La cura dell’agonia – prima parte

Posted by Herbert Asch on gennaio 11, 2014
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Foto di HA

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Oggi, e nei prossimi tre post ho pensato di proporre questa memoria, scritta da un medico illustre della fine dell’800, Scipione Riva Rocci, noto per aver inventato lo sfigmomanometro.

La memoria, del 12 gennaio 1898, è riportata nel libro “Buona Sanità – Storia di un Ospedale” di Francesco Scaroina. (Pintore Ed. Torino, 2005.) da cui l’ho tratto.

Ad una lettura superficiale può essere noiosa, e credo che possa essere apprezzata soprattutto da addetti ai lavori, vi sono molti termini tecnici spesso ormai abbandonati, ma trovo che, ad una lettura più attenta, si presti a diverse interpretazioni: intanto dà un’idea di come si sia evoluta la farmacopea e in genere gli strumenti a disposizione del medico. Inoltre risalta molto il ragionamento clinico, descritto molto bene dall’autore. Si può poi notare come la compassione verso il paziente sia rimasta la stessa quale è sempre stata sin dalla nascita delle professioni (o arti) mediche e assistenziali. Infine, nell’ultimo brano troviamo l’esplicitazione dell’atteggiamento verso la sedazione terminale sopravvissuto ancora sino a qualche tempo fa.

H.A.

La cura dell’agonia.

Ero venuto a casa inquieto quella sera: prevedevo una catastrofe per la notte. Cacciatomi sotto le coltri, non riuscivo a prendere il sonno; battevano le undici e mezza, le dodici, ed io stavo ansioso, in orecchi, sussultando ad ogni rumore di carrozza, che sonasse sul selciato della strada.

Finalmente ero riuscito ad addormentarmi, quando una forte scampanellata mi fece balzare sul letto: sapevo di che si trattava; senza aspettare che andassero ad aprire, accesi i lume e mi vestii, in modo che mi trovai subito pronto a partire.

Sulla porta semiaperta dell’alloggio mi aspettava ansiosa una donna.

– Venga presto, dottore! Me lo salverà, non é vero? Sta proprio male –

Le parole, sussurrate, si spegnevano sui tappeti morbidi, nelle cortine pesanti del corridoio d’entrata. Sotto la luce rosea ed incerta d’una lampada colorata avevo visto passare senza rumore, in salotto, un’ombra nera, il prete; in quel silenzio pesante s’udiva soffocato e lontano un rumore strano, ritmico, con pause rotte.

Come s’era accresciuta la dispnea in poche ore!

Che fare? Era la fine della terza giornata: era là, appoggiato ad un cumulo di guanciali, d’un accensione cianotica alle guancie, coll’occhio iniettato e lucente, e la pupilla larga e profonda, nelle brevi tregue dellla dispnea rumorosa che lo affaticava, muoveva il capo cercando il refrigerio d’un pezzetto di ghiaccio sulle labbra riarse.

Che fare? Potevo io tentare qualcosa contro quella epatizzazione, che aveva convertito in un blocco solido successivamente tutte e due i lobi dei polmoni? Potevo impedire, frenare, ridurre, anche in minima parte quell’intossicazione, che lo prostrava nell’attività dei visceri più necessari alla vita? Avevo qualche cosa che potesse stimolare o accrescere la resistenza di questi organi, che si vedevano cadere di minuto in minuto?

Non era il caso, nè avevo il modo di curare la malattia: purtroppo in questa, come in tante altre, noi siamo ridotti ad una terapia puramente sintomatica e sovente anche empirica. Oramai era troppo tardi anche a tentare una cura sistematica. A nulla avrebbe giovato il bagno, od il freddo locale, se non fosse ad accelerarne la fine colla fatica che gli si doveva necessariamente imporre. D’altra parte anche questa terapia, praticata nei giorni precedenti, non aveva impedito di trovarsi ora all’agonia; il bagno e la perfrigerazione cutanea – nei momenti supremi – ha fallito sempre. Quanto pure non ha aggravato la posizione, nè qui nè in altri momenti simili di qualsiasi malattia, era il caso di pensarvi.

Era il caso ed era il tempo di praticare una revulsione cutanea? Il vescicante abbisogna, per produrre un effetto qualsiaisi, di parecchie ore. Dopo un quarto d’ora, nei casi fortunati, incomincia la trasudazione, ma nelle maggior parte delle volte occorre un’ora e anche più perché si sollevi una bolla. Potevo credere che il mio malato mi desse un’ora di tregua?

Ed ottenuta la vescicazione potevo sperare un’attenuazione dei sintomi? Evidentemente non avrei potuto ottenere un effetto che in due modi: o modificando -diminuendola- l’intossicazione. Sia sottraendo col siero della vescica un po’ del tossico circolante, sia colla modificazione dell’equilibrio chimico, per la penetrazione di un po’ del materiale irritante del vescicante o del siero da esso modificato.

Pure e mere ipotesi

Oppure ancora come irritante cutaneo, agendo sui centri nervosi in maniera da rendere piú forte la regolazione del cuore ed il tono vasale. Anche questa una spiegazione pei casi felici. Non c’erano, è vero, controindicazioni. Non esisteva una vera nefrite, non si trattava di quelle malattie, come il tifo, lo scorbuto, le setticemie, che, per sè, controindicano ogni lesione di continuo della cute come pure i centri nervosi, -avvelenati, forse- non erano certo infiammati in modo che avessi a temere poi escare da paralisi trofica, superato il pericolo.

