame estemporaneo, la massa asportata sarebbe un fibroma ovarico. Diosialodato!!!!
Il pensiero va subito ai miei bimbi, vorrei stringerli forte…
Grazie a tutti “di cuore”, ma soprattutto a due dottoresse che prima di tutto sono due donne (e con questo ho detto tutto!!!).

Jumba

Tags:

le solite cronache di una notte di guardia

Posted by Gaddo on settembre 09, 2009
cronache / 3 Commenti

Il mio webmaster è contento quando faccio le notti di guardia. Dice che la qualità dei post è migliore (e forse ha ragione, perchè quando non si hanno storie da raccontare si finisce nell’invettiva sterile di sempre).

Ma ci sono volte in cui no, non ha ragione. Ieri sera, intorno alle ventuno, è arrivato in pronto soccorso un signore anziano, ma non tanto, con il bacino letteralmente in pezzi.

Abbiamo fatto davvero di tutto, e in tanti. Si è cominciato con le sacche di sangue da trasfondere durante la tac, con gli infermieri tesi e indaffarati; l’anestesista che cercava di tenere in qua il signore con tutti i mezzi a sua disposizione (aveva una faccia così stanca, poverina, che mi è venuto voglia di abbracciarla, farla sedere su una sedia e lasciare che mi raccontasse tutto; anche se non la conosco così bene da permettermi simili confidenze); il mio collega radiologo in reperibilità vascolare, che è arrivato dopo dieci minuti (era uscito dall’ospedale da meno di un’ora) per un tentativo disperato di bloccare l’emorragia interna con un’embolizzazione dei vasi che perdevano sangue; gli ortopedici, che alla fine lo hanno portato in sala operatoria per rimettere a posto il bacino e la spalla fracassati.

Ho riletto il mio referto tac: un festival di fratture. Ricordo di aver pensato che, porca miseria, come fai a tirar fuori dalle pesti un paziente con così tante fratture al bacino: troppe esperienze negative sul groppone, anche se in medicina, come sempre, non si sa mai. Nel bene e nel male.

La serata continua, diventa una nottata che si prolunga ininterrotta fino alle tre e mezzo del mattino: e per fortuna che i colleghi del pronto soccorso sono stati fantastici. Con l’internista abbiamo discusso di casi clinici come sempre si dovrebbe fare, in queste circostanze. La chirurga addirittura ha portato il gelato e ha sorriso tanto, con il suo bel sorriso di sempre. Lusso allo stato puro.

Poi, intorno alle quattro, mentre cerco di guadagnare il letto, incoccio l’ortopedico lungo il corridoio. Ha una faccia distrutta dalla stanchezza mentre mi dice: Non c’è stato niente da fare, il signore non ce l’ha fatta.

Ragioniamo qualche minuto sulla faccenda e non ci sembra di aver sbagliato nulla nelle varie procedure: è solo che rompersi così tanto il bacino è una cattivissima idea, poi si rischia grosso davvero. Lui ha detto, amaramente: Speriamo che lo capiscano anche i familiari.

E a quel punto l’ho guardato, appoggiato con la schiena al muro, gli occhi cerchiati di nero, con ancora in tesa la cuffietta da sala operatoria: sembrava rimpicciolito, raggrinzito, come se le due fatiche associate, quella fisica e quella mentale, lo avessero davvero ridotto ai minimi termini. Poi anche lui mi ha guardato, e ha aggiunto: E’ in momenti come questi che mi chiedo chi cazzo me l’ha fatto fare a scegliere questo mestiere.

Avrei voluto aggiungere qualcosa, ma non c’era molto da aggiungere. Sono talmente tante le volte in cui ci diamo dentro per ore intere, e poi perdiamo i pazienti, che ormai non ci penso neanche più a chi me l’ha fatto fare. Sono rientato nella stanza, alla fine, e mi sono buttato sul letto. Avevo un groppo in gola che non andava giù: forse perchè questa volta ci avevo davvero creduto, al lieto fine della storia. Due o tre ore prima il signore era disteso sul lettino della tac, respirava, rispondeva all’anestesista che cercava di tenerlo sveglio: due o tre ore dopo più nulla, solo un corpo freddo senza più nessun abitante dentro.

Non so come spiegarlo: non è questione di aver fatto bene o male le cose, di essere stati tempestivi ed efficaci, professionali o emotivi. E’ che prima sul quel lettino c’era qualcuno, poi solo un gran vuoto. E il vuoto, a volte, fa male.

Gaddo

Tags: