cronache

I sommersi e i salvati

Posted by Rachele on ottobre 20, 2015
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foto di EG

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Ottobre – Novembre 2014 Sierra Leone

Scendendo in una strada sterrata che porta al mare si arriva al centro di Emergency di Lakka dove dal 18 settembre è stato aperto il nostro presidio per il trattamento dei pazienti affetti da Ebola. Al momento abbiamo la disponibilità di 20 posti letto suddivisi in 3 tende una di isolamento per i casi sospetti, una di trattamento per i casi accertati e una tenda per i convalescenti. L’attività nel centro di Lakka è frenetica, quasi ogni giorno abbiamo pazienti all’ingresso che aspettano di entrare nel centro, sono portati da parenti o vicini di casa e spesso sono in condizioni molto gravi per lo stato di debolezza generale dovuto alla febbre e alla disidratazione. Altri pazienti ci vengono trasferiti direttamente in ambulanza dal centro di coordinamento nazionale che sceglie i più gravi nei quartieri già sottoposti a cintura sanitaria e li trasferisce dove ci sono posti letto per il trattamento. Capita che alcuni pazienti ci arrivino già morti o in agonia e per loro non ci rimane che l’umana pietà, la comunicazione ai parenti e la custodia del corpo finché le squadre addette non si portino via i cadaveri per la tumulazione secondo le regole sanitarie che devono essere rispettate durante l’epidemia.

La protezione che tutti noi indossiamo per entrare nelle tende, oltre a rendere estremamente difficile la permanenza per il caldo, ci rende impossibile la visita e il contatto fisico con i malati. Dopo i primi giorni in cui il pensiero di ognuno di noi è più focalizzato sulla protezione personale e sulla paura di essere contagiati, ci si comincia a fare l’abitudine, le tute non sembrano più così soffocanti e il malato e la sua cura tornano ad essere il vero motivo per cui siamo qui. La certezza di essere protetti e di rispettare tutte le regole di sicurezza dentro le tende ci rende più tranquilli e la soddisfazione di poter aiutare a bere e mangiare un malato di Ebola diventa una grande emozione. Cominciamo a capire che la cura intensiva per questi malati è la chiave per poter aiutare a sopravvivere il maggior numero di pazienti. L’idratazione endovenosa e il monitoraggio dei parametri vitali sono essenziali per capire cosa succede aldilà di quella rete che ci separa dai malati. Ogni ora in tenda c’è qualcuno: dal personale dedicato all’igiene del malato e alla pulizia della tenda, agli infermieri che prendono i parametri vitali e somministrano la terapia, ai medici che controllano i malati critici. I nostri pazienti non sono lasciati soli in un letto a sperare di sopravvivere ma sono curati e aiutati a vincere la battaglia per la vita. Perché quella contro l’Ebola è una guerra, si combatte contro una malattia che ha varcato già i confini di tre paesi, si è diffusa nelle città con un numero impressionante di 100 nuovi casi al giorno. Dall’inizio della epidemia sono più di 5000 i casi confermati e nella sola Freetown e dintorni le cifre ufficiali parlano di 1500 casi confermati con una mortalità senza trattamento almeno del 70%.

Noi lavoriamo insieme allo staff locale che è la risorsa umana più preziosa e la nostra prima battaglia è stata vincere la loro paura del contatto anche se protetto con il malato. Abbiamo visto crescere in loro l’entusiasmo e la speranza, ora tutti entrano ad orari nelle tende ed è finalmente passato il messaggio che qui si dà ai malati la stessa qualità di cura che daremmo nei paesi occidentali.

Lionel e Christian sono due fratellini di 8 e 10 anni, la madre è morta di Ebola e loro sono stati ricoverati da noi con il padre. Li vediamo migliorare giorno dopo giorno, riacquistare l’appetito, il sorriso e persino la voglia di disegnare. Dopo due settimane prima la sorellina e poi il fratellino escono guariti dal centro e ci chiedono del loro papà che purtroppo non ce l’ha fatta.

Momoh è un bambino di 10 anni, viene portato dall’ambulanza del centro di coordinamento, è accompagnato dalla madre che versa in gravissime condizioni, non facciamo neppure in tempo a metterla in un letto che muore nell’area di triage. Momoh è disidratato, ha la diarrea, il vomito e la febbre alta, piange e chiama la madre di continuo, è uno strazio sentirlo da fuori e non poter fare entrare nessuno della sua famiglia per stargli vicino. Dopo una settimana di flebo, antibiotici, antipiretici il suo fisico comincia a reagire e da allora è una lotta per farlo mangiare, rifiuta qualsiasi cosa e piange, finché con un panino dolce, qualche banana, e i succhi ricomincia con fatica a rialimentarsi. Dopo 10 giorni lo trasferiamo nella tenda dei convalescenti dove lo viziamo anche noi imboccandolo quando potrebbe mangiare da solo. Non chiama più la mamma, è ancora molto debole e si regge a malapena in piedi ma ce l’ha fatta, ha sconfitto la malattia e esce tra gli applausi di tutti ad abbracciare lo zio e la sua nuova famiglia.

Edna è una bellissima bimba di 6 anni che viene portata da noi da una zona già in quarantena, non sembra così grave all’inizio ma gli esami del suo sangue smorzano le nostre speranze, ha una alta carica virale e le sue condizioni precipitano nel giro di 2 giorni, dobbiamo sedarla per poterla reidratare e somministrare la terapia di supporto ma non c’è nulla da fare la malattia ha vinto.

Abdul ha 10 anni ha perso la madre uccisa dall’Ebola e vive con il nonno in un area rurale, il padre non è con lui perché è stato messo in quarantena in un altro centro. Abdul giace disteso e debolissimo davanti al cancello del nostro centro. Viene trattato in maniera intensiva, con idratazione e antipiretici, sembra rispondere bene ma la mattina dopo il suo letto è già vuoto. La rapidità con cui il virus uccide i pazienti ci lascia sgomenti e anche scoraggiati. Ci sono altri bambini che non ce l’hanno fatta nonostante giorni di trattamenti intensivi e li abbiamo visti spegnersi più lentamente come se la malattia consumasse tutte le loro risorse e lasciasse un bozzolo vuoto al posto del corpo.