Bilanciato il pro ed il contro avrei potuto forse tentare. Evidentemente dovevo cercare un vescicante che irritasse: non potevo usare -come in altri casi non urgenti- il vescicatorio indoloro (canfora, idrato di cloralio, mentolo, sugna depurata o vaselina) preparazione sovente infedele. Era necessario usare un vescicatorio cantaridato: il vescicatorio rosso o i quadretti di Albespeyres, usualmente abbastanza buoni se ben conservati.

Potevo mandarli a prendere per averli sottomano.

(1 – continua)

“La cura dell’agonia” di Scipione Riva Rocci è integralmente riportato nel libro “Buona Sanità – Storia di un Ospedale” di Francesco Scaroina. Pintore Ed. Torino, 2005.

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Assaggia ogni giorno un pezzo di mondo

Posted by Herbert Asch on dicembre 25, 2013
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Foto di MV

Foto di MV

In quest’anno sono nati molti figli di quella generazione di specializzandi che, anni fa sono venuti, tutti insieme, a lavorare nel mio ospedale. Dopo aver faticosamente tirato la carretta nei primi durissimi anni, piano piano  hanno messo su famiglia.

Adesso tocca a loro crescere i figli, come son cresciuti i nostri.

A loro dedico questo post di Irene Amodei, giornalista de La Stampa di Torino, che ho trovato geniale, bello, essenziale. Auguri!

“Assaggia ogni giorno un pezzo di mondo. Una fetta, una briciola, come vuoi. L’importante è assaggiare. Perché finché non assaggi, non puoi sapere davvero che gusto ha. Non permettere mai che la paura di sbagliare t’impedisca di tentare qualcosa di nuovo. Tuo padre è uno scienziato e non te lo perdonerebbe. L’errore è scoperta, creazione, fantasia. Impara ad ascoltare le storie dai nonni, a ballare senza musica, a battere le mani fuori tempo, a cantare canzoni sconosciute, nella lingua delle stelle. Non rivelare tutti i segreti, trova il tempo per la noia, soprattutto trova il tempo, e non lasciare che ti scappi tra le dita.

Spòrcati di fango sotto la pioggia, aggràppati alla roccia con le mani nude, scòttati le dita con il pane caldo, starnutisci e ridi senza trattenere dentro niente. Piangi quando non è possibile fare altro, e non averne vergogna. Arràbbiati, ma non troppo con te stessa, se ci riesci. Ammira il volo delle anatre, il loro infinito coraggio non è per tutti. Prendi esempio e dai l’esempio. Grida per difendere le tue idee, assapora l’attesa, ma vivi nel presente, facendoti guidare da sogni a colori. Sfida l’arroganza con l’intelligenza, lotta con tutte le forze che hai, indìgnati di fronte all’ingiustizia, e cerca nel frattempo di essere felice. Impara a rispettare le regole, quando ti sembra abbiano un senso. Diffida degli ordini, fìdati dei consigli, pensa in grande. Sappi che ci sono altri colori oltre al rosa, che nelle fiabe il garzone potrebbe sposare il principe, e non solo la principessa, che un paese può scegliere lucidamente di non avere un re, e vivere lo stesso, felice e contento.

Hai appena compiuto 5 anni. Distingui la mano destra dalla sinistra, la emme dalla elle (maiuscola), la gioia dalla tristezza. Sei curiosa, gentile, affettuosa e a tratti petulante, d’altronde ce l’hai nei geni. Possa l’anno che viene illuminare un po’ la tua strada. Ovunque vada.”

Irene Amodei

comparso nella rubrica “Vivere altrove” dell’inserto Torino Sette su La Stampa, (col gentile consenso dell’autrice)

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Come eravamo…

Posted by Herbert Asch on dicembre 21, 2013
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Foto di HA

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Ho ritrovato questo ritaglio di un articolo, di vent’anni fa o giù di lì. Purtroppo non ricordo più su quale giornale o rivista fosse stato pubblicato.
Lo avevo tenuto perchè dava molto bene l’idea di come si siano evolute le cure al paziente negli ultimi cinquanta anni. Lo ripropongo adesso, lasciandovi all’ultimo la rivelazione del personaggio cui si riferisce…

Al primo esame del malato è stato accertato quanto segue: il malato sta disteso sul divano, sulla schiena, la testa volta a sinistra, gli occhi chiusi, c’è stata una urinazione spontanea (il vestito è bagnato di urina). Al tentativo del medico di sentire il polso sinistro si è registrato un movimento della mano sinistra e della gamba sinistra. Polso: 78 battiti al minuto. Pressione: 190/110. Il malato è privo di sensi. I movimenti degli arti nella metà destra del corpo sono assenti. In quella sinistra si notano brevi movimenti. Diagnosi: pressione alta, arteriosclerosi generale con prevalente lesione dei vasi sanguigni dell’encefalo, emiplegia nella metà destra del corpo a causa dell’emorragia nel bacino dell’arteria media sinistra, cardiosclerosi, nefrosclerosi. Le condizioni del malato sono estremamente gravi. Indicazioni: regime di degenza e di riposo assoluto. Lasciare il malato sul divano. Applicare mignatte dietro le orecchie, un micoclisma ipertonico (un bicchiere di soluzione di solfato di magnesio al 10 %) Togliere la dentiera. Nessuna alimentazione per oggi. Provvedere a stabilire turni continui, giorno e notte, di un neuropatologo, un terapeuta ed un infermiera. Inoltre, con molta cautela, con un cucchiaino, liquidi, senza che gli vadano per traverso.

