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Questo o quello… per me pari sono

Posted by Magamagò on luglio 07, 2017
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foto di AD

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Stanotte gliela voglio raccontare io una storia a quella dottoressa che scrive racconti nelle pause, brevi pause notturne, durante il suo lavoro in Rianimazione. Io lo so che a volte scrive al computer quello che le passa per la mente, quello che le passa per il cuore: ognuno di noi ha un suo modo di scacciare le paure, le ansie, i brutti pensieri; lei scrive.
Lo so, e poi me lo ha confidato lei stessa la prima notte, quando sono arrivato qui in reparto, più morto che vivo per colpa del cuore che sembrava un orologio impazzito; avevo però un barlume di coscienza e tanta voglia di non arrendermi.
Adesso sto molto meglio, presto mi trasferiranno in Cardiologia, ma prima voglio regalarle io lo spunto giusto, perchè lei sa usare belle parole, ha studiato tanto, è cresciuta in una casa piena di libri e di certificati di laurea appesi al muro insieme con le foto di famiglia.
Ma è ancora giovane e tante cose della vita non le sa.
Io no, non ho studiato, non c’erano i soldi, io sono emigrato da piccolo con la mia famiglia, sono stato un emigrante prima della guerra, la seconda guerra mondiale, tanto per distinguerla da tutte le centinaia di altre piccole sparse per il mondo.
Sono emigrato in America, come questi migranti di oggi, come quest’uomo nero del letto accanto, in coma per una pallottola nel cranio.
No, non proprio come lui, lui è un MIGRANTE, ed io ero un EMIGRANTE.
Forse è quella E, che non so quando e perchè sia caduta nel dimenticatoio, che fa la differenza.
Noi italiani siamo emigrati per sfuggire dalla miseria nera, dalla fame, con miriadi di figli, uno all’anno, che le nostre mogli sfornavano in campagna. E poi c’era il miraggio della ricchezza, del “sistemarsi “ aiutati da chi era emigrato prima di noi e aveva fatto fortuna, ed erano in tanti.
Ma la storia di questo africano è diversa: sa dottore’ me l’ha raccontata lui stesso notte dopo notte. Non con le parole, poverino non le pronuncerà mai più, nè nella sua lingua nè nella nostra.
Ma lo gridava la sua pelle nera che parlava di entroterra africano, lo spiegavano i calli sulle mani e sotto i piedi, che parlavano di lavoro duro nei campi, a dissodare terre arse avare di erba, lo sussurravano le cicatrici sulla schiena frutto di angherie dei padroni e di torture della sedicente polizia del suo paese. L’ho letto nei suoi occhi, senza lacrime, persi nel vuoto di ricordi lontani, e che non vedono nessun futuro, roseo o meno che sia.
I nostri emigranti tornavano spesso ricchi, almeno benestanti, con foto di belle case, belle macchine, con mazzette di denaro frusciante, che veniva voglia di seguirli anche oltre oceano.
I migranti che arrivano da noi hanno solo l’angoscia di essere fuggiti da fame, guerre, angherie e di aver trovato spesso il vuoto.
Sai dottore’, forse pensava di essere avvantaggiato, con la sua pelle nera, di non essere scoperto, quando è entrato di notte in quella villa: i suoi figli avevano fame e lui aveva visto la signora buttare nel secchio quella bistecca intera, che il bimbo non aveva voluto mangiare per capriccio. A forzare la serratura glielo aveva insegnato un italiano, a cui poteva poi portare la refurtiva in cambio di pochi euro.
Invece, maldestro, aveva incontrato il padrone di casa, con la pistola appena comprata, tanto aveva sentito in TV il nuovo disegno di legge sulla legittima difesa.
Così è finito qui, con una pallottola nel cervello, in coma irreversibile. Al padrone di casa non succederà nulla, era “ legittima difesa”!! ma accidenti! vorrei che almeno questo “salvatore della patria” fosse costretto a pagarti le spese di ospedale finchè il tuo cuore forte ti manterrà in vita, e fosse condannato a venirti a trovare tutti i giorni, all’orario di visita, col rischio di incontrare la tua famiglia.
Dottoressa, per lei la vita ha un solo valore, ed è uguale per tutti… ma per gli altri ?
Lo so, lei ha scelto di fare il medico per curare tutti e non dovere, anzi volere, scegliere.

Magamagò

Provare l’ambu

Posted by Herbert Asch on settembre 25, 2016
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Foto di GP

Foto di GP

Tanti anni fa, circa del 1988, quando ero ancora anestesista implume e ignorante (quest’ultimo lo sono rimasto) fui inviato in consulenza in un ospedalino periferico, monospecialistico medico, che assisteva molti pazienti cronici.

Ad uno di questi pazienti cronici, una SLA con paralisi ormai quasi completa, tracheostomizzato e ventilato, era necessario, mensilmente, sostituire la cannula tracheale, per cui veniva chiesta la nostra consulenza. Ed il compito ovviamente, toccava all’ultimo arrivato. Appunto il sottoscritto.

Mi era stato detto che tutto il materiale era già dal paziente, solo che andassi su.

Quindi finito il mio turno di guardia, sono partito alla volta del nosocomio con qualche dubbio, poiché di cannule, il sottoscritto, all’epoca specializzando al terzo e ultimo anno di A&R, in realtà da solo, non ne aveva mai cambiate. Ma tant’è toccava a me. Bella lì.

Il paziente, pezzo d’uomo anche se ormai consumato, aveva circa una cinquantina d’anni. Comunicava solo più digrignando i denti. Era ventilato con un baraccone che teneva mezza stanzetta, più o meno delle dimensioni di una madia da pane, su cui spuntavano qualche misuratore a lancetta, diverse manopole, dei tubi, un pallone nero che si gonfiava e sgonfiava ritmicamente, e che emetteva rumori pneumatici ritmici, il tutto per effettuare una banale ventilazione volumetrica controllata, e bon.

Neanche quel tipo di respiratore l’avevo mai visto, ma tant’è, non dovevo cambiare nulla e dubito anzi che fosse possibile cambiare modalità. L’avrei semplicemente lasciato staccato il tempo necessario alla manovra, tollerando la comparsa degli allarmi, per riattaccarlo subito dopo il cambio della cannula.

Sul carrello c’era di tutto e di più o perlomeno tutta l’attrezzatura ventilatoria che può esserci un reparto di cronici. D’altronde il personale non era solito usare tutti quei presidi ed essi venivano stipati alla rinfusa nel cassetto “Ventilazione”. La mercanzia veniva esposta come la Sindone, solo per le occasioni particolari, come appunto questa.