Aminata è una donna in condizioni critiche, portata da qualcuno davanti al nostro cancello. I parenti e i vicini di casa hanno infatti molto paura di essere messi anche loro in quarantena, per cui appena depositati i malati se ne vanno, verranno poi avvisati in caso si confermi il sospetto di Ebola, anche se spesso il contagio fra loro è già avvenuto. La paziente è molto agitata, si strappa più volte le cannule che le mettiamo in vena per idratarla e cerca più volte di alzarsi dal letto finendo per cadere a terra e riempirsi di sangue, con pazienza gli infermieri la lavano, la rimettono a letto e le somministriamo dei sedativi ma anche lei non ce la fa.

Un giorno ricoveriamo 3 persone che vivono nella stessa casa, la sorella di un paziente morto nel nostro centro e la sua amica con la quale vende il pesce al mercato. Questa ultima viene accompagnata dalla figlia, Fatmata una ragazza di 18 anni che ci dice di avere anche lei i sintomi della malattia. Sono tutte e tre positive per l’Ebola. Dopo i primi giorni di incertezza prendono tutte e le tre la via della guarigione, si fa fatica a tenere la giovane Fatmata nel letto perché appena sta bene, ben cosciente della sua bellezza posa come una modella al di là della grata!

Johnny è un ragazzone di 28 anni alto almeno un metro e ottanta, fa il pescatore, ha tutti i sintomi della malattia e uno stato di severa astenia e disidratazione. Nonostante le cure le sue condizioni rimangono molto gravi, non è in grado né di bere né di mangiare, è debolissimo, non riesce neppure a cambiare di posizione nel letto. Vediamo qualche piccolo miglioramento seguito da segni preoccupanti di sanguinamento gastrointestinale, lo trasfondiamo e lo seguiamo molto preoccupati. Anche per lui però c’è un punto di svolta e finalmente migliora lentamente ma costantemente, comincia a sedersi sul letto e mangiare da solo, l’Ebola è stata vinta.

Iye Kagbo è la nostra eroina, una donna di 74 anni, santona e guaritrice del suo villaggio, dopo aver partecipato a un funerale accusa i sintomi della malattia e viene ricoverata da noi. Le mettiamo le cannule venose e il catetere vescicale e lei si toglie tutto non tanto perché è agitata ma perché non le sopporta. Per ben due volte la troviamo ai piedi del letto, ci dice che è troppo alto per lei e che fa fatica a salirci sopra e poi vuole andare in bagno e che non la secchiamo troppo con le nostre attenzioni, piuttosto, ci ha già detto di avere la congiuntivite se gentilmente le diamo delle goccine per gli occhi tante grazie… Insomma se ce la deve fare ce la farà da sola! E Iye ha ragione, migliora la febbre e la diarrea, la dieta semiliquida che le diamo le piace molto e non le serve che qualcuno la imbocchi: se la mangia da sola la pappa! Dopo 15 giorni esce dal centro guarita con rispetto e onore da parte di tutti noi, non sarà l’Ebola a portarsela via!

Abu Bangura è un giovane ragazzo di 21 anni, di professione giocatore di pallone, viene da noi da solo, dice che non si sente tanto bene e vuole sapere se ha l’Ebola. Ce l’ha e fin da subito ci appare molto grave per i sintomi neurologici e lo stato di agitazione che ci obbligano a sedarlo per poterlo curare. Dopo alcuni giorni sembra migliorare, lo troviamo la mattina seduto sul letto con la bocca piena di dentifricio, ci chiede se possiamo aiutarlo a lavarsi i denti. Va bene, sta migliorando siamo contenti, ha ricominciato anche a bere fin troppo, 10 litri al giorno… e fare le flessioni e le corsette la mattina presto, gli diciamo che non è proprio il caso perché è malato e deve stare a letto soprattutto non deve continuare a rimuoversi tutte le cannule per fare le flessioni. Il suo umore è alle stelle ci batte il cinque quando entriamo in tenda e ci chiama in continuazione per attirare la nostra attenzione. Poi un nuovo peggioramento con deterioramento della funzione renale e insufficienza respiratoria, somministriamo diuretici in alta dose e l’ossigeno, sembra riprendersi ma poi di nuovo febbre altissima, la respirazione sempre più affannosa e nessun miglioramento con l’ossigeno, Abu è in coma, siamo convinti che non passerà la notte. La mattina successiva l’infermiera di guardia ci dice sorridente: Abu ha chiesto la colazione e respira molto meglio! Non ci sembra vero, ma ogni giorno è un passo in più verso la guarigione definitiva e il nostro Abu non è solo un survivor ma un highlander!

In poco più di due mesi nel centro di Emergency a Lakka abbiamo trattato più di 100 pazienti malati di Ebola, queste sono alcune delle loro storie che raccontiamo perché ognuno di loro non sia solo un numero sul libro delle ammissioni ma un volto e una persona che ha il diritto di essere curato con la dignità e la professionalità che ogni paziente merita.

Rachele

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“… shock consigliato”

Posted by Il Barelliere on ottobre 12, 2015
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foto di RdR

foto di RdR

E’ da circa due ore che Maria ha dolore al petto: un dolore strano però, come mai provato prima, che le arriva fin dietro la schiena e le causa un malessere diffuso a tutto al corpo. Ma lei ha solo quarant’anni, è sempre stata in salute e non ci fa troppo caso, non sarà nulla, passerà da solo.
Quel dolore però diventa via via sempre più forte, quasi insopportabile, come una morsa, forse è il caso di andare in ospedale…
All’improvviso però, la situazione precipita. La donna spalanca gli occhi e si accascia sul pavimento priva di sensi. Smette di respirare.

Non so cosa sia successo dopo, in quegli interminabili minuti che sono trascorsi dalla chiamata al 118 fino al nostro arrivo. Quando entriamo in casa però il marito è su di lei, l’ha distesa sul pavimento e seguendo le istruzioni dell’operatore di centrale ha iniziato il massaggio cardiaco.
La donna è in gasping. Un rantolo si libera dalla sua gola e sebbene possa sembrare che stia respirando, in realtà i polmoni non si espandono minimamente.