Perizia medica sullo stato di salute del compagno Stalin.
Il consiglio dei medici, di cui fanno parte Kuperin, Lukomskij, Glazunov, Tkaciov, Ivanov-Nezmanov, ha condotto alle ore 7,00 del 2 marzo, una perizia medica sullo stato di salute del compagno Stalin.

Stalin è morto il 5 marzo 1953

Herbert Asch

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Il peso dell’anima

Posted by Herbert Asch on giugno 11, 2013
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Agli inizi del ventesimo secolo ad Haverhill (Massachusetts), Duncan MacDougall (medico statunitense, 1866–1920), cercò di misurare la massa ipoteticamente persa da un essere umano quando l’anima lascerebbe il corpo al momento della morte. Nel 1907 MacDougall pesò sei persone al momento del trapasso (nessun dettaglio viene riportato sul metodo utilizzato o sugli intervalli di misurazione) e portò i suoi risultati a sostegno della teoria che l’anima avesse un peso. Nel marzo 1907, i risultati di MacDougall vennero pubblicati dal New York Times e dalla rivista di medicina American Medicine. Gli studi, anche se ritenuti non scientifici per l’esiguo numero di campioni e la non ripetibilità, avrebbero stabilito che il peso dell’anima umana sarebbe di 21 grammi.

(tratto da Wikipedia)

Pensa te…

 

 

 

Herbert Asch

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Civitanova – 2

Posted by Herbert Asch on aprile 14, 2013
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illustrazione di US

illustrazione di US

 

Sospiro 8, Servizio Oncologico (Maria)

Anche la morte è diventata virtuale in questo mondo e nessuno l’accetta più nella propria carne. Quando gli uomini e le donne arrivano qui sono stupiti – soprattutto stupiti – spaventati e certi d’incontrare, nel mio volto, quello della loro morte che ha la mia voce, i miei occhiali e la mia firma sulle loro ricette. Non mi sono mai sentita particolarmente bella, e all’inizio quegli sguardi peggioravano la mia insicurezza, ma ora  ho imparato ad accoglierli e non succede più.

Scelsi l’oncologia perché c’era maggiore probabilità di trovare un posto in specializzazione, e così di avere le carte in regola per fare il medico in ospedale. La laurea a quei tempi non valeva già più niente, e proseguendo con l’inflazione dei titoli, sarà sempre peggio.

Ma allora tutto questo stava solo iniziando e non mi rendevo conto delle conseguenze, sapevo solo che senza specializzazione non sarei andata da nessuna parte e mi buttai dov’era più facile entrare. Da giovani si cerca di avere un posto sicuro, uno stipendio e una casa in cui vivere. 

Spinta da questo iniziai a entrare nella carne impazzita degli esseri umani, quella cannibale e suicida del cancro: l’ho odiata, mi ha terrorizzato, appassionato, stupito, e alla fine l’ho accolta nella mia vita di tutti i giorni. Di quando preparo da mangiare, faccio i compiti coi figli,  li porto in piscina e gli dico buonanotte; di quando faccio all’amore col mio uomo e ci addormentiamo abbracciati. Abitiamo in campagna per fortuna, nella vecchia casa dei suoi nonni che abbiamo ristrutturato e sono contenta che i bambini possano crescere tra piante e animali. Avranno più confidenza con  la vita e la morte  per quello che sono sempre state, anche prima che arrivassimo noi umani. Per me che sono cresciuta in città è stato tutto nuovo quando ci siamo trasferiti e difficile all’inizio, ma ora è come se fossi nata qui. A un certo punto ci si accorge che la vita è un puzzle di pensieri, incontri e scelte che prende forma partendo da tentativi e incastri fortuiti.

Adesso nella mia,  vedo un’oncologa che vive in campagna col marito e i figli e non cambierebbe questo per null’altro al mondo. Mi sorprendo spesso a guardare dal finestrino il paesaggio intorno alla strada che va da casa nostra all’ospedale, e qualche volta mi fermo. I rami degli ulivi cambiano colore sotto il vento d’autunno. Il grande mandorlo fiorito dichiara la primavera. I girasoli sulla collina cantano il coro dell’estate. Il grano d’inverno spunta verde dalla terra bruna. E, ogni anno, mi dico di fotografarlo alto prima della mietitura ma non lo faccio, e so che non lo farò mai per dirlo ancora l’anno che verrà. Cammino sola al margine del campo carezzando le spighe ed è un momento solo mio, bello e terribile come il parto.

A ogni giugno bisogna restituire alla morte i suoi diritti, e tra le spighe mature, la prego di lasciarmi fare ancora questo gioco. L’anno scorso me lo ha concesso, il prossimo si vedrà. In ospedale stiamo insieme tutti in giorni, lei fa il suo lavoro ed io il mio: è bello incontrarsi fuori almeno una volta all’anno. Il grano maturo accanto alla strada racconta la grande fame del mondo, la fatica degli uomini, la speranza e la certezza della morte. Sono le stesse cose che ascolto sul lettino bianco del mio studio (proprio le stesse) ma con un nome, una voce, un gesto.

