Archive for febbraio, 2012

Il filo rosso che ci unisce

Posted by massimolegnani on febbraio 23, 2012
cronache / 3 Commenti

Sabato mattina, reparto zeppo di variegata umanità.

Parecchio lavoro e una piccola fortuna, il buon affiatamento con infermiere e mamme con cui divido quelle ore. Alle mamme, che sono qui da qualche giorno, piace assistere ed essere partecipi di una specie di teatrino che improvvisiamo per le stanze, che le faccia sentire ancora vive, sapere la gravità dei figli eppur trovare il tempo breve delle risa. Fabio, per esempio, a due anni è un veterano d’interventi al cuore non sempre andati bene ed ha una mamma tenace, una specie di Penelope che nel silenzio tesse le speranze, tesse e sorride. Così a metà mattina Laura, l’inserviente che sembra la Litizzetto, si presta a punzecchiarmi e a ricevere bordate in mezzo al corridoio. Motivo del contendere è il risotto col radicchio che lei ha in programma di cucinare stamattina, nei ritagli di lavoro.
– Verrà la solita schifezza che dovremo ingurgitare a forza per non offenderla.
– Dutùr, si leccherà la pentola come sempre con quella sua lingua da vecchio formichiere.-
– Laura lei è meglio in cucina che in reparto, è vero, ma è la differenza che c’è tra zero e meno uno.-
– Le darei una mestolata sulle orecchie
da gonfiargliele un altro po’ che già così mi sembra Dumbo.-
Ride la piccola folla, ride la mamma marocchina che pure non capisce una parola d’italiano, ride la mamma di Fabio che profetizza divertita:
– Vedrete, capiterà l’urgenza al momento sbagliato e allora, buono o cattivo, addio risotto. –

Barbara, in effetti, arriva poco dopo la mezza e a Laura si smorza in gola l’annuncio di pronto in tavola. La conosciamo Barbara, quando arriva passa tutto in secondo ordine. Ha sedici anni e una rara malattia che le rovina la vita. È una bella ragazza, ingabbiata in un gonfiore non suo, me la ricordo prima che iniziasse la terapia, mora e slanciata con gli occhioni neri.
Oggi ha gli occhi persi, come ubriaca. L’hanno portata col 118 direttamente in reparto, che la madre gridava di non perdere tempo in Pronto Soccorso. Adesso è lì, distesa sul lettino, bianca e gialla come un cencio lavato male e fatica a respirare, anzi è già così sfinita che non fatica più, rinuncia quasi a respirare. L’ausculto in fretta ma so già, i polmoni sono a bagno nel suo sangue. Laura, Alessandra ed io facciamo come automi i gesti dell’urgenza, la vena, l’ossigeno, il monitor, i liquidi, un prelievo, la saturazione.
Riusciamo a riportarla ad una ossigenazione accettabile, ora possiamo ragionare. E ragionare significa decidere a chi rivolgerci. Non è una paziente che si possa gestire in pediatria, Barbara ha bisogno di un reparto di rianimazione, qui o a Torino. Lo spiego a sua mamma. Lei guarda la figlia che ha sentito le mie parole e subito si è agitata dietro la maschera.
– Non mandatela via. Barbara ha bisogno di stare tra gente che conosce. Io le devo stare vicina per rincuorarla.- L’anno scorso in rianimazione è stato un dramma. Le ho giurato che mai più.
Il monitor lampeggia e gracchia a ricordarci la gravità della situazione. Dico alla donna che è un grosso rischio trattenerla qua, Barbara potrebbe non farcela. Ma la signora ha gli occhi lucidi e quella calma determinata che non mi lascia scelta. La sistemiamo in una stanzetta senza altri ricoverati e lei, da quando ha capito che resta con noi, è più tranquilla anche se sta molto male. Faccio venire in reparto il collega della rianimazione, che sia al corrente del caso e sia pronto a intervenire se necessario.
Alessandra trotta da una parte all’altra e non sbaglia una mossa. Laura usa la sua arma migliore, la parola, chiacchiera con madre e figlia, racconta, distrae. Barbara ascolta, non ha certo la forza di rispondere, ma a un certo punto le affiora anche un sorriso.
Così passano le ore in questo vivere precario, fatto di affanno e attesa.
Ho concordato la terapia con quelli di Torino ma è soprattutto l’assistenza respiratoria che conta in questi casi.
Do il cambio a un collega e vado qualche ora a casa.
Quando torno a sera, la situazione non è cambiata. Barbara è sotto ossigeno al 100%, ma l’ossigenazione del suo sangue è sempre bassa.
Sarà una notte lunga.
Ora c’è Emilia a lavorare, poi arriverà Sandro. Sono i due infermieri migliori e questo infonde fiducia a tutti, a me per primo. E nessuno protesta per un compito difficile che forse nemmeno gli compete.
Barbara si agita, ha un dolore insopportabile al petto, come un infarto, ma non è il cuore, sono i polmoni che si espandono e premono. E con l’agitazione peggiora il rendimento respiratorio. Tornano i rianimatori, diventano figure familiari per madre e figlia. Insieme concordiamo di usare la morfina. Potrebbe deprimere il respiro, ma noi speriamo che alleviando il dolore il beneficio, anche respiratorio, sia superiore al danno. Barbara si acquieta, non ha più male, e soggettivamente si sente meglio, anche se il monitor non è d’accordo. Si lascia bucare per i controlli senza protestare e poi s’assopisce. Riparlo con la mamma, ho un cauto ottimismo ma insisto anche sulla necessità della rianimazione al minimo peggioramento. Nel sonno le cose vanno abbastanza bene, ma ogni volta che la ragazza si sveglia la saturazione scende. Andiamo avanti di morfina e cortisone e tanto ossigeno. Noi che le stiamo intorno alterniamo fiducia e preoccupazione. La paura è tanta, ma il clima è buono.
Attraversiamo la notte senza accorgerci.
Al mattino la situazione è immutata. Barbara è più rilassata, dice qualche parola, ma il suo respiro non va bene. La mamma capisce e la prepara con dolcezza alla necessità di altre cure che noi non possiamo fornire. Qualche lacrima riga il viso dietro la maschera, ma non è più il rifiuto del giorno prima. Le hanno detto che la mamma potrà starle vicino quasi tutto il tempo, Barbara accetta. Così l’accompagniamo in rianimazione. L’accolgono bene, a coccole e sorrisi. Le sistemano uno scafandro in testa che le manda ossigeno sotto pressione. È un aggeggio fastidioso, ma sempre meglio che essere intubati. E la saturazione finalmente sale.
Torno a trovarla nel pomeriggio. Ha avuto il permesso di sfilare il casco per mezz’ora. Si sta facendo pettinare. Nella saletta dei visitatori i suoi amici la salutano dalla telecamera. Lei li guarda nel televisore e solo quando è ben pettinata si mostra loro in video. Questo mi dice del suo miglioramento più dei tanti monitor.