Il Capo-equipaggio si lancia sul torace e prosegue il massaggio cardiaco, iniziato dal marito. Ha un fisico esile Maria, per le compressioni basta un braccio solo, se non si vuole spaccare tutto.
Taglio la t-shirt e scopro completamente il torace, accendo il DAE, posiziono e connetto  le piastre.
Alla prima analisi rileva movimento, probabilmente il respiro agonico, che si sta facendo via via sempre più inesistente, sta creando degli artefatti.
Pochi istanti dopo ripete nuovamente l’analisi << shock consigliato >> . Erogo la scarica. Il corpo di Maria si contrae e si rilascia nel giro di un paio di secondi, ma purtroppo nessun segno di ripresa.
Andiamo avanti con le manovre di rianimazione: le compressioni si alternano alle ventilazioni con l’ambu, siamo quasi arrivati ormai alla seconda analisi, quando all’improvviso Maria riprende a respirare.

Cazzo non ci credo! Ce l’abbiamo fatta , il torace si espande!
Certo il respiro non è dei migliori è superficiale e forse troppo frequente, la donna continua ad essere incosciente,  ma cazzo sta respirando da sola!
E’ la prima volta che mi capita di riprendere una persona in arresto e ora non bisogna perdere la concentrazione.

Qualche secondo dopo i primi respiri di Maria, entra provvidenzialmente in casa l’equipaggio dell’automedica.
Faccio subito spazio alla dottoressa, che prende il mio posto alla testa della donna, mentre in men che non si dica l’infermiere ha già reperito un accesso venoso e si destreggia tra flebo  e cavi del monitor. Equipaggio tosto stasera per fortuna, con la dottoressa mi è già capitato di lavorare qualche volta, ed è una rianimatrice coi controcazzi : decisa, preparata e determinata, è il medico che ogni studente, almeno per quel che mi riguarda, vorrebbe e dovrebbe diventare.
Le manovre vanno avanti per diversi minuti, viene intubata e le si  continuano ad infondere farmaci.  La situazione è ovviamente molto tesa, aspiriamo più volte le vie aeree dalle quali continua a fuoriuscire sangue; è un continuo passare garze, boccette e sondini, mentre il capo-equipaggio ventila con l’ambu.
Ci si sta giocando il tutto per tutto, ma in tutto questo il suo cuore, dopo la prima scarica, ha continuato a battere senza fermarsi.

Lasciamo Maria in sala emergenze del pronto soccorso accerchiata da un numero indefinito tra medici ed infermieri, che come formiche, si adoperano veloci e precisi su lei.
Sinceramente non credevo sarebbe sopravvissuta e la sensazione che mi ronzava per la testa era solo quella di aver rinviato l’invitabile.

Qualche giorno fa però, alla festa della nostra associazione è arrivato un uomo. Si è avvicinato a Gianluca, il capo-equipaggio che era di turno con me l’altra notte,  e non trovava le parole per ringraziarci. Maria ce l’ha fatta ! Dopo un giorno in terapia intensiva, ha ripreso conoscenza e non sembra abbia riportato danni da ipossia cerebrale. La situazione è talmente buona che entro una settimana prevedono di rimandarla a casa.
Penso che questa sia una delle gioie e delle soddisfazioni più grandi che una persona possa mai provare, indescrivibile e forse incomprensibile per chi non ci è passato, anche se la nostra, è stata solo una piccola parte di tutto il lavoro svolto dai medici e dal personale sanitario, ma soprattutto dal marito, che se non avesse avuto la forza e la lucidità di iniziare tempestivamente il massaggio cardiaco, molto probabilmente io non sarei  qui a raccontare questa storia.

Il Barelliere

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Sono le 19.00

Posted by the bear on settembre 27, 2015
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foto di EP

foto di EP

 

Sono le 19,00; ancora un’oretta e vado a casa. Sono in piedi dalle 05:00 e il mio turno è quasi finito. La giornata è filata via liscia senza grossi problemi ma sono ugualmente stanco e non vedo l’ora di andarmene a casa. Non sono di buon umore oggi.

Squilla ancora il telefono. Rispondo… e capisco che non andrò a casa e il mio umore peggiora.

Il 118 di Torino richiede un intervento urgente per un volo sanitario per trasporto organi. Torino – Forlì – Torino. Questa è la rotta. Si va a Torino, si preleva l’equipe espianti e si decolla subito per Forlì. Qui bisognerà attendere che l’espianto abbia termine per poi ritornare alla velocità della luce a Torino dove il cuore prelevato sarà trapiantato a un paziente in attesa da mesi.

Mi metto subito al lavoro. Le attività preparatorie sono tante. Certe volte penso sia più complicato pianificare e preparare un volo piuttosto che pilotare l’aereo.

Faccio tutto velocissimo; invio il piano di volo ai piloti che nel frattempo stanno già rifornendo di carburante, controllo e ricontrollo due volte tutto. Dò il via ai piloti per il decollo. L’equipaggio è composto da due piloti molto esperti ed un infermiere. Sarà i miei occhi a bordo per coordinare l’attività. L’aereo decolla dalla base di Milano Linate per Torino Caselle. 22 minuti tra decollo e atterraggio.

Sono presissimo con tutte le attività (ospedale, sala operatoria, centro coordinamento trapianti, aeroporti, polizia). Con la coda dell’occhio guardo il monitor del meteo che cambia all’improvviso.

Un fronte nevoso sta arrivando dritto proprio su Forlì? Mi preoccupo il giusto perché le informazioni che seguono danno neve debole. Però è meglio controllare e chiamo il previsore meteo dell’aeroporto. Risponde eccitato:”ci aspettiamo un po’ di neve ma nulla di eccezionale. Stimiamo al massimo 5 cm al suolo. Non nevicava da 20 anni qui a Forlì. In aeroporto è comunque già attivo il piano neve. Siamo tutti pronti per ricevere il vostro volo sanitario”.

Penso tra me: “di male in peggio. Sono 20 anni che non nevica in quel cavolo di posto e doveva farlo proprio stasera”? Il mio umore è decisamente peggiorato. Rimugino un po’ su queste informazioni e dico che ci risentiamo più tardi per un aggiornamento. Intanto l’aereo ha già imbarcato l’equipe espianti. Due cardiochirurghi ed un infermiere.

È la prima volta che volano con noi. Andiamo sempre meglio…

Il mio infermiere di bordo li fa accomodare e sistema le borse con lo strumentario chirurgico e il box termico che poi dovrà contenere il cuore. Gli allaccia le cinture e gli dice di non muoversi dai sedili perché ci sarà unpo’ di turbolenza. Decollano subito direzione Forlì. La turbolenza da poca è diventata molta e l’aereo balla come un otto volante.