Nel cassetto ho una penna, una biro da due soldi che conservo gelosamente, me l’ha data un uomo i primi tempi che ero qui… non trovavo la mia per scrivergli la ricetta e lui con un sorriso mi porse la sua dicendo che a lui non serviva più. Era un sorriso vero e buono che mi ritorna ogni volta che guardo le spighe mature. Quell’uomo chinò dolcemente il capo alla falce prima che la grande fame del suo cancro mordesse con troppo dolore… La fame, la fame delle cellule impazzite è insaziabile e primitiva. Ė la forza originaria della vita, che senza più regole reclama nutrimento solo per se stessa. Per lei non esistono l’organismo e gli equilibri necessari alla vita ma solo l’istinto di moltiplicarsi e mangiare. Il flagello delle locuste o le fauci degli squali sono solo  le altre facce  della stessa fame che conoscono tutti. Ma quando è all’interno del corpo, sono soltanto io a vederla e il risultato non cambia: finito il cibo, finisce anche la vita e il cancro muore con il suo ospite. A volte si riesce a vincere (molti usano il verbo vincere al posto di guarire; a me non piace). Altre volte, si costruiscono delicati compromessi tra  morte e vita, che anch’io chiamo tempi di sopravvivenza. Sono le lunghe trincee dove ho imparato a conoscere  donne e uomini, senza cessare di sorprendermi della loro infinita diversità. A volte abbiamo combattuto insieme, altre abbiamo solo aspettato, altre sono rimasta sola nella terra di nessuno perché anche  non volere alleati è un diritto. Quello che non riesco a spiegarmi è come mi vengano lesinate le munizioni con la fondata ragione che costano troppo ( i farmaci anti tumorali sono costosi!).

Mi chiedo come sia possibile che non possiamo più pagarli, e penso che qualche altro cancro sta divorando le nostre risorse. Certi umani sono affamati come le cellule di un tumore, ma più intelligenti. Dopo aver divorato l’organismo di una società migrano altrove su un aereo privato senza suicidarsi nel cadavere che lasciano. Sono metastasi che diventano più immortali ad ogni fuga. Nonostante squali e cavallette umani, continuo a carezzare il grano per il dovere della vita che lo semina e il diritto della morte che lo falcia. Perché alla fine, con o senza munizioni, quando ogni arma è inutile e anche la trincea scompare, l’uomo è in un luogo senza nome che non somiglia ad altro; è solo e possono raggiungerlo soltanto le parole care, i volti amati. Restituire alla morte i suoi diritti è l’abbraccio che lo accompagna fin dove può sentire.

 

Quando siamo venuti al mondo, mani delicate ci hanno stretto al cuore nell’abbraccio di benvenuto: dev’esserci lo stesso abbraccio anche quando ce ne andiamo, se vogliamo che la morte riconosca ancora donne e uomini.

 

 

 

tratto dal libro “Buongiorno Dottor Cronin” di Ubaldo Sagripanti – gli utili di vendita andranno all’emporio della solidarietà del comune di Civitanova: un posto dove distribuiscono beni di prima necessità a chi ne ha bisogno

 http://www.amazon.it/Caro-Dottor-Cronin-ebook/dp/B00BTNNJWS 

 

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Civitanova

Posted by Herbert Asch on aprile 13, 2013
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Foto di HA
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Di solito sono preciso, man mano che i post arrivano li metto in ordine e programmo la pubblicazione, mantenendo rigorosamente l’ordine di arrivo.

 

Giorni fa ci è arrivata una mail, un amico ci ha inviato addirittura un e-book. Non erano molte pagine e, in attesa di leggerlo, comunque, mi sono tenuto sulle generali. Pensavo che, visto che era pubblicato ed in vendita, anche se non certo a caro prezzo, avremmo potuto postare un piccolo estratto, indicando poi il link per eventualmente acquistarlo.

 

Quindi ho risposto chiedendo cosa ne voleva fare.

 

Poi, in una interminabile seduta operatoria, ho avuto il tempo di leggere il libro, e devo dire che mi ha preso bene.

 

La risposta è arrivata quasi contemporaneamente alla fine della lettura:

 

“Ciao Asch, sono contento che il libro ti interessi, ma vedi com’è la vita, oggi mi trovo a risponderti in un modo che non avrei immaginato quando ti ho inviato Caro Dottor Cronin, il quattro aprile. Forse non lo sai ma io vivo a Civitanova Marche, un qualsiasi posto della costa adriatica fino a tre giorni fa, poi all’improvviso due brave persone si impiccano in uno sgabuzzino chiedendo perdono e una terza, appena lo scopre, si getta in mare e li segue; così questa mia piccola città di provincia diventa il simbolo della sofferenza della gente in tempo di crisi.

 

Ma facciamo un passo indietro.

Circa un anno fa mi venne l’idea di scrivere qualcosa che raccontasse chi siamo noi medici di oggi, cosa pensiamo e sentiamo mentre marchiamo il cartellino; credevo che la gente dovesse sapere chi c’era dentro i camici cui s’affidava.

Non l’ho scritto e lo confesso a te, ma credo che siamo in una condizione simile a quella dei fanti della prima guerra, che se non saltavano fuori dalla trincea o non avanzavano adeguatamente, venivano ammazzati da altri soldati italiani a questo deputati. Si poteva quindi scegliere soltanto tra una pallottola austriaca e una italiana. Noi medici di questo SSN derubato, truffato, tarlato e falsamente aziendalizzato abbiamo la malattia al posto degli austriaci e i politici che ci sparano alle spalle. I pazienti, gli esseri umani che vogliamo curare, in tutto questo, invece di essere la patria da difendere, stanno sdraiati e aspettano nella terra di nessuno (mi vergogno di questa similitudine offensiva per i fanti e spero che mi perdonino se li ho paragonati a noi, ma è solo per la emblematicità di quanto accadde a loro).