All’infermiera che mi avrebbe assistito spiegai che volevo preparare tutto in precedenza in modo da essere veloce e non lasciare in apnea il paziente per troppo tempo.

Breve briefing per chiarire le fasi: io avrei preparato tutto quanto serviva sul carrello, mi sarei messo i guanti, rimanendo con i guanti sterili e la cannula nuova in mano. L’infermiera avrebbe staccato la cannula dal ventilatore, sgonfiato il palloncino e tolto la cannula vecchia, io avrei infilato la cannula nuova nella stomia, e l’avrei collegata ad un tubo corrugato ed un filtro nuovo. Quindi lei avrebbe dato due o tre ventilazioni con l’ambu mentre io controllavo i campi polmonari, e, se tutto fosse stato a posto, avremmo ricollegato il paziente al suo respiratore in pochi minuti.

Tutta la pantomima l’ho illustrata in presenza del paziente, per rassicurarlo ed informarlo sulle varie manovre e poi… si comincia!

Il mio grosso problema era cosa dovevo aspettarmi infilando la cannula. C’era la possibilità di fare una falsa strada? Una cannula nuova, ovviamente di uguale modello e diametro, sarebbe entrata facilmente? E se ci fosse stato un problema come me la sarei cavata? In fondo nel mio ospedale c’era sempre un altro collega cui chiedere. Qui ero solo.

Un bel sospirone e via. Campo sterile. Ci adagiamo la cannula nuova, una siringa per cuffiare, il tubo corrugato ed il filtro nuovo. Una cannula per aspirazione viene collegata al vuoto: verifico l’aspirazione che funziona. Questa la manovrerò io. Provo il palloncino della cannula: ok.

Do il via all’infermiera, che a sua volta aveva preparato tutto a portata di mano. Ora stacca il paziente, sgonfia il palloncino e tira via la cannula vecchia.

Una veloce aspirata e infilo senza problemi (che culo!) la cannula nuova. Gonfio il palloncino. Ok ci siamo! Collego il corrugato e il filtro che tengo mentre l’infermiera collega l’ambu. Prendo il fonendo.

Due, tre pompate. Qualcosa non va, il torace non si espande. Altre due pompate: niente.

Il paziente comincia a virare verso il cianotico.

Prendo in mano io l’ambu. Due pompate. Niente

Il paziente è nero.

C’è qualcosa che non mi torna, ma non riesco a focalizzarlo.

Devo fare qualcosa… Intanto rimettiamo tutto come prima di cominciare!

Riprendo la cannula vecchia e la metto al posto della nuova, la cuffio e collego il paziente al ventilatore. Il quale ventilatore, nel frattempo, tanto per rendere meglio il pathos della scena, ha sparato i suoi allarmi che neanche un maiale sgozzato…

Il paziente ritorna al suo normale colorito dopo quattro ventilazioni, il torace si espande, gli allarmi tacciono.

Ora devo capire cosa cazzo è successo. Riguardo la cannula utilizzata, riprovo il palloncino, guardo il corrugato, ispeziono il filtro. Niente tutto regolare, a posto, funzionante.

Controlliamo il collegamento all’ossigeno dell’ambu (nessun reservoir, ovviamente, all’epoca erano fantascienza). Tutto a posto.

Prendo l’ambu in mano e un dito scompare in una piega. Piega? No, la copertura esterna dell’ambu è tagliata, di lì esce l’aria e non dalla valvola. In quegli ambu neri (qualcuno se li ricorda?) la tenuta era data dalla guaina esterna in gomma, mentre l’espansione era assicurata da una struttura interna semirigida, fenestrata, elastica. Chiudo la valvola col palmo della mano, comprimo. L’ambu si collassa, ma, non c’è resistenza, non pompa nulla; lascio andare la chiusura e non esce niente. Prendo un altro ambu dello stesso tipo che nel frattempo l’infermiera è andata a prendermi e faccio la stessa prova. Se la valvola di uscita è chiusa il pallone non si collassa, oppone resistenza, e quando lascio andare esce un soffio potente: questo funziona!

Ecco svelato l’arcano. Ecco che cosa non mi convinceva. Vista la mia poca esperienza non mi ero accorto che l’ambu non opponeva resistenza nel ventilare, ero tutto concentrato a capire quale fosse il problema, che, visti i miei dubbi iniziali, doveva per forza essere nella cannula!

E nemmeno l’infermiera se ne era accorta, non essendo abituata a ventilare con l’ambu.

A rileggerlo così sembra normale, facile: certo! se provavi l’ambu prima di usarlo…

Lo chiudi, lo schiacci vedi che resista, lasci andare e vedi che soffi… e checcivuole?

Perché, quanti dei miei colleghi e degli infermieri lo facevano all’epoca? Quanti lo fanno anche oggi? Siamo così sicuri che sia una manovra di routine?

Intanto l’ho mai vista descritta.

Anche solo restando tra istruttori BLS: se ci pensate spieghiamo per filo e per segno come e dove mettere le mani, porgere l’orecchio, fare gas (anzi G.A.S.) ma di provare i presidi che usiamo, ne parliamo? E questo neanche quando veniva data più importanza alla ventilazione.

È vero che è una cosa banale, ma quanti ci pensano?

Io sempre, visto il cago che mi sono preso. Mi viene spontaneo appena prendo un ambu in mano.

Per finire la storia, la cannula l’abbiamo poi cambiata, senza più problemi, ma quella cannula me la ricordo ancora adesso.

Herbert Asch

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L’uomo fantasma

Posted by Stellasplendente on maggio 12, 2015
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Foto di MV