In attesa a Forlì c’è già un’auto medica del 118. Fanno salire a bordo l’equipe e partono veloci verso l’ospedale. Lì c’è una donna che ha avuto un incidente stradale. Il suo encefalogramma è ormai piatto. Il suo cervello ha smesso di funzionare. Donerà i suoi organi.

Squilla ancora il telefono; è il mio infermiere: ”capo, siamo in auto verso l’ospedale ma qui ha iniziato a nevicare alla grande..”

Squilla anche l’altra linea; è il comandante dell’aereo: “capo qui ha iniziato a nevicare alla grande e questi dell’aeroporto non mi sembrano molto reattivi”. Metto in comunicazione le due telefonate e rispondo ad entrambi: “ok ricevuto, ora ci inventiamo qualcosa. Nel frattempo procedete con il programma stabilito e attendete nuove istruzioni”. Il mio compito è sempre stato quello di rassicurare tutti. In questo sono piuttosto bravo. Trovare una soluzione a qualsiasi problema presuppone estro e fantasia, oppure mantenere la mente aperta a spaziare tra i confini di protocolli rigidi.

Faccio due conti. Tra l’arrivo in ospedale, lavaggio chirurgico, espianto del cuore e rientro in aeroporto ci vogliono almeno 3-4 ore e mezzo. Per pulire la pista di decollo e fare il de-icing all’aereo ne occorrono almeno tre. Si può fare e speriamo smetta di nevicare.

Chiamo il duty manager dell’aeroporto. Mi assicura che il piano neve è già attivo e ci sono già i spazzaneve operativi sulla pista. “Contiamo di farvi ripartire senza problemi state tranquilli”. Ringrazio ma quel “state tranquilli” mi ronza nella testa. Non so perché ma ogni volta che mi dicono di stare tranquillo mi preoccupo. Boh… sarà l’età che avanza o il mio pessimo carattere.

Intanto è passata un’ora. Risento il pilota. La situazione peggiora, hanno pulito la pista ma la nevicata è aumentata di intensità e vengono giù dei fiocchi che sembra di stare al polo nord. L’aereo è completamente ricoperto di neve. Naturalmente non esiste un hangar disponibile dove ricoverarlo.

Nel frattempo l’equipe chirurgica è in ospedale e ha iniziato l’espianto. Pochi gesti rapidi e precisi ed il cuore è in mano al cardio chirurgo. Lo preparano per la conservazione e lo ripongono nel contenitore termico. E’ scattato il countdown. Ora in massimo 4 ore il cuore deve ribattere nel petto del paziente di Torino che si trova già pronto in sala operatoria. Bisogna fare tutto molto in fretta ma con grande precisione. Avviso i piloti: “tra 25 minuti l’equipe sarà in aeroporto. Inizia i preparativi”. La risposta non è entusiasmante: “capo la neve continua a scendere sempre più forte. Hanno pulito la pista ma si è riempita di nuovo. Ci saranno almeno 25 cm di neve”. Ok attendi.

Richiamo il duty manager di Forlì che mi risponde trafelato: “stiamo facendo passare gli spazzaneve in continuo sulla pista perché la nevicata è aumentata di intensità. Cerchiamo di tenere la pista il più pulita possibile per permettervi il decollo. State tranquilli”.

Noo… ancora state tranquilli; non dovevi dirlo. Un pensiero mi si accende in mente. Sono sicuro che qualcosa andrà storto. Di solito non sbaglio e in particolare quando mi dicono stai tranquillo. Inizio a pensare ad un piano alternativo. Avviso l’ospedale di Torino delle difficoltà e li prego di attendere con la preparazione del malato. Mi rispondono che si sta scompensando e stanno valutando di metterlo in circolazione extracorporea perché non c’è più tempo.

Squilla ancora il telefono. E’ il mio infermiere: ”Stiamo procedendo a 30 km/h, l’auto ha montato le catene ma le strade sono impraticabili. Non so darti uno stimato di arrivo perché stiamo andando a passo d’uomo”.

Guardo il timer, sono già passati 45 minuti dall’espianto. Siamo in ritardo e rimangono 3 ore e 15 minuti.

L’auto con il cuore è arrivata in aeroporto. La procedura standard prevede l’aereo in attesa con il motore destro acceso. L’equipe sale a bordo e si decolla all’istante. Questa volta no. Il comandante è giù dall’aereo con gli addetti dell’aeroporto e stanno ancora valutando la situazione. Il contenitore del cuore intanto viene posizionato a bordo. Facciamo telefonicamente il punto. Chiedo al comandante: “Secondo te ci sono le condizioni per decollare in sicurezza?”. “Posso provarci ma la situazione è veramente al limite. Continua a nevicare fortissimo e non ho avuto modo di vedere personalmente le condizioni della pista. Mi devo fidare di quello che mi hanno detto gli addetti dell’aeroporto. Vedo che gli spazzaneve stanno facendo l’ultimo passaggio ma la pista è buia e non so dirti con precisione”. Mi fido della valutazione del comandante. E’ un uomo di 54 anni con oltre 16.000 ore di volo e conosce molto bene il suo lavoro. Suggerisce: “Provo a decollare ma vorrei essere più leggero possibile”. Ok allora, lascia a terra l’equipe di Torino, prendi solo il cuore e l’infermiere. “Ok procedo”.

I cardio chirurghi sembrano sollevati del fatto di restare a terra. La loro parte l’hanno fatta e anche bene.

Accendono i motori e rullato dietro uno spazzaneve che funge da followme. Sono in contatto con l’infermiere che mi dice: ”Stiamo rullando dietro uno spazzaneve. Aggiunge, io sono montanaro ma tanta neve così l’ho vista poche volte. Siamo in testata pista pronti al decollo, motori al massimo ci muoviamo. Sembra di stare su una pista da cross, balla tutto mentre prende velocità. Ci siamo quasi manca poco al decollo…. Ohh caz…” si interrompe la comunicazione.. Chiamo via radio nessuna risposta. Richiamo ancora con il telefono ma per un lungo minuto solo silenzio. E’ strano come la mente umana in una frazione di secondo pensa ad una miriade di cose. Immagino già cosa è successo ma, semplicemente rifuto di accettarlo. Cerco di mettermi in contatto con la torre di controllo di Forlì ma non risponde nessuno. Poi squilla il telefono. E’ l’infermiere e dal suo tono di voce capisco tutto: “Capo, capo, siamo andati fuori pista, ma stiamo tutti bene. Il carrello in fase di stacco da terra ha urtato un cumulo enorme di neve, l’aereo si è imbardato sulla destra ed ha toccato con l’ala la pista. Non so poi cosa è successo ma ci siamo schiantati fuori pista e fortunatamente la neve ha attutito tutto. Mi sono cagato sotto ma stiamo tutti bene”.