Sempre per i casi della vita, mia madre mi restituì una vecchia copia di E le stelle stanno a guardare venuta fuori da uno scatolone dei tempi del liceo. Rileggendo Cronin non ho potuto fare a meno di trovarvi  le similitudini sconcertanti di cui parlo nel prologo del libro e che mi hanno spinto a sceglierne il titolo.

Finito il lavoro, ho pensato che potevo farne qualcosa di utile a chi ne avesse più bisogno e se vai al link

 

http://www.amazon.it/Caro-Dottor-Cronin-ebook/dp/B00BTNNJWS 

vedi che avevo deciso di devolvere gli utili di vendita (anche se probabilmente simbolici) all’emporio della solidarietà del comune di Civitanova: un posto dove distribuiscono beni di prima necessità a chi ne ha bisogno.

Pensavo che la prima forma di cura sia quella di garantire almeno il nutrimento.

L’undici marzo, quando il libro è stato pubblicato, mi sentivo soddisfatto della mia scelta e del lavoro. Giorni dopo veleggiando nella rete mi sono imbattuto nel vostro sito, l’ho visitato e mi è piaciuto molto (adesso faccio lo psichiatra ma ho cominciato come medico di pronto soccorso e conosco l’odore delle notti di guardia), così vi ho inviato volentieri una copia, era il quattro di aprile.

Il cinque aprile si sino ammazzati in tre, e il sei aprile, il Presidente della Camera è venuto in piazza da noi, in chiesa e in comune. Questa mia piccola città è stata sparata sui media in ogni forma, ognuno ha trovato il modo di dire la sua: dall’ OMICIDIO DI STATO, a Vittime della DIGNITA’…

Quante parole, e a sera, leggendo la tua mail, non me ne venivano per rispondere alla tua domanda: che ne vuoi fare?

Ho aspettato e penso che, nonostante tutto, continuare a parlare e diffondere quando tutto sembra insensato può sempre rappresentare, se non altro, una ricerca di senso. Inoltre, seppure la scelta di attirare l’attenzione su chi si trovava in condizione di improvvisa e imprevista povertà è stata per il momento inutile (e a vederla da qui, davanti a quei morti, simile ai soliloqui di certi miei matti), credo che sia coerente proseguire. Non solo, se oggi qualcuno è morto perché dopo una vita di lavoro non aveva più di che sostentarsi, continuando così, non è da escludere che domani qualcuno possa ammazzarsi perché non potrà permettersi le cure che un SSN in fallimento non può più prestargli.

 

Quindi, caro Herbert, scegli uno o due sospiri e pubblicali pure. Se vorrai diffondere il link che ti ho indicato sopra te ne sarò grato.”

 

e così farò.

 

Vista la concomitanza degli eventi stavolta non mi sono sentito di procrastinarlo (sarebbe passato a fine maggio) e così chiedendo scusa agli altri autori, il prossimo post sarà tratto dal libro “Caro Dottor Cronin” di Ubaldo Sagripanti.

 

Herbert Asch

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l’alfa e l’omega

Posted by Herbert Asch on novembre 26, 2010
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Se riesci ti piace arrivare un po’ prima sul cambio. Intanto perché trovi parcheggio più facilmente.
E poi perché chi è dentro da dodici ore ne ha già abbastanza e l’unica certezza che ha, è che qualcuno, dopo un tot di tempo, verrà a dargli il cambio.
E non è poco.

Già lungo il percorso di ingresso raccogli una serie di informazioni: davanti al chiosco qualche infermiere che ha appena smontato dal turno di notte anticipa qualche novità, passando dal Pronto Soccorso basta uno sguardo per dirti se è tutto tranquillo (per ora, ma non diciamolo, per scaramanzia!) o già sovraffollato.
L’ascensore ti deposita proprio davanti alla rianimazione.
Qualche volta davanti alla porta campeggiano parenti tristi, assonnati e preoccupati, che trasalgono ogni volta che la porta si apre. E dagli sguardi, dall’età, dal comportamento già intuisci una parte della storia. Genitori o figli? Amici o parenti? Giovani o vecchi? Spesso non è difficile decodificare.
Poi entri: quanti zaini di trasporto ci sono? Tanti ne mancano, tanti sono i pazienti in giro. Tutti gli zaini a posto: buon segno!
Insomma già prima di entrare uno un’idea se la può fare.

Un saluto a chi c’è, togli dalla tua borsa qualche cosa per il pasto che depositi in cucina.
Ti avvii verso lo spogliatoio nel corridoio, trovi le chiavi in una delle sedici tasche dove potresti averle messe ieri sera, ed entri.

Quanti anni sono che vieni a cambiarti in questo spogliatorio? E quante stanze-spogliatoio hai cambiato in venticinque anni?

La fila degli armadietti fronteggia un doppio schieramento di scarpe, anzi una parete bifilare di zoccole dove alcuni paia di scarpe, o qualche stivale d’inverno, si inseriscono come le molecole della pompa del sodio nella membrana della parete cellulare.
E il gioco sta nell’indovinare chi c’è di là a partire dalle scarpe che ha lasciato di qua.
Le scarpe sempre leziose della collega che ne ha una intera collezione e che non ti ricordi la volta che ha messo lo stesso paio due giorni di seguito. E poi i dr.Martin della tosta elisoccorsista, le lumberjack del collega giramondo, le scarpe seriose di buona fattura del collega anziano, le paperine allegre della collega creativa, le scarpe un po’ petulanti della collega precisina, e quelle un po’ scalcagnate del collega sfigato, a cui accosti le tue barche oversize, che ormai trovi solo più in Germania.