Foto di MV

Il barbone fumè sfiorava il petto, sopra la camicia hawaiana tarmata, ed era pieno di briciole di pane e residui di cibo. L’addome gonfio per l’imponente versamento ascitico gli rendeva difficili tutti i movimenti. Stava seduto a bordo letto con le gambe gonfie, che trasudavano siero, penzoloni dal letto. Accanto a sé, sul tavolino bianco di plastica, in mezzo a bottigliette d’acqua vuote e fazzoletti di carta usati arrotolati, una fotografia che lo ritraeva, con qualche anno in meno, ma sempre con l’inconfondibile barbone, insieme a un cane di media taglia color champagne, intento a leccargli l’avambraccio sinistro.
L’uomo, tossicchiando, cercò di attirare l’attenzione della dottoressa, intenta a fissare l’immagine. Sembrava le avesse letto il pensiero.
“Lui è Jack”, la voce dell’uomo, da vecchio fumatore di sigarette, era roca. Gli occhi erano solcati come da pneumatici di un TIR. “L’ho trovato per strada due anni fa. Anche lui un randagio, come me”, aggiunse con un fil di voce. Era evidentemente dispnoico e la posizione seduta gli permetteva di respirare un po’ meglio.
“E dov’è ora?”. Gli occhi verdi della dottoressa non riuscivano a staccarsi dalla fotografia. Immaginava le mani callose e unte dell’uomo che accarezzavano la bestiola.
“L’ho dovuto lasciare alla signora Maria, la perpetua del parroco. L’unica che si ricordava di portargli qualche scatoletta di cibo. Lo terrà con sé qualche giorno, poi lo porterà in canile. Il suo padrone di casa la scaccerebbe se sapesse che tiene un animale in casa”. Gli occhi dell’uomo si fecero umidi e con la mano si asciugò una lacrima. La dottoressa deviò il suo sguardo sulle unghie luride del suo paziente e pensò che gli infermieri avrebbero avuto un bel po’ di lavoro di brusca e striglia da effettuare.
“Ma non ha qualche parente cui affidarlo durante il periodo della sua ospedalizzazione?”. La dottoressa non riusciva a darsi pace. Il suo interesse per la creatura era ben superiore a quello che avrebbe dovuto prestare per raccogliere l’anamnesi del paziente. In realtà era l’aspetto umano di chi vive per strada e per di più con un cane, quello che le interessava. Immaginava l’uomo che, con la sua grossa stazza e i vestiti lerci e sgualciti, se ne stava sdraiato su un pezzo di cartone per strada, in fila indiana con altri clochard lungo il ciglio di un’affollata strada pedonale del centro cittadino, con a fianco il suo cane scodinzolante. Riusciva a immaginare anche il rivolo di saliva che usciva dalla bocca della bestia mentre leccava il suo padrone e i suoi grandi occhi neri sognanti, innamorati del grande uomo senza casa. Si sentì stringere il cuore in una morsa di dolore e di compassione.
“Dottoressa, io non ho parenti e non ho amici. Ero solo al mondo, prima che arrivasse Jack nella mia vita. Lui è tutto quello che ho in questa vita. Non desidero altro”. Una goccia di sangue uscì dalla bocca dell’uomo. Si stava mordendo forte il labbro con il suo unico dente rimastogli, un premolare inferiore nero e cariato. La dottoressa si avvicinò con una garzina per tamponargli la bocca, ma prima indossò i guanti di lattice. L’alito dell’uomo era quello della frutta marcia e la dottoressa scostò il viso e si pinzò discretamente le narici con la mano sinistra, quella non intenta al soccorso.
“Mettiamo un po’ di ossigeno”. Il respiro del paziente si faceva sempre più rapido e superficiale. La dottoressa prese un saturimetro e la fronte le si aggrottò leggendo il numero sul display: ossigenazione sessantacinque per cento!
“Dottoressa, io…io devo scendere sotto nell’atrio”.
“Non se ne parla neppure!”. La voce della dottoressa era ferma e risoluta. Preparò l’erogatore nasale decisa a imporlo al suo paziente. Non c’era tempo da perdere.
“Devo scendere. Devo! Voglio vederlo. Un ultima volta. Il mio Jack! E poi farò quello che dice Lei. Poi morirò in pace”. Le labbra si facevano sempre più cianotiche e il respiro stertoroso. Si potevano udire grossolani rantoli senza bisogno del fonendoscopio.
La dottoressa si rese conto che sarebbe stato inutile cercare di fermare il suo paziente. Con uno spintone avrebbe potuto farla cadere. Anche se debole e fiacco, la sua corporatura massiccia e l’enorme quantità di liquidi accumulati nell’addome e nelle gambe, lo rendevano imponente.
L’uomo si alzò risoluto dal letto. Appoggiò le gambe a terra e cercò di fare uno, due, tre passi. Poi le gambe cedettero e il barbone cadde a terra, franando fragorosamente con la testa contro il lavandino posto di fronte al letto. Il suo unico dente schizzò via dalla bocca e la barba si riempì di schizzi di sangue, che imbrattarono anche la camicia hawaiana.
La dottoressa afferrò un campanello e lo schiacciò con tutta la sua forza: “Aiuto! Presto! Portate il carrello dell’emergenza e il defibrillatore!”.
Il corridoio freddo e grigio si riempì di rumore di zoccoli sul pavimento appiccicoso di detersivo. In pochi istanti l’uomo aveva tutti intorno a sé, tutti quelli che negli anni lo avevano guardato senza vederlo, fantasma in carne e ossa. Si ritrovò in un baleno con un tubo in gola e placche che scaricavano elettricità sul torace peloso. Braccia affaticate gli premevano contro il petto, imprecando contro il tempo, e che gli conficcavano aghi nella pelle per somministrargli i farmaci della speranza.
Nell’atrio dell’ospedale un cane di taglia media color champagne e una donna canuta attendevano, invano. Il cane, improvvisamente, smise di scodinzolare. E tutto, intorno a lui, si fece buio.

Stellasplendente

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L’ uomo che non riusciva a morire in pace

Posted by rem on gennaio 05, 2015
racconti / 1 Commento
foto di MV

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Era arrivato a 90 anni quasi senza rendersene conto e senza meriti particolari,   soprattutto aveva  sempre  fatto finta di niente, come se gli anni non passassero, come se gli orizzonti non si restringessero con il passare del tempo, come se non aumentasse giorno per giorno la possibilità di morire, almeno  statisticamente. Aveva  vissuto ogni giorno come puro presente, e si era risvegliato il giorno dopo riniziando  da capo, nessun  segreto particolare. Ora però si sentiva un po’ stanco, niente di tragico , voleva solo finire di vivere, serenamente, come aveva sempre vissuto. Era solo stanco e non era nella natura del suo carattere, delle sua personalità docile, cercare una via d’uscita a questa vita terrena che peraltro riteneva anche l’unica, non sentendosi particolarmente affine a chi credeva in una vita dopo la morte. Va bene così, pensava. Mi basta questa vita che ho vissuto. E poi una vita senza corpo , non era così sicuro che sarebbe stata veramente desiderabile.  Aspettava quindi, giorno dopo giorno, ripetendo automaticamente e un po’ più a fatica gli atti della vita di tutti  i giorni: lavarsi, vestirsi, andare di corpo… Regolarità novantennale, una palla ormai, era per questo che se avesse potuto avrebbe volentieri accelerato i tempi. 