Rispondo asciutto: “Ok ricevuto, recupera subito il contenitore del cuore e consegnalo ai cardio chirurghi per riportarlo in ospedale. Ormai il cuore è perso ma si possono recuperare almeno le valvole per qualche altro paziente”.

L’infermiere risponde: “Spero che arrivi qualcuno alla svelta. Vedo in lontananza i lampeggianti dei Vigili del Fuoco ma praticamente siamo in mezzo al prato con 40 cm di neve. Sto facendo delle segnalazioni con la torcia per farci individuare”.

“Ok sbrigati a farti individuare e consegna subito il cuore. Non perdere altro tempo a parlare per telefono”.

Forse ci resta un po’ male della mia risposta. Non ci posso fare niente. Mi sono arruolato a 17 anni e mi hanno sempre insegnato che nelle situazioni di emergenza si deve restare concentrati, parlare poco e dare disposizioni chiare e precise. Più si parla e più è probabile creare casino.

Avviso l’ospedale. I medici di Torino sono furiosi. Il malato è già in circolazione extra corporea. Se non si trova un altro cuore potrà resistere ben poco.

Non so neanche chi sia, come si chiama, quanti anni ha o cosa abbia fatto nella sua vita per meritarsi un cuore nuovo. Forse è una persona normale con una famiglia perbene che è in attesa fuori dalla sala operatoria. Tutto questo non mi interessa. Devo trovare solo il modo di fargli avere un cavolo di cuore nuovo e il più velocemente possibile. Ogni tanto la fortuna aiuta. Si è reso disponibile un altro cuore compatibile da un donatore di Lecco. Bene, coordiniamo con un elicottero il prelievo e la consegna a Torino. Poi mi metto in auto, premo play sul lettore cd, alzo il volume a manetta, partono le note dell’unico cd che ho – Pink Floyd – , punto il cruiser control sui 180 km/h e vado a Forlì a recuperare quello che rimane del mio equipaggio.

L’aereo è completamente distrutto. Il fuori pista ha lasciato il segno. Il piantone del carrello ha bucato addirittura l’ala. Il carrello è distrutto ed il muso conficcato in un cumulo di neve. Trovo l’infermiere che dorme nell’infermeria dell’aeroporto. Ha ancora i piedi bagnati dalla neve. Puzzano in maniera incredibile. Gli allungo un paio di calzini puliti e degli scarponcini asciutti. (sono molto previdente e le avevo portate dietro). Gli dico di alzarsi che ha già dormito abbastanza e di scrivere subito una relazione sull’accaduto. Mi risponde: “Capo, sono quasi morto nello schianto e non mi offri neanche un caffè?” Gli sorrido e gli rispondo: lavati i piedi e ti aspetto al bar.

Incontro il comandante. Ha appena terminato di scrivere la deposizione per Enac e Polizia. Mi chiede: “il paziente che aspettava il cuore?” Rispondo che lo stanno trapiantando perché si è reso disponibile un altro cuore. Bene, allora missione compiuta.

Certo, c’è solo un piccolo particolare: un milione di euro di danni, un aereo fuori uso, una serie incredibili di deposizioni, inchieste ed una infinita serie di burocrazia che già ammorba la mia testa.

Sono passati due mesi. Squilla il telefono. “Buongiorno è l’ospedale di Torino, volevamo invitarvi ad una premiazione per l’episodio di Forlì”. Mi comunica la data e il giorno dell’incontro.

All’ora stabilita io sono a Milano e sto passeggiando per i fatti miei. Tutti i miei colleghi sono a Torino a stringere mani, darsi pacche sulle spalle e farsi complimenti reciproci e scattare foto.

Io non cambierò mai..

the bear

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Armando

Posted by Labile on agosto 28, 2015
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titolo giornale

“ È nel buio che sono arrivato, così di corsa che non ho avuto il tempo di vederlo, il Belgio, il luogo del mio contratto di lavoro. Maschio, 35 anni come limite di età, bloccato per un anno pena l’arresto. Condizione di merda per lavorare e senza, come oggi, nessun mare da attraversare e nessun dazio da pagare.

Contratto firmato in patria, l’Italia appena uscita dalla guerra, quella che mi ha risparmiato non uccidendomi in battaglia per consegnarmi alla miniera.

Al buio totale rischiarato poco e male, soffocato da un respiro accorciato dalla polvere, annusando l’odore del gas bruciato.

Nero, nera come la luce che scompare se chiudo gli occhi.

Gli unici al riparo dai graffi di un lavoro che resta impresso sulla pelle. Stretti cunicoli in discesa, 350 franchi il giorno a cottimo se sei bravo a demolire il resto di una vita apparsa milioni di anni fa.

E nel buio paragono le linee che si tatuano sulle mie braccia raschiando lo strato fossile, mischiano nero e sangue a perpetua memoria. Il dorso attraversato da una bibbia di linee scritta con fatica in turni senza paragoni terrestri. Il ciclo continuo della produttività, scendere nei pozzi a centinaia di metri, dove il basso si confonde con l’alto nella dimensione orizzontale del carbone che demolito scivola sul nastro trasportatore. Sul carrello caricato spedito nerissimo verso la luce al suo destino splendente e infuocato.”

 

Armando, mi racconta, preciso, tutto questo con una vocina appena udibile spenta dalla silicosi.

Curioso delle vite degli altri, gli ho appena chiesto delle numerosissime striature tatuate sul corpo, che nere decorano le braccia e ovunque abbia dovuto far fulcro e leva per la fatica di minatore.

Minatore nel Belgio della rinascita post-bellica, giovane ripudiato dalla patria al ritmo di 2000 partenze a settimana senza nessun mare da attraversare.

(“Le case, le pietre /ed il carbone dipingeva/di nero il mondo.
Il sole nasceva/ma io non lo vedevo/mai laggiù nel buio.
Nessuno parlava, /solo il rumore di una pala/che scava, che scava.”
New Trolls 1969)

Labile

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Biopsia

Posted by rens on agosto 02, 2015
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Foto di EP

Foto di EP

Entrato poche decine di minuti prima in ospedale, ero già belle che nudo in sala operatoria, con soltanto una pellicola addosso, quella verde degli operandi.