Ti piace fare con calma i gesti preparatori, moderna vestizione del cavaliere, che invece dell’armatura indossa un comodo pigiama.

Mentre ti cambi non potrai fare a meno di pensare come sarai questa sera, quando ti ritroverai di nuovo qui, davanti a questo specchio. Stanco ma ancora presente o assolutamente tritato? Contento di quello che hai fatto, o pensieroso su dilemmi insoluti? Sarà stato un giorno utile o inutile?

E poi sei pronto.

Spegni la luce, chiudi la porta alle tue spalle e via. Lì ci ritornerai solo dopo dodici ore, al momento del cambio.
Ora sentirai le consegne, con un rituale che si ripeterà identico dopo dodici ore
…E dopo dodici ore, come in un confessionale laico, in una cronaca che ha del religioso, lascerai memoria di quel ch’è stato al tuo collega, e di quel che ancora c’è da fare, di quello che hai pensato ed imbastito, infilandoci se del caso anche qualche fatto curioso avvenuto, qualche prodezza compiuta, o qualche svista occorsa.
E l’ironia con cui saprai condire il racconto sarà il sale di quella giornata o nottata, che nel solo racconto, nudo, dei fatti, potrebbe semplicemente risultare tecnico, arido, squallido o terrificante, o tutte queste cose insieme.
Intanto, elencando le tue prodezze o le tue viltà lentamente smetterai di risuonare di tutti gli echi che ti rimandano le cose che hai fatto, i pazienti che hai visto, le decisioni che hai dovuto prendere. Con calma ti potrai avviare, lasciando cadere pezzo per pezzo gli episodi mentre ti avvicini all’uscita.
Quasi prepari uno stato di vuoto mentale, hai il bisogno fisico di segnare il cambiamento avvenuto.
E ti vengono in mente le parole di Roy Batty in Blade Runner: “…e tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia…”

Herbert Asch

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ritmo, veloce!

Posted by Herbert Asch on settembre 07, 2010
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SEI. Sei significa Squadra di Emergenza Interna
Squadra è una parola grossa. Per ora è l’Anestesista di Guardia per il Pronto Soccorso, dotato di uno Zaino una borsa dei farmaci da prendere in frigo e di un telefonino portatile DECT, che sarebbe come il cordless di casa ma che prende in tutto l’ospedale.
Lui da solo. Per ora. E allora diciamo che SEI vuol dire Servizio di Emergenza Interna che è più generico e meno impegnativo.
Ed il servizio consiste nel rispondere ed accorrere, ove necessario, alle chiamate urgenti per pazienti all’interno dell’ospedale.
Bella lì.
Ritmo, ragazzo, ritmo.
Accendi il motore e lascialo al minimo.

Se ci fate caso molti di questi racconti iniziano con una chiamata.
In fondo sei lì apposta per ricevere le chiamate, cerchi di fare qualcosa, di darti da fare in reparto, ma l’idea è che a un certo punto molli tutto e scatti, reagisci, parti, quando suona quel dannato DECT.
Ritmo, ragazzo, ritmo.
Salta su, metti la marcia, si parte.

Allora raccatti i farmaci nel frigo e lo zaino e mentre ti dirigi verso la chiamata cominci ad immaginarti che cosa può esserci sulla base delle poche cose che ti hanno detto per telefono.
E a farti l’itinerario per arrivare dove ti hanno chiamato. Pensando se ci sono ascensori fermi, porte chiuse, corridoi con lavori in corso.
Ritmo, ragazzo, ritmo.
Eccoti sul rettilineo, schiaccia.

Quando arrivi sul posto, cerchi di capire dov’è che ti hanno chiamato, in quale cavolo di stanza si sono nascosti a farsi le loro maledette pippe, guardi dov’è il carrello delle urgenze, se l’hanno preso, se l’hanno messo davanti alla stanza.
Li trovi e cerchi di capire cosa vogliono da te, se il paziente è acuto o cronico, giovane o vecchio, si sta spegnendo senza speranza o gli è successo un coccolone, caduto come un fulmine a ciel sereno.
cerchi di capire se lo devi ricoverare, aggredendolo e saturando di tubi e cateteri tutti i buchi che ha e anche qualcuno in più …
Oppure può darsi che ti renda conto che ti hanno chiesto solo di condividere una valutazione ultimativa, e la tua presenza li aiuta a spiegarlo alla famiglia.
Ritmo, ragazzo, ritmo.
Curve da tutte le parti, scala e riprendi.

Ora bisogna far qualcosa, dev’essere fatto.
Tutto e subito, magari anche prima.
Il paziente è cosciente?
Respira?
Ha circolo?
C’è il defibrillatore?
Ha una vena?
Come mai è ricoverato?
E adesso che cosa gli è successo?
Certo, ci sono gli schemi di intervento, procedure previste e prefissate per fare le cose nella sequenza giusta senza dimenticare nulla, ma di nuovo devi lottare con la tua ansia e quella degli altri che si aspettano delle cose da te.
Poi devi valutare se devi agire subito lì o puoi spostarti sui letti di Pronto Soccorso, dove lavori in ambiente più familiare.
Per carità, nei reparti non è che sei allo sbando, ma il personale non è così abituato alle procedure di urgenza, per loro possono suonare strani persino i nomi degli strumenti che chiedi… insomma qui da noi abbiamo deciso di fare così.
E bon.
E allora, mentre fai, telefoni a vedere se c’è posto, organizzi il personale, fai cercare una bombola di ossigeno, tieni d’occhio il monitor, pensi che farmaci vuoi portarti dietro già aspirati e pronti, valuti se la vena basta o se devi trovargliene un’altra…
Ritmo, ragazzo, ritmo.
Tieni la tabella ora viene il bello.