Nessun gesto tragico però, non era nelle sue corde

Così quel giorno quando si svegliò e non si sentiva un granché, un pensiero  lo fece, ma non lo disse alla badante ucraina che viveva con lui più per tranquillità dei figli che per reale necessità. Poi verso mezzogiorno una strana sudorazione accompagnata ad un dolore mai provato al centro  del petto, una morsa, non una bella sensazione,  “ci siamo” pensò. 

Ebbe  appena il tempo di pensarlo che svenne. Quando riprese conoscenza il mondo era arancione, una allucinazione lisergica, ma il dolore era ancora lì, stava di nuovo per svenire, vide piastre metalliche impugnate  a pochi metri dalla sua faccia e quando rinvenne   del tutto capì che l’arancione erano le tute del personale del 118 accorso al richiamo della badante che aveva fatto un corso di rianimazione cardiopolmonare e lo aveva massaggiato fino all’arrivo dell’equipe di emergenza

“Oreste! le ho salvato la vita” disse la badante 

“ma vaffanculo” fu l’unica cosa che gli uscì dalla bocca, non esattamente un ringraziamento. 

Era la prima volta che le mancava di rispetto.

rem

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La migliore complicanza possibile

Posted by FiloDiK on dicembre 08, 2014
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Foto di NC

Trauma trauma trauma traumapediatrico. Un bambino, frattura di Monteggia tipo 1, e come ultimo della mattina.

Butto giù a fatica lo pseudo-caffè della macchinetta, con in testa il solito film dell’esserino urlante e indomabile che sta alla sala operatoria come un DJ ad una severa biblioteca.

Grazie a Dio almeno dormirà … Non faccio in tempo a finire questo pensiero semiconscio e politicamente alquanto scorretto che mi viene incontro l’anestesista. Ahia, aria di casini! Niente totale. Niente totale Eh no, elleviibipi … insomma, plesso pediatrico e pace, per tutta una serie di ragioni. E’ sicuro è provato è efficace. Lo dice anche Pubmed, se leggi.

Leggo, giuro.

Lei così lo tiene controllato, ed è tranquilla, lei. Lui così non sente male, ed è sereno, lui. Io così mi scartavetro le mani al lavaggio per scaricare il nervosismo, io.

E se …. E se gli faccio male? Se il plesso prende poco e lui sente mentre incido? Se lo faccio piangere, o peggio, urlare di dolore? Se lo traumatizzo a vita? Madonna Santa. Entro in sala tutta tesa, e mi sembra così diverso dalla visita in PS di poche ore prima. Mi sembra molto, ma molto, piccolo. Un ragnetto piccolo e secco, incartato come uno strano regalo nel riscaldatore Bair Hugger che lascia emergere solo un visetto vispo e due occhioni azzurri giganti. Due scanner che mi sento addosso durante la vestizione, due fari allo xeno che si allargano ancora di più quando spontaneamente mi dice “lo so che dovevo dormire, ma ti prometto che starò fermo e quindi tu stai tranquilla”.

Mi vergogno. Mi ha rubato le battute. Sono sempre io quella che tranquillizza, col mezzo sorriso sicuro. Eh che diamine.

Meno male che il collega si sta ancora lavando, posso mantenere una reputazione da adulta con tutti i crismi. Iniziamo, e il bello è che il ragnetto sta fermo davvero. Ma proprio fermo, che l’avambraccio di ieri con tutti i suoi 65 anni di vita in confronto ci ballava la tarantella sotto i ferri. Sta LVIBP1 funziona proprio bene. E anche il mio ragnetto se la cava alla grande… bravo ragnetto coraggioso! Spariamo il filo decisivo, ci siamo quasi ragnetto resisti. Il collega va a scrivere l’intervento e io resto a rifinire il tutto con le scopie e la medicazione. Niente di nuovo sul fronte occidentale, direi …

Ma entra il Doc con la sua faccia da brutto quarto d’ora. Uragano in vista, e solo perché mi è finalmente arrivata l’approvazione del Capo per quel periodo di perfezionamento all’estero che avevo richiesto da mesi. Vuoi andare all’altro capo del mondo, ho fatto tanto per te ma non è mai abbastanza, hai fretta di cambiare ambiente perché non vuoi restare qui con me, cosa ti danno loro che qui non hai e variazioni sul tema, a volume crescente. Argomentazioni infondate e tempismo discutibile, Doc, ma non posso risponderti per le rime perché sei già uscito come una furia, perché sei tu, e perché c’è il ragnetto sveglio sul lettino.

Ragnetto che ha deciso di stupirmi fino in fondo, ragnetto che – appena tolgo il telino che ci ha divisi per quasi due ore – mi guarda. Mi guarda e mi dice che non devo arrabbiarmi, che è come quando il suo papà lo sgrida, perché ci tiene a lui. “Lui mi urla quando sbaglio, ma io lo so che poi mi vuole bene perché mi aiuta e mi fa le sorprese e controlla sempre se mangio”. Non riesco a reprimere il pensiero irritato per cui il ragnetto è solo un ragnetto, che cosa vuole saperne lui … queste son dinamiche complesse, altro che papà e figli … son cose da adulti, ecco.

Ragnetto mio, devi capire, il Doc non è il mio papà. Lui è arrabbiato con me e basta, non sto a spiegarti. Peccato che proprio in quel momento il Doc rimetta dentro la testa. “Pensavo che tra tutto tu oggi non hai mangiato! Dai che in mensa ci sono le lasagne calde, magari mandi giù un piatto di cibo vero per una volta, no?! Fai veloce che se no becchiamo una coda che neanche lo stradone alle 18:00!”.

Ragnetto, hai sentito anche tu ?! Se hai pazienza un secondo mi levo il guanto. E per rispetto del plesso mi limito a un ganascino sulle tue guancine da cucciolo – per darti un abbraccio da boa constrictor, in fin dei conti, posso anche aspettare in reparto.

 

FiloDiK

 

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L’uomo in blu

Posted by massimolegnani on febbraio 16, 2013
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Foto di MV

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È il colore a volte che fa la differenza, nel mio caso una differenza abissale.

Avrei voluto essere arancione, mi sono ritrovato blu.

Pensare che una dozzina d’anni fa al corso teorico-pratico organizzato dall’ASL per selezionare chi fra i propri autisti avrebbe guidato le ambulanze del 118, ero stato tra i migliori, alzavo la mano come a scuola e snocciolavo senza errori la successione delle manovre del log-roll, sapevo dire quando e come si doveva usare il cucchiaio e quando la spinale, conoscevo a memoria procedure d’intervento e protocolli di chiamata. Quello era stato un periodo esaltante, di giorno il solito lavoro, alla sera uno studio accanito, di notte il sogno sempre uguale e sempre bello, sfrecciavo per le strade a sirene spiegate, fendevo il traffico come Mosè le acque del MarRosso, portavo l’equipaggio sul luogo del disastro, collaboravo nel soccorso dei feriti, l’arancione fluorescente del giaccone d’ordinanza un lasciapassare tra la folla dei curiosi. Tutto faceva pensare che sarebbe andata proprio così, ma poi all’esame mi ha fregato l’emozione.