Rosa mi aveva salutato accompagnando la barella da corsa su cui due atletiche infermiere mi avevano spinto verso l’ascensore. Dentro. La porta s’era chiusa e con lei il sorriso di Rosa.

Soffriva più di me.

Rosa carissima.

Tu invece non puoi soffrire, perché in quegli istanti non ci sei, non sei tu, galleggi, sei senza peso e non hai tempo in corpo, sei in un vortice che ti annulla e ti arma di incoscienza. A farti fortissimo.

Poco prima, in camera, era venuta a trovarmi Mira. Ci conosciamo da una vita, da quando eravamo ragazzi con tanti sogni in cuore. È medico. Mi avrebbe addormentato lei. Mi aveva portato un po’ di valium per calmarmi. Forse lo fanno d’abitudine.

Ecco, la mia giornata di biopsia, o autopsia, che non è poi tanto diverso, era cominciata così.

Circondato da donne. Un inizio bellissimo.

In sala operatoria, attesa. Chissà perché ti fanno sempre attendere prima di segarti. Nudo al freddo. Per congelarti, credo; così, se sei duro, ti tagliano meglio. Anche se scricchioli un po’.

Ma ancora una donna era intervenuta, vestita di verde questa e con mascherina, però abbassata; s’era fatta avanti senza chiederglielo, a coprirmi con un telo d’argento. Che non sentissi freddo.

E lì attorno ce n’erano un mucchio di donne. Una che mi conosce, simpatica, un’altra del soccorso alpino, e quindi un po’ capra – delle rocce – come me; e poi la moglie d’un mio amico, affabile e gentile e stupita nel vedermi lì afflosciato. E infine Mira, che col tatto semplice di chi ha tanto cuore, mi aveva lasciato gli occhiali, che potessi vedere con chi stavo parlando.

Non mi sembrava d’essere in attesa dell’autopsia; ero lì ad intrattenermi in affabile compagnia parlando del più e del meno, come si conviene tra persone che la sorte, chissà perché, ha messo insieme in quel luogo e in quell’istante affinché si parlino, si conoscano, si guardino negli occhi e, forse, si aiutino.

Così il tempo vola e non pensi a nulla. Sconfiggi l’ansia e non soffri.

Infine, mi portano di là, pochi metri, oltre la tenda alla mia sinistra: un mucchio di gente attorno, tutti con le mascherine alzate. Seri, serissimi, questi!

Possibile che siano tutti qui per me? Perbacco, sarà mai tanto complicato…

Così è sfumato, con un guizzo in vena di chissà quale brodo, in quell’istante, il mio pensiero; quel giorno, in quell’ora presta del mattino in quell’ospedale.

Attorniato da donne.

Rens

Il già e il non ancora

Posted by Bolt on marzo 29, 2015
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Foto di EH

Foto di EH

E’ già tutto pronto da un po’, ho iniziato a lavorarci alle 22:00 di ieri sera, ho fatto cento telefonate, verificato tutto più volte, parlato con il candidato scelto per il trapianto, con il chirurgo trapiantatore nella lista d’attesa, tenendo conto delle caratteristiche del donatore, sentito il gastroenterologo, i chirurghi, gli anestesisti, i colleghi infermieri, la banca del sangue, la sala operatoria, l’immunologia dei trapianti, l’anatomia patologica …

Ma non ancora, non siamo ancora sicuri che il fegato prelevato questa notte lo potremmo veramente trapiantare. Manca un particolare che tarda ad arrivare. Il paziente, visto il ritardo, si preoccupa e mi avvisano che vuole notizie andrà o no in sala operatoria, il trapianto si farà?

Il fatto è che i prelevatori dei reni hanno avvisato il Centro Regionale Trapianti, nel cuore della notte alle 2:30, che è stato necessario inviare un particolare anatomico in anatomia patologica per una diagnosi dettagliata. Se risultasse essere una tumore potrebbe saltare il trapianto e avremmo lavorato per nulla, senza dimenticare l’angoscia del paziente che potrebbe ripiombare nel “girone dantesco” dell’attesa. Gli anestesisti, impazienti mi chiedono nuove “Possiamo far portare il paziente in sala operatoria e addormentarlo?, noi siamo già pronti!” . ”Ma no, non ancora” rispondo scortese e seccato, sono stanco. Ormai sono le 5:00 se dovesse saltare il trapianto bisognerà subito riconfermare la chirurgia d’elezione prevista per oggi, anche quei pazienti sono in attesa, già pronti, ma non ancora sicuri di quel che oggi sarà di loro. Squilla il telefono ora sono i chirurghi che chiedono lumi. “Lo sapete” rispondo più tollerante, pentito di come poco prima mi ero sbarazzato degli anestesisti, “Appena avrò notizie vi avviserò… Lo so che l’ischemia diventa lunga ma……”
Mi prendo un caffè è il terzo della notte, ancora il telefono, ora è la banca del sangue “Ci sono poche unità di zero negativo, se il trapianto non si dovesse fare tutto sommato…… Comunque, in ogni caso comunicatecelo subito per cortesia”. “Ok ok sarà fatto”. L’ennesima telefonata, forse quella giusta dal Coordinamento del Centro Regionale Trapianti, bene ci siamo. No falso allarme solo il cross-match che è negativo. Sono tentato di sollecitare l’anatomia patologica, ma cadrei nello stesso errore che commette chi sollecita me e di cui spesso sono vittima, non servirebbe a nulla tanto i tempi tecnici sono quelli se telefono il risultato non arriverà prima.
E’ l’alba presto qualcosa si schiarirà, fosse anche solo il cielo. Finalmente la telefonata tanto attesa, in realtà non ancora esaustiva. Dal Centro Regionale Trapianto, dopo la diagnosi anatomo patologica, ora devono sentire una second opinion dell’oncologo del Centro Nazionale Trapianti per capire se gli organi prelevati questa notte sono trapiantabili in sicurezza, speriamo facciano presto. Ci sarà quasi sicuramente un consenso informato aggiuntivo da spiegare e far firmare al candidato, devo contattare un chirurgo del Centro Trapianti che eventualmente venga con me in gastroenterologia dove è in attesa il paziente candidato al trapianto.
Il “verdetto” del second opinion:
Si tratta di un Carcinoma di cellule renali a cellule chiare, carcinoma in situ.
Il rischio resta standard, il fegato, almeno quello, è trapiantabile senza necessità di alcun ulteriore consenso informato specifico.
Abbiamo superato il non ancora, già ora si può cominciare.