Se già non ce n’era stato bisogno prima, cominci a menare le mani.
Tocchi il paziente, gli parli -se ti capisce- e intanto il tuo computer interno immagazzina dati e sensazioni.
Alcuni sono più precisi e circoscritti: la pelle è calda o fredda, pallida o congesta, secca o sudata? come respira ‘sto cristiano? cerca di aprire anche le branchie se le avesse, o è così brasato che non ci pensa neanche più? Guardi i numeri: pressione, frequenza, saturazione, intanto monti il va-e-vieni per l’ossigeno, lo avvicini al volto: lo tollererà? gli cambierà qualcosa?.
La parte istintiva del cervello fa contemporaneamente un altro lavoro: registra le cose minime, lo sguardo, i gesti, la postura, l’aspetto: sta lottando o ha deciso di lasciare? sta impegnando le riserve? ne ha? sensazioni, raffronti con altri pazienti, passate esperienze.
Forse occhio clinico, ma non pompiamoci troppo.
Quasi sempre, pian pianino le cose prendono la loro strada, inizi a imbastire una storia, cosa c’è cosa fare, cosa serve, chi chiamare, qualche volta persino azzardi una diagnosi.
Ritmo, ragazzo, ritmo.
Se va bene fai tappa ai box.

Qualche volta le cose invece sono serie subito, senti che ti sfugge qualcosa e non sai cosa, il paziente ha qualcosa di inatteso, qualche manovra non riesce, sanguina da qualche parte che non riesci a trovare, la merda (metaforica) attorno sale improvvisamente invece di defluire e tu cominci a smuovere l’universo mondo.
E lì diventa lunga, ma lotterai fino alla fine, avrai pensato le strategie una dopo l’altra, man mano che si rivelavano, una per una inutili. E alla fine l’unica cosa che ti salva è che sei certo che finirà. Perchè qualcuno ti verrà a dare il cambio, perdio!
Poi risuonerai per qualche giorno e avrai qualcosa da raccontare.
Ritmo, ragazzo, ritmo.
Niente pit-stop continui con quel che hai, a manetta.

Te lo sei chiesto un sacco di volte chi te l’ha fatto fare e non hai mai saputo, o voluto, darti una risposta.
Ma a te piace così.
Finchè dura, finchè ce la fai, finchè non ti trovi col serbatoio vuoto come un bossolo sparato.

Meno male che hai ancora qualcosa da raccontare.

Herbert Asch

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l’elisoccorso (seconda parte)

Posted by Herbert Asch on gennaio 03, 2010
racconti / Nessun commento

“l’uomo catarifrangente scese
dalla sua carrozza bianca illuminandola
di una luce azzurrissima, si avvicinò
gli disse ora cura di te mi
prenderò”

Max Pezzali – La volta buona

Ricordo però ancora adesso perfettamente come il giovine specialista che ero vent’anni fa non vedesse l’ora di mettere alla prova il suo ardimento.
Da agosto di quell’anno erano iniziati i turni del servizio di elisoccorso, ma riservati solo agli specializzati, e anche se lavoravi già da qualche anno (allora era possibile) l’accesso ai mitici turni non era possibile senza la specialità.
Ma alla sessione di ottobre di quell’anno, alè, eccomi specialista.

Finalmente potevo entrare anch’io nel Grande Circo dell’emergenza: ultima frontiera rimasta, terra dei gesti estremi e delle terapie eroiche, dove si Salvano le Vite Umane e non si guarda in faccia nessuno, dove si Intuba, si Incannula, si Defibrilla, friggendo e trafiggendo in tutti i modi e da tutti i buchi quel san Sebastiano di Paziente da Salvare. Dove si arriva in elicottero (vero Deus ex machina!) e si corre a Sirene Spiegate sulle Ambulanze.

Dove si lavora fianco a fianco con tutti gli altri Supereroi, Carabinieri, Vigili del Fuoco, Polizia, Protezione Civile, Guardaparco e Vigili Urbani, pardon, Polizia Municipale e poi l’arcobaleno delle croci Rosse, Verdi, Bianche, Gialle, Oro, Azzurre, e poi le Misericordie, i Samaritani ed i Cavalieri di Malta, tutti con le loro Superdivise ed i Superattrezzi, come nei fumetti giapponesi.

Superate alcune incombenze, tipo il matrimonio, il viaggio di nozze, l’allestimento della casa nuova, eccomi alla ricerca dell’aggancio per entrare nel giro.
Attivo radio flebo, il tam-tam sempre attivo tra gli specializzandi, chi gestiva la cosa di fatto pareva fossero gli anestesisti del Policlinico e quelli del Paride Campari, (un ospedale di zona), in particolare un tale Scèspir.
– Quello delle commedie? –
– Ma no, fa l’aiuto al Campari, però puoi provare a parlarne al Megaprofessore del Policlinico prima, se lui è d’accordo non c’è problema –
– già, ottima idea –
Peccato che parlare al megaprofessore non era così semplice.