L’istruttore mostrandomi il manichino riverso sul pavimento mi disse Guglielmetti fai conto che sia un ragazzino di dodici anni coinvolto in un incidente: apparentemente non è cosciente, forse non respira, datti da fare. A sentire quelle parole non ho più visto davanti a me un bambolotto di plastica ma un volto insanguinato e ho perso la testa, Cristosanto è poco più di un bambino. Mi sono chinato su di lui e anziché iniziare le manovre di soccorso che pure sapevo a menadito l’ho preso tra le braccia, un bambino vero, irrimediabilmente morto, tra le mie braccia, un bambino da lavargli il viso con le lacrime, piangevo sì, e lo cullavo mentre l’istruttore sbraitava Guglielmetti ma che fai? Sbrigati, sta per morire, Guglielmetti dacci dentro con la rianimazione, forza! No, è inutile, non ce la può fare, non ce la posso fare, è morto, povero ragazzino, morto senza nemmeno un nome. L’unica cosa che m’importava era tenerlo stretto, lì inginocchiato su un pavimento che credevo asfalto tra rottami e resti umani, essergli vicino nel passaggio, accompagnarlo dove…non lo so dove vanno a morire i morti. Avevo un dolore mai provato.

Mi dovettero staccare a forza dal manichino e del mio passaggio al 118 non se ne parlò mai più.

Mi assegnarono un furgoncino, che di recente hanno sostituito con uno appena più moderno, ma niente lampeggianti nè sirene, e una divisa orrenda, giubbino blu con stampigliata una croce rossa subito sbiadita e pantaloni della stessa tinta con al fondo una striscia catarifrangente bianca. Ai piedi non gli scarponcini in goretex di cui sono forniti gli “arancioni”, no, per le scarpe arrangiati, così una volta mettevo mocassini marroni o sandali d’estate, ora delle vecchie Superga che ho ritrovato in casa.

Così conciato, che sembro una caricatura del soccorso, batto la provincia in lungo e in largo a portare campioni di piscio e sangue da un laboratorio all’altro ed anziani dalle case di riposo all’ospedale per esami, ma solo se non stanno male, sai Gu non vorremmo che ti emozionassi un’altra volta se li dovessi rianimare, e una risata cattiva a chiudere il discorso.

Dodici anni che faccio ‘sto mestiere, una dozzina d’anni lunga come un giorno solo, talmente è sempre uguale quel che faccio. E quel che è peggio non è il lavoro ma la pausa in mensa dove vorrei mangiar da solo e invece c’è sempre qualcuno degli equipaggi del pronto intervento che si siede e sfotte, e anche se non sfotte mi basta vederlo tutto in ghingheri, lo zaino rosso delle emergenze accanto alla sedia, il cellulare collegato alla centrale, la chiamata a inizio pasto e lui che scatta, bello e sicuro come un guerriero, lascia il vassoio quasi intatto, beato te che puoi mangiare tranquillo dice con aria superiore e subito corre a salvar la gente, mi basta questo per sentirmi la mezza merda che sono diventato.

E poi magari anche a me interrompono il pasto, Guglielmetti vai a prendere il signor Lacchia di Caluso e portalo alla dialisi. Provo a obbiettare che c’è tutto il tempo, senti, finisco di mangiare e vado; No! gracchia il mio severo dio nella ricetrasmittente, ci vai immediatamente che questo già una volta si è lamentato di te, sei arrivato all’ultimo momento e dopo andavi troppo forte in macchina e lo sballottavi di qui e di là. Ok, vado, non discuto, vado.

Lacchia è una serpe d’uomo. D’accordo ha i suoi malanni, la dialisi non è una passeggiata ma lui ce l’ha col mondo intero e con me in particolare perché lo porto dove non vorrebbe andare. Lo carico, lui e la carrozzina (potrebbe camminare, certo, ma il viaggio verso l’ospedale pretende di farlo sulla sedia a rotella) utilizzando l’elevatore elettrico del mio CuboFiat e da quel momento il signor Lacchia troneggia sul pianale posteriore, diventa il mio tiranno grigio, mi rimbrotta per ogni cosa, la guida, il traffico, il riscaldamento eccessivo o troppo basso, mi tiene il fiato sul collo, sbraita e sputacchia saliva, certe volte mi minaccia pure con l’inseparabile bastone, e diventa un calvario il viaggio. Ci vuole tutta la mia pazienza a sopportarlo e quell’ora che passo con lui mi segna la giornata. Dopo non c’è sorriso di altri miei clienti che compensi l’umore rovinato.

Questo mestiere mi regala poche soddisfazioni e allora retrocedo a minime ambizioni, divento consapevole del poco margine possibile di miglioramento, cerco di lavorare in fretta per ritagliarmi piccoli momenti di consolazione tra un servizio e l’altro, una sosta al bar, qualche sguardo rubato in giro, due parole con la Piera mentre le consegno le provette per le analisi e lei mi firma la ricevuta, il seno che straripa nel camice attillato e quel sorriso un po’ sciupato che invita all’ammicco e alla battuta sconcia alla quale non rinuncio (eh Piera, sempre col vento in poppa e le poppe al vento).

E quando mi capita di andare verso sud a consegnare materiale alla Sorim mi fermo tra le risaie a osservare il bianco degli aironi. Li guardo curvi a nettarsi con il becco le piume al sottocoda e immagino le mondine ancora chine sulle erbacce. Ascolto il loro canto e vedo i corpi curvi che dovevano a quel tempo essere belli.

massimolegnani

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Non svegliare il can che dorme

Posted by massimolegnani on gennaio 27, 2013
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Foto di MV

Foto di MV

Me, non mi devono svegliare nel cuore della notte, che poi resto sfasato un bel tot di ore. Il meglio lo do fino alle tre del mattino, saltabecco qui e là con la freschezza di un cameriere a inizio turno, viaggio veloce per le scale come avessi una pila duracell e mi destreggio tra barelle e culle con la lucidità di un campione di scacchi che gioca una simultanea contro quindici avversari.