Bolt

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Pensieri cardiocircolatori

Posted by Ultiva on luglio 25, 2014
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Come sempre il pomeriggio libero è foriero di casini: mentre mi rigiro nel letto cercando un pò di riposto pomeridiano, il cellulare squilla. Il padre di M., prima mio allievo e poi mio fratello, è appena morto. E io mi rigiro nel letto perchè non so come stargli vicino senza urtare la sua dignità infinita, senza contravvenire alle scelte che con discrezione e riserbo ha applicato nei mesi di questa lunga malattia.  Sul display il mio Primario. Imprecazione silenziata, impostazione voce da sveglio: “Pronto?” “C’è una trentenne a P. con una endocardite da mettere in ECMO”. Due telefonate, polverizzo cena e dopocena. Chiamo la prefettura, chiedo il volo di stato per raggiungere quanto prima la povera disgraziata. Sono stanco, non ho voglia. Sono le 21:00. Dalla Prefettura ci dicono che l’aereo non arriverà prima delle 23:00. Striscio in Ospedale.
All’aeroporto militare sono tutti pronti: carichiamo i nostri bagagli da gruppo vacanze Piemonte e decolliamo. In 45 minuti raggiungiamo la terapia intensiva dell’ospedale di P.. La Paziente presenta un quadro di shock cardiogeno con edema polmonare nonostante il supporto aminico massimale: l’ecocardio magnifica un cuore più acinetico che ipocinetico. La cannulazione è difficile, richiede circa un ora: dopo l’ECMO il circolo – ovviamente – tiene. Scaliamo le amine, ottimizziamo ulteriormente la ventilazione, voliamo a casa. Caricare la Paziente sull’aereo è drammatico: aereo piccolo, troppo peso, equipe stanca. Certo, se ci fosse stato lui….
Ma M., ora non lavora più con me.
Mi chiedo che cazzo ci faccio in mezzo all’aeroporto di Inculandia, con 80 kg sulla schiena, quando il mio posto dovrebbe essere al suo fianco. Capire è un attimo: se M. fosse lì, vorrebbe che io portassi a termine il trasferimento. E così, finalmente certo di fare una cosa a lui gradita, infilo la Paziente a bordo e ci avviamo verso casa. Sono le 3 del mattino.
Quando tornerò racconterò a M. di questo viaggio, di quanto – ancora una volta – ci siamo sentiti vicino. E di quanto, nel salvare la vita di questa Paziente, lui fosse con me.
Perchè, infatti, proprio il giorno del funerale, la Paziente viene estubata e svezzata dall’ECMO. Mi avvicino al letto e mi presento: lei piange, io tutto contento prendo mentalmente nota dei parametri emodinamici finalmente soddisfacenti con minimo supporto farmacologico.
Oggi, in un lungo abbraccio fuori dalla chiesa, ho detto senza parlare ad M. che ero e sono lì, di fianco a lui. All’allievo che sta superando il maestro.

Ultiva

 

 

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Magia bianca / Magia nera

Posted by zarianto on luglio 20, 2014
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Sono le ore 20.00.  Nemmeno prendo servizio e già vengo chiamato per l’urgenza clinica in uno dei reparti di degenza.  Indosso rapidamente la divisa e gli zoccoli blu, gentilmente forniti dall’azienda sanitaria ai medici di guardia e tatticamente disegnati per fronteggiare l’emergenza – in ottemperanza della spending rewiev, si è omesso l’acquisto delle pettorine con la lettera S italica e la mantellina rossa – e, districandomi tra le moltitudini di parenti che, a quell’ora di visita vanno e vengono, affollando scale e corridoi del nosocomio, mi dirigo rapidamente verso la stanza del paziente in difficoltà.

Dinanzi alla porta chiusa, un capannello eterogeneo per età e corporatura di uomini di colore mi segue con lo sguardo interrogativo e insieme fiducioso che, cedendo infine alla speranza, si scioglie in un sorriso marmoreo, incastonato nell’ebano scultoreo di quei volti d’Africa, come risposta al mio cenno di saluto.

Apro la porta e un giovane nero subcomatoso, di nome Henry, giace inerme e composto sul giaciglio di lenzuola pallide, circondato dal medico di reparto, da un altro collega e dallo specializzando – tutti in abiti borghesi e camice bianco, …ma senza divisa da supereroe! – e da un ecografo, immobili, in attesa del sottoscritto.

Il problema clinico è rappresentato dal peggioramento acuto del paziente in questione, affetto da AIDS conclamato, blocco intestinale e insufficienza renale acuta, richiedenti il posizionamento rapido di un sondino nello stomaco, atto a svuotarne il contenuto, allo scopo di decomprimere l’addome e consentire l’espansione respiratoria del torace, nonché l’inserimento di un grosso catetere vascolare, la cui punta deve raggiungere le prossimità del cuore e attraverso il quale potrà avere luogo la dialisi salvifica.  Gli altri astanti hanno fallito la prima manovra, a causa della resistenza, per lo più involontaria, opposta dal paziente, né hanno dimestichezza con la seconda.  Quindi… è un lavoro per me!

Chiamo Henry che apre gli occhi e risponde.  Nel solito inglese made in Italy, incerto e improvvisato, gli spiego le manovre cui sta per essere sottoposto e ne ottengo la promessa di collaborazione, cui, nonostante l’obnubilamento mentale – non il mio, almeno nel caso in questione! – viene britannicamente mantenuta fede.  In breve tempo e con il prezioso aiuto degli infermieri, dopo l’abbandono del locale da parte degli altri medici, finalmente liberi di interloquire coi parenti degli innumerevoli pazienti del reparto, entrambe le procedure hanno luogo con successo.

Abbandono per ultimo la stanza e supero il capannello a dir poco festante, largamente prodigo di sorrisi, saluti e inchini ed emanante un oceanico profluvio di educato e gradito calore umano, una volta informato del risultato dell’intervento.