Scendo in reparto, incontro la mamma di Fabio, che oggi non va tanto bene. Eppure la donna come mi vede, finge di proteggersi con un braccio:
– mi creda, non volevo portarvi così tanta sfiga! –
È una mamma coraggiosa, che sa ridere tra una lacrima e un patema.

Ecco, mi fermo qui, a metà di una domenica. Questo non è un racconto, dalla trama ben confezionata e dalla conclusione chiara, è un tratto di vita, dove tutto s’intreccia e resta lì sospeso, incerto, fino alla fine.
Ma l’altra notte ho visto il filo rosso che ci unisce, tutti.

Massimolegnani

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Obiezione di coscienza

Posted by blue dolphin on febbraio 04, 2012
cronache / 10 Commenti

Pomeriggio di guardia. Ostetricia.

Mi annunciano il menù di oggi: una parto-analgesia da iniziare e un cesareo della mattina da rivedere in reparto. “Ah, sì, e poi c’è l’IVG, dottoressa.” Già, siamo ad agosto: il distretto sanitario dove si fanno abitualmente è chiuso, quindi, eccezionalmente, ce ne occupiamo qui in ospedale. Da quando lavoro qui non mi era ancora capitato.

Mi chiedono se sono obiettrice. Che strano, ogni volta che sento questa espressione: obiezione di coscienza, provo come un fastidio. Obiezione…bellissima parola. Coscienza…ancora più bella, vibrante, dignitosa. Come mai messe insieme non mi fanno più una bella impressione, allora? Come la nutella e la maionese! Sarà qualcosa di personale, senz’altro.

Sarà, per esempio, che penso al mio collega della mattina che ha “obiettato”, così che una donna che era qui dalle sette, pronta e digiuna, sta ancora aspettando che qualcuno la chiami. Con i propri pensieri e le proprie paure.

Quando rispondo ”scusate ragazze, ma vi sembro un prete o un’anestesista?” vedo facce inacidite intorno a me …no, decisamente l’ironia non è la miglior virtù delle ostetriche.

Almeno non di queste.

Ci siamo tutti, si può chiamare la signora. Non è che sia stato così facile, però: un’ostetrica di sala, obiettrice, è stata sostituita da una del reparto. Idem per il ginecologo. Tutti i presenti hanno esercitato la propria scelta, come prevede la legge. Il che dovrebbe farmi supporre che per tutti noi quello che stiamo per fare è solo un atto medico. Nessun giudizio, no? Anche perché, tecnicamente parlando, si tratta di una routinaria revisione di cavità, tale e quale a quelle spontanee, come se ne fanno tutti i giorni, mattina e pomeriggio. Naturale o volontaria che sia, non sono affari nostri.

La mia supposizione è evidentemente sbagliata. Il clima è un po’ teso, imbarazzato. Vado a conoscere la donna, visita e domande di rito, torno in sala operatoria, annuncio il nome della paziente che sta per entrare e subito si alza un coro di galline:

“ma…è italiana??”.

Beh, santiddio, è vero che siamo ormai un melting pot, ma ancora qualche paziente italiana ci è rimasta! “No, sa, è che per fare certe cose, di solito sono straniere…”.