Ma dopo quell’ora è nebbia in val padana.
I miei colleghi ormai lo sanno e rinunciano ad un aiuto che sarebbe solo sulla carta. Se la cavano da soli, maledicendomi in silenzio e io nel sonno m’impegno a registrare una lieve irrequietezza, un doveroso sprazzo d’incubo partecipe dell’affanno altrui.
Ma ogni tanto c’è qualcuno nuovo che non sa come gira il nostro mondo e chiama. E allora son dolori. Non che io faccia sfracelli con l’incauto, è che faccio pasticci con chi non c’entra.
Come due ore fa, quando mi hanno scaraventato giù dal letto che erano le quattro del mattino.
Corro a sciacquarmi la faccia e a mettermi le lenti e mi precipito in sala parto. Mi precipito per modo di dire perché ho difficoltà a mantenere il pavimento in piano, mi sembra disassato, come anche tutto il resto: è come se vedessi da una parte le cose troppo vicine e dall’altra assai lontane. Penso ad una dispercezione legata al sonno e mi arrabatto a camminare storto con la testa tutta sbilenca per compensare in qualche modo la visione asimmetrica.
Quando, rasentando il muro a palmi aperti, entro in sala parto, tutti mi guardano stupefatti. Peggio del solito, mi redarguisce la vecchia ostetrica, che mi conosce bene. Perfino la donna che sta per partorire e che fino a un momento prima avevo sentito urlare, alza la testa e ammutolisce; certo si sta chiedendo se sono ubriaco e subito riprende a urlare con una disperazione in più. Faccio un cenno con la mano per dire che tutto è sotto controllo, ma non ci credo nemmeno io, figuriamoci loro. Per pura formalità, mi ragguagliano sul caso, la signora è completamente dilatata, dovrebbe partorire da un momento all’altro, ma qualcosa impedisce al feto di procedere. Nuovo cenno di rassicurazione da parte mia, ma il mio tastare gli oggetti usuali come un cieco, non aiuta nella rassicurazione.
D’altra parte, da quel poco che riesco a vedere anche gli altri protagonisti di questa sceneggiata non sono al meglio: il ginecologo è tutto storto da far invidia ad Andreotti e indossa sotto il camice un giubbotto di piumino, che qui ci sono almeno quaranta gradi. Ho il torcicollo, mi dice, ma secondo me è un eufemismo per non ammettere che è proprio messo male; ogni volta che deve controllare a che punto è arrivato il bimbo, compie tre lenti giri su se stesso come si stesse avvitando prima di riuscire a tuffare la faccia all’altezza giusta tra le cosce della signora. L’inserviente di sala non so che le ha preso, ma sembra un tacchino col singhiozzo, ciondola il capo e rincula il sedere in un sincronismo da ballerina di tango. E poi c’è l’infermiera del nido, la Silvietta, una vera bambolina. Se ne sta in un angolo tutta intabarrata nel camice da sala, pronta a raccogliere il bimbo che chissà quando nascerà. Sta lì silenziosa e un poco assente, ma a un certo punto la vedo barcollare. Capisco che sta per svenire e le vado incontro per sorreggerle almeno il capo. Purtroppo con quest’occhio destro che vede in un modo e il sinistro che vede in un altro, manco la presa di circa mezzo metro e sto lì come un portiere dell’Inter a brancicare l’aria mentre la palla, no, la testa della poveretta dà una craniata sul pavimento da far tremare i vetri. La signora interrompe la contrazione, si solleva stravolta sui gomiti e mi dice “mi giuri che non lo prende lei il mio bambino”. Gli altri mi riaccompagnano all’isola neonatale, mi fanno toccare i bordi del lettino e mi pregano di non muovermi più di lì.
Insomma è una tragedia annunciata.
E il bambino non nasce.
E intanto il ginecologo continua ad avvitarsi, il tacchino-inserviente gloglotta, Silvietta sviene e rinviene ogni sette minuti e mezzo e la signora che deve partorire non partorisce.
Io ormai ho smaltito la sonnolenza, ma la mia vista non è migliorata.
Scoccano le sei, arrivano le forze fresche del cambio turno.
Alle sei e un minuto la signora sforna un magnifico bambino e dice, non ce la facevo più a trattenerlo, ma l’importante era arrivare al cambio turno.
Io continuo a vedere male.
Vado a svegliare il mio amico dell’oculistica e gli racconto preoccupato l’accaduto. Lui mi guarda con aria comprensiva e senza accennare a visitarmi dice:

-hai invertito le lenti, coglione!-

 

massimolegnani

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un corso sul politrauma

Posted by il Jolly on aprile 05, 2011
racconti / Nessun commento

Un corso sulla gestione del politrauma, in qualità di docente. Dovevo arrivarci prima o poi a questo momento topico della mia carriera professionale! Be’, le linee guida della regione Marche sul politrauma sono del 2006, a dire il vero, ed il gruppo di revisione della zona territoriale di Senigallia, si è limitato ad adottarle con qualche aggiustamento (ad esempio il radiologo di guardia 24/24 noi non lo abbiamo. Non ce lo possiamo permettere). Affronterò il tema dei criteri di centralizzazione dal DEA di I° al DEA di II° livello. Poi verranno discussi dei casi clinici. Porterò P.B. Non so bene ancora perché, ma lo saprò presto.P.B. aveva accompagnato i figli ad una serata del Summer Jamboree, il festival musicale anni 50 che la mia città ospita da diversi anni. Sindacalista stimato, concreto, ne aveva passati di momenti difficili, come un trapianto di rene alcuni anni prima. Fino a quello stop. Un attimo di distrazione, lo schianto sul lato di guida ed il dolore, forte al torace, il respiro faticoso. Codice rosso traumatico. Al PS le condizioni sembrano gravi, ma non disperate: PA 130/70, GCS 15, FC 100, SpO2 97% con O2 in maschera.
Però un forte dolore al torace e l’addome fa male anche quello. Viene sottoposto ad RX torace che evidenzia un pneumotorace a sx con fratture costali multiple. Arriva il Rianimatore e si avvisano il Radiologo ed il Chirurgo reperibile. Verrà condotto in sala ecografica dopo il posizionamento di un drenaggio toracico in sala operatoria. Il Rianimatore sale con il paziente, segue il Chirurgo. Ci vuole poco in mani esperte a posizionare un drenaggio toracico. Escono 800 cc di sangue. Il collega mi chiama (e se Enrico chiama… sono cazzi!). Il chirurgo vorrebbe una TAC toraco-addominale. Lo dissuado, chiamo il Radiologo e lo faccio salire in sala con l’ecografo portatile. Nel frattempo il nostro P.B. e’ sempre piu’ dispnoico e va in shock! Gia’ visto. Mettiamo la sonda ecografica, ma sappiamo gia’ quello che vedremo e lo vediamo. P.B. e’ lucido, lo avvisiamo della necessità dell’intervento e di dover procedere alla anestesia generale. Ci avvisa che sarà una intubazione difficile, ci prega di fare attenzione a non rompere le protesi fisse. Immagino siano costate un occhio. Induciamo. Ha ragione, non si intuba! Iniziamo l’intervento di laparotomia con Enrico che ventila in maschera. Poi provo con la CTrach e riusciamo ad intubarlo in qualche modo. Ha una cannula sedici ed un diciotto. Metto un CVC. Milza rotta, lacerazione di mesosigma e meso ultime anse ileali, esteso ematoma retroperitoneale, disinserzione completa emidiaframma sx…ecc. Teniamo duro per tre ore e tre arresti cardiaci intraoperatori. Sul campo di battaglia nove unita’ di emazie concentrate, due di plasma, 2 litri di colloidi, 4.5 litri di cristalloidi, infusione di amine, sudore… Poi l’ultimo arresto. All’ultimo punto di cute. Parlerò di P.B., non so ancora perché, ma lo saprò al momento.