Lungo il corridoio che conduce all’uscita dal reparto, rifletto sull’ottimistico entusiasmo raccolto, sicuramente gratificante, ma apparentemente esagerato per la soluzione temporanea di un problema contingente, ben lungi e differente dalla guarigione impossibile: sperimento una sensazione di stranezza, la percezione indefinita di un dettaglio sfuggente, di un impalpabile particolare fuori posto, di un’atmosfera irreale.

Poco dopo, mentre sorseggio un delizioso caffè industriale, preparatorio della notte lavorativa, di fronte al generoso e lussuoso distributore automatico, sito nell’androne nosocomiale, incontro la persona che si prende cura di Henry nel nostro Paese.  Me ne racconta la vicenda umana, quella di un esule, di padre sciamano, in fuga da credenze magiche che obbligherebbero i prescelti, su base dinastica, a sottoporsi a riti pagani che prevedono anche la condivisione di sangue…umano!  Almeno, così mi pare di intendere. Inoltre, i parenti giungono direttamente dall’Africa, per celebrare, in loco, i riti tribali di guarigione – già svolti – per Henry.

Improvvisamente si diradano le nebbie del corridoio di reparto e l’espressione clamorosa di soddisfazione per ciò che interpreto come una presunzione di guarigione, conseguenza dell’apparente palesamento di una disperata speranza, si colmano di significato. Il rituale propiziatorio ha raggiunto lo scopo, con l’evocazione dello spirito guaritore e salvatore di vite, che si manifesta con sembianze umane, recante, come unico segno distintivo, un singolare, quanto pittoresco abito di colore…blu!

«La fede è sostanza di cose sperate e convinzione di cose che non si vedono» (San Paolo, Lettera agli Ebrei).  

Zarianto

La corsa

Posted by Gio on luglio 09, 2014
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Foto di DB

Foto di DB

 

Esco di casa in fretta, direzione ospedale.

La città è una festa colorata di gente che prende parte a una gara podistica.

Chi non corre, guarda dal bordo della strada.

Gruppetti di gente con un cono gelato in mano, a godersi l´inizio dell´estate.

Qui esplode la vita.

E vorrei prendervi parte, ma sto andando a dare una mano perché Michele sta giocandosi ora la sua partita contro il tempo.

8 anni, recidiva di una leucemia, ora ricoverato con una sepsi fulminante, che in poche ore lo ha constretto al tubo, alla dialisi, e ora all´ECMO.

Sorpasso la vita che corre, e in poco tempo sono in terapia intensiva.

Fa caldo in questa stanza e io, gli intensivisti, i chirurghi e le infermiere che lavorano intorno a Michele, siamo tutti imperlati di sudore sotto le mascherine.

Massaggiamo mentre i chirurghi isolano l’arteria per l’ECMO, ogni tanto loro ci chiedono 5 secondi di pausa dalla RCP per poter lavorare senza strattoni continui.

I miei occhi al monitor, a cercare qualche cenno di attività cardiaca.

È in DIC, sanguina da ogni possibile punto, mentre ventilo vedo il tubo sporcarsi di gocce rosse.

Plasma, trombociti, rossi; senza sosta.

Bicarbonati, adrenalina, calcio gluconato; senza soluzione di continuo.

L´ECMO inizia a lavorare: niente polso, ma flusso.

La dialisi ripulisce l’iperkaliemia, il cuore ricomincia a muoversi.

Flussi cerebrali presenti.

Ipotermia controllata.

La camera si svuota, prima se ne vanno i chirurghi, poi alcuni degli intensivisti, rimane il perfusionista e il medico di guardia.

Quando torno le strade sono vuote.

L´aria dolce dell´estate mi fa bene.

Michele questa è la tua corsa, non mollare!

 

Gio

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Bella… zio!

Posted by zarianto on luglio 03, 2014
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Foto di HA

Foto di HA

 

“Allora, signor Giuseppe, come andiamo ?”.

Con un po’ di ritardo: “…mah ?”.

Uno dei tre vicini di letto si affretta ad informarmi che occorre rivolgersi alla nipote, che “…sicuramente, sta per arrivare, lo segue ed è quella che sa tutto!”.

Insospettito, formulo due domande strategiche e chiarificatrici: “signor Giuseppe, sa dirmi dove e in che anno siamo ?”.

-“…a casa, nel milleottocentooo….”.

Perfetto! Compreso!

L’anziano (neanche tanto!) ospite lungo-nosocomiale, diabetico, martoriato da problemi circolatori degli arti inferiori, complicati da gravi infezioni sovrapposte – patologie piuttosto comuni, in pazienti di questo tipo – si trova in uno stato confusionale, precipitato dalle tossine batteriche.  E’ necessario ricondurlo in sala operatoria per tentare una bonifica chirurgica in urgenza, previa visita medica.

Mentre noi clinici ci confrontiamo, riappare la giovane nipote, di rientro da un effimero caffè, consumato, in tutta fretta, dinanzi al distributore automatico, nell’ansia di non abbandonare lo zio, nemmeno per un attimo!  Mi viene prontamente indicata dal collega e la chiamo di lontano, avvisandola della necessità di un colloquio, mentre ancora mi consulto.  Ella trasale, sgranando gli occhi e portandosi una mano al petto, come a contenere un moto di terrore!  Comprendo la tensione del parente laico, investito della responsabilità di gestire la complessità di un malato assai complicato e le sorrido, spiegandole che ho unicamente bisogno di delucidazioni storiche, che il sig. Giuseppe, al momento, non è in grado di fornire.  Ampio sospiro di sollievo!

Conclusa la relazione clinica, ho la fortuna di ascoltare la storia commovente, rivelatrice di un universo femminile sempre più sorprendente – nel bene e nel male, in genere! – di una giovane donna, che, al prezzo di grandi rinunce – anche lavorative, in un periodo come questo – e contrasti familiari, senza tornaconto alcuno, eccettuata, forse, la consapevolezza del pastoso ritorno spirituale dell’umana pietà, decide di dedicarsi completamente a uno zio, solo, che, tempo fa, le funse da padre, in assenza di quello biologico.

L’intervento verrà effettuato con successo e, dopo mesi di ricoveri ospedalieri, interventi chirurgici e complicanze di ogni genere, finalmente, il signor Giuseppe e la sua amata nipote riusciranno ad abbandonare gli ospedali e a fare ritorno a casa, dove la giovane donna continuerà a curarsi del beneamato zio.

“Qualunque cosa facciate al più piccolo dei miei fratelli, l’avrete fatto a me!”.

 

Zarianto