Archive for settembre, 2010

il nero

Posted by zarianto on settembre 19, 2010
cronache / Nessun commento

E’ notte. Mi segnalano un paziente vittima di trauma maggiore che dovrà accedere alla sala operatoria per sottoporsi a sintesi di frattura di femore, verificatasi durante una fuga in motorino, per sfuggire alla cattura, da parte della polizia. Si tratterebbe di uno spacciatore che presenta anche una frattura vertebrale cervicale, senza deficit neurologico, stabilizzata con collare rigido. Poiché l’addestramento di anni mi spinge ad anteporre i problemi clinici ai giudizi morali, che per mia fortuna sospendo sempre con immediato automatismo, mosso dalla necessità di verificare le condizioni del paziente, mi reco in pronto soccorso, dove un nigeriano di colore, poco più che ventenne, dal fisico asciutto e atletico e dall’espressione tesa e preoccupata, giace in barella. Non parla italiano, evidentemente è da poco nel nostro Paese, ma, come molti nigeriani, si esprime assai bene in inglese, sicuramente meglio di me. Dopo aver parlato coi colleghi del pronto soccorso e presa visione della documentazione clinica, tento l’approccio con lui, nel mio inglese approssimativo, reso ancora più maccheronico dall’ora tarda della notte. Nella testa, cognizioni mediche e linguistiche si accavallano, minacciate dalle ombre incipienti del sonno. “Do you suffer from allergies? What about your medicines and drugs?…”. And so on! Ovviamente omette l’inseguimento da parte delle forze dell’ordine, ma mentre parliamo, quel viso, inizialmente ingessato di serietà, pian piano si anima, per sfociare, infine, in un sorrisone divertito e smagliante a trentadue denti, che tanto contrasta con il colore della pelle. Complice, sicuramente, la mia involontaria comicità linguistica. Mi chiedo quindi come quel giovane, dall’aspetto così “normale”, sano e finanche educato, possa vendere la morte e mi rispondo che forse, se fossi disperato e alla fame, lo farei anch’io!
Poco dopo arriva in pronto soccorso quello che presumo sia il fratello maggiore, alto un metro e novanta e piuttosto grosso e adirato o preoccupato -non riesco a capire: forse tutte e due le cose – scortato dalla polizia municipale; non appena si avvicina alla barella, i due si scambiano uno sguardo fugace e il giovane abbassa gli occhi e si fa serio. Non capisco quel breve incrocio di sguardi: rimprovero per l’atto delinquenziale o per essersi fatto beccare? Vista la collaborazione offertami dal fratello maggiore, penso si tratti di riprovazione. “Faccia tutto ciò che può”, mi dice, sempre serio e preoccupato e poi mi ringrazia in anticipo. Coi vigili urbani, alla ricerca di dati, è un po’ più oppositivo, sicuramente infastidito: non li manda a stendere, ma quasi, nonostante il loro garbo, ossequioso delle corporature!
A paziente sveglio e collaborante, procedo all’inserimento del sondino naso gastrico e poi, in sala operatoria, all’intubazione naso-tracheale col fibroscopio. Quindi addormento e il paziente viene operato. Al risveglio, le prime parole che sento sono: “God bless you”. Le ripete anche nei giorni seguenti, ogni volta che mi vede, accompagnandole con tanto di sorrisoni e imbarazzanti baciamano. Anche i famigliari mi augurano benedizioni divine: forse loro ringraziano tutti così! Sicuramente, io ringrazio loro.

“…dal letame nascono i fior” (F. De Andrè)

Zarianto

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ritmo, veloce!

Posted by Herbert Asch on settembre 07, 2010
pensieri / 1 Commento

SEI. Sei significa Squadra di Emergenza Interna
Squadra è una parola grossa. Per ora è l’Anestesista di Guardia per il Pronto Soccorso, dotato di uno Zaino una borsa dei farmaci da prendere in frigo e di un telefonino portatile DECT, che sarebbe come il cordless di casa ma che prende in tutto l’ospedale.
Lui da solo. Per ora. E allora diciamo che SEI vuol dire Servizio di Emergenza Interna che è più generico e meno impegnativo.
Ed il servizio consiste nel rispondere ed accorrere, ove necessario, alle chiamate urgenti per pazienti all’interno dell’ospedale.
Bella lì.
Ritmo, ragazzo, ritmo.
Accendi il motore e lascialo al minimo.

Se ci fate caso molti di questi racconti iniziano con una chiamata.
In fondo sei lì apposta per ricevere le chiamate, cerchi di fare qualcosa, di darti da fare in reparto, ma l’idea è che a un certo punto molli tutto e scatti, reagisci, parti, quando suona quel dannato DECT.
Ritmo, ragazzo, ritmo.
Salta su, metti la marcia, si parte.