Il Jolly

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una notte tranquilla

Posted by zarianto on dicembre 29, 2010
racconti / 1 Commento

E’ l’una di notte e ho appena messo in ordine i pazienti della terapia intensiva che probabilmente veleggeranno tranquilli fino a domattina, quando giungerà il mio cambio. Al momento, la loro presenza è scandita unicamente dal monitor che ne trasmette il battito cardiaco, fortunatamente ritmico e regolare – fossero tutti così… Il volume è basso e si diffonde poco oltre la penombra della sala degenza, dove, abbassate le luci, per consentire agli sventurati ospiti di conservare almeno una parvenza di ritmo sonno-veglia normale, qualche infermiere, vinto dal sonno, si assopisce, chi su una sedia a sdraio, chi reclinando il capo sulla scrivania. E resto solo! Solo, in cucina, alla luce fioca di una cappa, a sorseggiare placido un bicchier d’acqua naturale da frigo, che di più la mia salute con consente. Dinanzi a me, l’enorme vetrata che, dall’alto del colle su cui mi trovo, domina il borgo sottostante, appena abbozzato dai lampioni che disegnano viali deserti e geometrici. Una luna brillante si affaccia tra nubi rade a tratteggiare i contorni degli edifici, bui, in cui gli altri, giustamente, riposano. Alcune stelle biancheggiano – o rosseggiano – minuscole nel cosmo. Una quiete irreale e insolita avvolge il nosocomio. E io rimarrei qui, a farmi sorprendere da un’alba che mi apparirebbe in tutta la sua grazia. Ma non posso. Devo tentare di riposare, per essere fresco, lucido e forte, qualora dovessero chiamarmi a soccorrere un paziente vittima di trauma maggiore, di avvelenamento, di emorragia cerebrale, di arresto cardiaco, di insufficienza respiratoria… Così, svogliatamente mi sollevo da una sedia piuttosto scomoda, volgo le spalle all’infinito e mi dirigo verso il corridoio, unico ambiente illuminato a giorno. Non appena attraverso la porta della cucina, vedo irrompere nel reparto… il mio cambio in borghese, che a quest’ora, da disposizioni turnistiche, dovrebbe essere comodamente adagiato nelle lenzuola di casa sua! Non faccio a tempo a chiedergli cosa accada che d’improvviso… intuisco! E mi faccio prima serio e poi triste. Di ciò che mi racconta, capisco solo il nome della moglie, l’altro mio cambio del mattino, gravida di un bimbo tanto cercato! Ricordo come nei giorni scorsi si portasse spesso la mano sull’addome e lamentasse fitte. E ciò che tutti temevamo, e a cui nessuno voleva credere, si è avverato. Ora tocca rivedere il cavo uterino, cioè “raschiare” – come si dice – i resti dell’aborto spontaneo. L’ingrato compito di sedarla, è mio!
Mestamente e in silenzio, il mio cambio e io ci dirigiamo verso la scalinata che conduce alla camera operatoria della sala parto e la percorriamo, guardando, ma non vedendo, uno ad uno i gradini che da essa ci separano… Non una parola. Non oso sollevare lo sguardo.
In sala operatoria, lei mi attende, nuda e indifesa, assicurata al letto, in posizione ginecologica. Vorrei abbracciarla e proteggerla e anche il marito, persone al cui fianco lavoro già da qualche anno, che conosco da ancor più tempo e che frequento fuori di qui, nel mondo reale! Amici? Non so, forse. Se no, qualcosa di molto simile. Sono piuttosto imbarazzato, ma, sorridendomi, la mia amica mi scioglie subito.
Terminata la procedura, dolcemente si risveglia e, liberata dai lacci di contenimento, atti ad evitarne la caduta durante il coma anestesiologico, mi prende la mani per poggiarvici le labbra, in segno di ringraziamento! La consegno al marito e mi reco nella stanza del medico di guardia, dove l’alba, filtrando dalle fessure delle serrande semichiuse, mi coglierà supino, con le mani incrociate dietro la nuca e rigorosamente sveglio, poiché non sarò riuscito a fare altro che pensare al mio, cambio!