Al Policlinico conoscevo un paio di Aiuti, che non sapevano come si scrivesse Scèspir, lo conoscevano appena, ma sapevano come potevo “casualmente ” incrociare il Megaprofessore. Vieni, mi dissero, alle 7.30 all’inizio seduta. Passa sempre a quell’ora poi… insh’allah.

In quelle sale un pochino mi conoscevano, avevo frequentato per tre mesi  non da molto. Quel mattino sono arrivato alle sette e un quarto, non troppo presto, per non aspettare fuori, il giusto per entrare con gli infermieri di seduta. Sapevo come entrare, dove cambiarmi, cerco la mia conoscenza in sala, mi affianco a lui e aspetto vigile.
Mentre aspetto gli chiedo se conosce Scèspir.
Ma, il mio contatto è troppo giovane, si è specializzato l’anno prima di me. No, non conosce. No non sa come si scrive, si scriverà così come si pronuncia, no?.. ci rinuncio.
Dopo poco arriva il Megaprof, faccio in modo di incrociarlo casualmente in sala, e, chiedo se fosse stato possibile parlare un attimo con lui.
– Certo caro, solo che oggi non riesco, passa in Istituto domani verso le 10.-

Il giorno successivo era già lì alle 9.30.
In istituto incontro un’altra conoscenza di qualche tempo prima, con cui avevo fatto un po’ di gavetta nelle sale del Pronto Soccorso. Ma neanche lui sa come si scrive Scèspir, si…lo conosce, ma…
Poi il Megaprof arriva e mi fa entrare nello studio. Una volta sentito il problema mi fece nell’ordine:
una testa così su tutte le cose che dovevo sapere,
un pistolotto sulla necessità, prima di intraprendere altre attività, di fare una salda gavetta di almeno due anni di sala operatoria
– sono quasi tre anni che lavoro, professore – esagero.
una manfrina tenace sulle abilità necessarie
– ma nel mio ospedale ho già visto parecchi traumi gravi, sa…-

quindi mi regala, togliendolo dal cassetto della scrivania come cosa preziosa, una copia di un suo libretto su come si fa l’Anestesia moderna.
– Grazie professore! lo cercavo da tempo, ma non ero mai riuscito a trovarlo!- mento.
E poi… mi rimanda comunque all’aiuto del Campari.
Era ora di andare, il colloquio era finito.
Mi alzo, ringrazio il professore.
– Solo una cosa, professore. –
rimaneva l’ultimo, pesante dubbio.
– Dimmi caro –
– Scèspir… come si scrive? –

Herbert Asch

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elisoccorso (prima parte)

Posted by Herbert Asch on novembre 08, 2009
racconti / 1 Commento

Uno solo. E’ solo uno il ferito per fortuna, ma dall’alto non l’avresti detto.
L’incidente si vede bene arrivandogli da sopra: le due macchine accavallate e la moto un poco fuori nel prato, raccontano una dinamica severa.
Poi, con l’arrivo sulla scena, le cose prendono i loro giusti contorni, cominci a vedere quanti sono coinvolti, cosa si sono fatti, fai un rapido triage per vedere le priorità.
Sulle macchine ci sono solo gli autisti ben legati, ormai i veicoli sono più sicuri di un tempo quando il blocco del motore giustiziava i passeggeri anteriori. Adesso le macchine si aprono come le banane che mangia King Kong, ma all’interno ci sono sempre più spesso molti meno danni.
Il motociclista è invece finito in un prato, la moto da una parte e lui dall’altra ma il prato è molle, lui ha una tuta con la tartaruga, il casco non si è slacciato e la caduta si è stemperata in una serie di rotoloni senza incontrare ostacoli. Totale, forse ha un gomito rotto, una gamba acciaccata, ma poteva andargli ben peggio. Lo sistemo sulla Base, l’ambulanza dei volontari che ci affianca sempre, compilo i fogli e lo spedisco. Non abbiamo toccato niente dei nostri zaini siamo operativi da subito, ci ritiriamo con l’Infermiere, con un gesto indico al pilota che possiamo andare. Lui guarda l’ora, sono passati i minuti necessari a far scendere la temperatura del motore, si può riavviare, fa un cenno di assenso.
Con gli equipaggi, ci capiamo ormai con uno sguardo, un gesto.
Quando arriviamo sul target tocca a me valutare se dobbiamo fermarci per più di dieci minuti, nel qual caso vale la pena spegnere il motore, oppure se le cose possono essere veloci ed allora il pilota mi aspetta a motori accesi. Appena ho la sensazione, mi giro e lo segnalo, la mano aperta in segno di attesa per non spegnere, il pollice passato sotto il collo come a sgozzare il motore, per spegnere.
Alla partenza giro inverso: il tecnico fa allontanare i curiosi, e si va a mettere a distanza di sicurezza davanti all’eli per controllare il settore posteriore, noi buttiamo su gli zaini, li assicuriamo, ci sediamo, ci leghiamo, ci mettiamo le cuffie, ci controlliamo a vicenda. I piloti avviano, quando l’eli ha raggiunto la potenza, il tecnico sale, chiude, si lega, mette la cuffia, comunica che tutto è chiuso e a posto e via si parte.
Gesti automatici, ormai.

Non lo sapevo, ma quella sarebbe stata la mia ultima missione in elicottero, forse per questo che me la ricordo così ancora fresca nella mia mente.
Quel giorno non ci sono più state chiamate e in seguito, ormai quasi otto anni fa, non sono più salito su un elicottero, i casi della vita mi hanno tenuto fuori e così i dodici anni di servizi in elisoccorso sono passati nel quaderno dei ricordi…

Herbert Asch

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