Allora raccatti i farmaci nel frigo e lo zaino e mentre ti dirigi verso la chiamata cominci ad immaginarti che cosa può esserci sulla base delle poche cose che ti hanno detto per telefono.
E a farti l’itinerario per arrivare dove ti hanno chiamato. Pensando se ci sono ascensori fermi, porte chiuse, corridoi con lavori in corso.
Ritmo, ragazzo, ritmo.
Eccoti sul rettilineo, schiaccia.

Quando arrivi sul posto, cerchi di capire dov’è che ti hanno chiamato, in quale cavolo di stanza si sono nascosti a farsi le loro maledette pippe, guardi dov’è il carrello delle urgenze, se l’hanno preso, se l’hanno messo davanti alla stanza.
Li trovi e cerchi di capire cosa vogliono da te, se il paziente è acuto o cronico, giovane o vecchio, si sta spegnendo senza speranza o gli è successo un coccolone, caduto come un fulmine a ciel sereno.
cerchi di capire se lo devi ricoverare, aggredendolo e saturando di tubi e cateteri tutti i buchi che ha e anche qualcuno in più …
Oppure può darsi che ti renda conto che ti hanno chiesto solo di condividere una valutazione ultimativa, e la tua presenza li aiuta a spiegarlo alla famiglia.
Ritmo, ragazzo, ritmo.
Curve da tutte le parti, scala e riprendi.

Ora bisogna far qualcosa, dev’essere fatto.
Tutto e subito, magari anche prima.
Il paziente è cosciente?
Respira?
Ha circolo?
C’è il defibrillatore?
Ha una vena?
Come mai è ricoverato?
E adesso che cosa gli è successo?
Certo, ci sono gli schemi di intervento, procedure previste e prefissate per fare le cose nella sequenza giusta senza dimenticare nulla, ma di nuovo devi lottare con la tua ansia e quella degli altri che si aspettano delle cose da te.
Poi devi valutare se devi agire subito lì o puoi spostarti sui letti di Pronto Soccorso, dove lavori in ambiente più familiare.
Per carità, nei reparti non è che sei allo sbando, ma il personale non è così abituato alle procedure di urgenza, per loro possono suonare strani persino i nomi degli strumenti che chiedi… insomma qui da noi abbiamo deciso di fare così.
E bon.
E allora, mentre fai, telefoni a vedere se c’è posto, organizzi il personale, fai cercare una bombola di ossigeno, tieni d’occhio il monitor, pensi che farmaci vuoi portarti dietro già aspirati e pronti, valuti se la vena basta o se devi trovargliene un’altra…
Ritmo, ragazzo, ritmo.
Tieni la tabella ora viene il bello.

Se già non ce n’era stato bisogno prima, cominci a menare le mani.
Tocchi il paziente, gli parli -se ti capisce- e intanto il tuo computer interno immagazzina dati e sensazioni.
Alcuni sono più precisi e circoscritti: la pelle è calda o fredda, pallida o congesta, secca o sudata? come respira ‘sto cristiano? cerca di aprire anche le branchie se le avesse, o è così brasato che non ci pensa neanche più? Guardi i numeri: pressione, frequenza, saturazione, intanto monti il va-e-vieni per l’ossigeno, lo avvicini al volto: lo tollererà? gli cambierà qualcosa?.
La parte istintiva del cervello fa contemporaneamente un altro lavoro: registra le cose minime, lo sguardo, i gesti, la postura, l’aspetto: sta lottando o ha deciso di lasciare? sta impegnando le riserve? ne ha? sensazioni, raffronti con altri pazienti, passate esperienze.
Forse occhio clinico, ma non pompiamoci troppo.
Quasi sempre, pian pianino le cose prendono la loro strada, inizi a imbastire una storia, cosa c’è cosa fare, cosa serve, chi chiamare, qualche volta persino azzardi una diagnosi.
Ritmo, ragazzo, ritmo.
Se va bene fai tappa ai box.

Qualche volta le cose invece sono serie subito, senti che ti sfugge qualcosa e non sai cosa, il paziente ha qualcosa di inatteso, qualche manovra non riesce, sanguina da qualche parte che non riesci a trovare, la merda (metaforica) attorno sale improvvisamente invece di defluire e tu cominci a smuovere l’universo mondo.
E lì diventa lunga, ma lotterai fino alla fine, avrai pensato le strategie una dopo l’altra, man mano che si rivelavano, una per una inutili. E alla fine l’unica cosa che ti salva è che sei certo che finirà. Perchè qualcuno ti verrà a dare il cambio, perdio!
Poi risuonerai per qualche giorno e avrai qualcosa da raccontare.
Ritmo, ragazzo, ritmo.
Niente pit-stop continui con quel che hai, a manetta.

Te lo sei chiesto un sacco di volte chi te l’ha fatto fare e non hai mai saputo, o voluto, darti una risposta.
Ma a te piace così.
Finchè dura, finchè ce la fai, finchè non ti trovi col serbatoio vuoto come un bossolo sparato.

Meno male che hai ancora qualcosa da raccontare.

Herbert Asch

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