Zarianto

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se non c’è urgenza

Posted by Morris on novembre 13, 2010
racconti / 2 Commenti

Dunque, mi chiamo, diciamo, Priscilla, e vi scrivo tramite quell’individuo inaffidabile di Morris perché è lui quello che ha fatto il classico, e in qualche modo dovrà rendersi utile, visto che l’ho sposato.
Sono anch’io medico (si, è un classico, i medici si sposano fra di loro perchè la loro è una vita di sacrifici, di turni impossibili ecc, ecc e chi meglio di un collega può capire ed esserti vicina, tanto per andare alla sagra dei luoghi comuni) e ormai da una vita faccio “provvisoriamente” la guardia medica sul territorio (o, come si dice adesso, “Continuità assistenziale”, che fa più figo).
Quando cominciai a fare guardie, tanto tempo fa, mi trovai una sera in turno con un collega non più di primo pelo e quando gli chiesi perché era ancora lì mi rispose: “Mah, vedi, questo può sembrare un lavoro da schifo, però quando al mattino smonto e mi incrocio con gli schiavi che entrano in ospedale con il capo chino e il pensiero del Primario, del Direttore sanitario, del Direttore amministrativo ecc. ecc. che gli alitano sul collo, mentre io sono libero di andare a pescare, ti dirò, mi sento quasi felice”. Allora mi sembrò un’eresia, ma con il tempo ho cominciato a capire un po’ di più il suo punto di vista.
Il fare prevalentemente turni notturni ti dà effettivamente la possibilità di avere tempo per la famiglia durante il giorno che gli altri lavori non ti danno. Lo svantaggio, intuitivo, è che se la notte stai sveglia e di giorno fai la mamma (e per di più una mamma di oggi, di quelle con l’horror vacui, che se non riescono ad occupare ogni istante libero loro e dei figli con qualche impegno le prende l’angoscia) prima o poi ti capita di stramazzare al suolo.
Ho trovato la quadratura del cerchio ottenendo, grazie all’anzianità acquisita, l’ambito posto presso una sede periferica con un tasso di chiamate decisamente più accettabile di quello dell’ area urbana. Si, possono capitare notti di tregenda con chiamate da poderi dispersi mentre fuori c’è un tempo da lupi, ma di tanto in tanto c’è un bel turno in cui il telefono sembra essersi dimenticato di te.
L’altra faccia della medaglia è che qui sei sola, completamente sola; sola con i tuoi dubbi, con la paura di sbagliare; non hai dietro di te laboratorio, radiologia, consulenti; nemmeno un collega di guardia con cui scambiarti un parere. La decisione è solo tua, e tutte le notti devi tirare la tua monetina mentale per decidere se quel dolore addominale giustifica un Buscopan o un invio in ospedale, e speri sempre che cada dal lato giusto, la monetina.
Ma oggi non ci sono monetine da lanciare, non ci sono alternative possibili. “Ci sarebbe da constatare un decesso”. Quante volte ho sentito questa frase. Solo che stavolta al telefono c’è il maresciallo dei carabinieri, e come indirizzo a cui recarmi ho solo un chilometro della strada statale. “Tanto quando arriva lì ci vede, ci siamo noi, i vigili, l’ambulanza….”
Lì è un punto in cui la statale costeggia il fiume che scorre diversi metri più in basso, c’è un parapetto, da cui si vede un sentiero lungo l’argine, asfaltato per fungere da passeggiata turistica. Solo che non sono turisti a percorrerlo oggi, ma solo figure in divisa. E in mezzo a loro, stesa sotto un lenzuolo macchiato di rosso, una sagoma.
C’è una scalinata che dalla strada porta al lungofiume, e la scendo con una sensazione di straniamento: guardo la scena come dall’ esterno, come se quello fosse CSI e io stessi guardando un episodio alla TV.
Il maresciallo mi deve vedere un po’ bianchina, e mi prende da parte. “E’ solo una formalità, dottoressa. Si è buttato da lassù, vede? E’ senz’altro morto sul colpo. Quelli del 118 gli hanno già fatto il tracciato e hanno preparato il certificato di morte, c’è solo da firmarlo, così possiamo spostare la salma.”
Mi faccio forza e mi avvicino alla salma. L’infermiere catafratto nelle sua bella tuta tattica arancione mi porge una risma di fogli e un ECG rigato da una serie di linee piatte parallele. Guardo i certificati e ,quando vedo il nome del morto posto in intestazione, ho un flash back.
Sono tornata ad una chiamata di circa quindici giorni fa: “Venga , dottoressa, faccia in fretta perché abbiamo un nonno un po’ fuori controllo.”
Fuori controllo, direi, era un eufemismo. Il nonno in questione, ospite di una delle tante case di riposo della vallata, era addossato spalle al muro e biascicava frasi scommesse con uno sguardo che non prometteva niente di buono. Soprattutto perché impugnava un paio di forbicioni lunghi una ventina di centimetri.
Va bene, voce calma, mantenere la distanza, non perderlo di vista. Per prima cosa bisogna avvisare i familiari (“Mah, dottoressa, che vuole, coi figli non va d’accordo, non si fanno vedere praticamente mai”).
OK, allora chiamate i vigili urbani e il 118, che cerchiamo di fare un ASO (per fare il TSO mi servirebbe un secondo medico in controfirma, e dove lo vado a trovare di domenica?). Chiamo il centralino dell’Ospedale provinciale, e chiedo di cercarmi lo psichiatra in turno in “Diagnosi & cura” per avvisarlo del bel personaggino che sto per inviargli. Mi risponde una collega che, alle mie spiegazioni, fatte sempre controllando con la coda dell’occhio che il potenziale accoltellatore non si sposti dal suo angolo, risponde, con tono scettico: “Mah, non potete dargli qualcosa per calmarlo un poco? Se non c’è urgenza, io giovedì sono in ambulatorio in consultorio lì da voi e così lo vedo e gli aggiusto la terapia….”
Come no, mi viene da dirle, gli procuriamo anche un cartamodello e una bella pezza di tessuto frescolana, così di qui a giovedì con i suoi forbicioni ti prepara un bel tailleurino pronto da indossare.
No guarda cara, sono arrivati il 118 ed i vigili, se ce la facciamo lo carichiamo e te lo spediamo. Adesso chiudo, ciao.
Ci vuole un po’ molta pazienza, poi il vigile del paese, che lo conosce, lo convince a posare le forbici. Con molta cautela, riusciamo a fargli un Serenase, e a convincerlo a salire sull’ambulanza. Quando è tutto finito sono stremata, e non so cosa darei per allungare le gambe sul mio divano sorseggiando un bel the. Invece mi aspettano ancora quindici ore di turno.
Tutto questo mi è tornato in mente perché quel povero mucchietto di ossa rotte sotto il lenzuolo è il mio vecchietto coi forbicioni. Quando lo ho inviato all’ ospedale, lo hanno visitato, lo hanno tenuto in osservazione per qualche ora, “visto che il paziente si mostrava tranquillo e collaborante”, lo hanno rispedito alla struttura di invio con una terapia neurolettica più forte che, con tutta probabilità, si è guardato bene dall’assumere. E per fortuna prima di buttarsi giù dal cavalcavia non ha avuto l’idea di impugnare di nuovo le forbici e di portarsi dietro compagnia nel suo ultimo viaggio.
Ecco, in quest’anno in cui cade il trentennale della morte di Basaglia si è fatta tanta retorica. Ci si dimentica purtroppo spesso che la pazzia e la demenza sono spesso una prigione peggiore di un ospedale psichiatrico, che finisce per rinchiudere non solo i malati ma anche chi deve vivere a loro vicino, e che le strutture che devono seguire questi malati sono terribilmente sottodimensionate e insufficienti.
Mah, cerchiamo di non pensarci. Finalmente sono sul mio divano; e questo bel the dolce e ben zuccherato penso proprio di essermelo meritato.

Morris