Certe cose”.

A 33 anni dalla 194. Un pomeriggio di agosto del 2011, nel civilissimo ospedale multiculturale di questa regione così “avanti” in Italia (beh…ti piace vincere facile, eh?), in mezzo a persone, non dico intelligenti -la mancanza di ironia era già un triste indizio- ma con un livello di istruzione cosidetto superiore, che non si dichiarano obiettrici… ecco il tabù che proprio non ti aspetti.

Chissà, forse per alcuni è così difficile accettare quelle “certe cose”, nascoste sotto le sigle di IVG, RCU, 194 (che poi sempre un aborto è), che l’unica soluzione passabile che hanno trovato è stata quella di immaginarsi sempre e solo una derelitta: straniera, senza permesso di soggiorno, povera, poverissima, magari anche violentata. Ah, sì, di sicuro è stata violentata poveretta, sennò come si spiega? Invece no, eccola lì l’impunita: è italiana, così a occhio direi ceto medio, niente lividi morbosi sul corpo. Non è un’adolescente sprovveduta. Non sembra neanche una tossica. Eccola là, a sbattere in faccia a tutti i presenti la propria scelta. Questa donna aveva il diritto di scegliere e l’ha esercitato. Avrà passato settimane a pensare, considerare, immaginare, come una partita a scacchi in cui ogni azione ha una conseguenza. E questa è la sua mossa con le sue conseguenze. Questa è la sua obiezione. E’ lei l’obiettrice di coscienza. E noi non ne conosciamo le ragioni, nè sta a noi conoscerle o tantomeno supporle.

Sono molti mesi che lavoro in questo ospedale, ma ci voleva un pomeriggio di agosto in cui il distretto sanitario è chiuso per accorgermi di quanto possano essere imbarazzanti persone con cui lavoro tutti i giorni. Persone che lavorano da sempre con le donne e per le donne: gentili, cordiali, capaci di fare un complimento ad una mamma persino davanti ad un neonato palesemente brutto, a dare loro coraggio anche quando la situazione sembra sfuggire di mano e che adesso hanno improvvisamente difficoltà a guardare questa donna negli occhi e ad essere altrettanto gentili e incoraggianti; colleghi che hanno vite spesso “non convenzionali”: tante ostetriche e dottoresse hanno figli senza essere sposate, tra gli uomini solo due ginecologi non sono (ancora) divorziati, una OSS è una lesbica dichiarata… Tutto questo è accettabile. Anzi di più: è giovane, è moderno, è anche un po’ “di sinistra” se vogliamo buttarla sulla politica!

Invece la scelta di una donna che ora è nuda davanti a noi che siamo vestiti…no, non lo è altrettanto, evidentemente. In nome di cosa, di grazia? Di una vita potenziale? Ma se adesso, proprio davanti agli occhi, abbiamo una vita reale e non riusciamo a trattarla con rispetto?

Colgo sguardi complici e borbottii a mezza voce “ma quanti anni avrà?”. La donna se ne accorge ma sta zitta.

Urlerei io, in compenso. Sono così imbarazzata per i miei colleghi che non mi basta più fare da sola sforzi di gentilezza alla signora.

Che poi, a dirla tutta, non è che l’empatia con i pazienti sia proprio la mia miglior virtù… Mi auguro che il midazolam della premedicazione (tanto midazolam!) la immerga nell’oblio e nell’amnesia. E ringrazio il santo propofol, quando il sonno profondo mette un muro tra lei e quell’idiota che dice “Certo che a quell’età lì una dovrebbe saperlo come si rimane incinte, no?”.

Perché, durante un’emicolectomia, non sento mai dire “Certo che di questi tempi lo sanno tutti che le carni rosse e i salumi fanno venire il cancro, no?”

Cinque minuti. Tutto questo teatrino per cinque minuti di intervento. Pago il mio buon midazolam con un risveglio un po’ più lento e poi a letto.

Il pomeriggio prosegue e anche le mie riflessioni. Mi chiedo se sia stato un caso: una congiuntura di persone particolarmente stupide tutte nello stesso turno? Può darsi, conosco tanti colleghi che non si sarebbero comportati così. Ma se un giorno ci fossi io lì, nuda come un verme? Un preservativo bucato, una pillola saltata, una spirale dispettosa…la mia obiezione di coscienza…mi addormenterei sapendo che, appena chiusi gli occhi, qualcuno si farebbe i cazzi miei.

Passano le settimane. Mi capita di leggere un libro, ormai un “vecchio” libro: “Lettera ad un bambino mai nato“, 1975. Beh…non è poi un vecchio libro: forse oggi che una madre sia formalmente signora o signorina importa meno di allora, ma per il resto sembra che in quelle cento pagine si svolga il mio anacronistico pomeriggio di guardia. Ed è triste.

Leggo: “…Il suo delitto non ha attenuanti, signori. Perché lo commise in nome di una illegittima libertà…”

Mi chiedo, nel 2011, come e da chi una qualsivoglia libertà possa essere ancora dichiarata illegittima.

Blue Dolphin

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