Poi l’ho dimenticato

Scritta da Nicola su ottobre 15, 2014
emozioni
Foto di NC

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Una volta mi hanno rubato la bicicletta.

Eh, magari! In realtà quattro volte me l’hanno rubata. Quattro biciclette diverse, non sempre la stessa. Ognuna ha avuto la sua breve storia di felici pedalate conclusa con il banale rituale di una catena spezzata. Nulla di cui valga la pena parlare, davvero. Dirò solo che la prima volta è stata incredulità, la seconda rabbia, la terza rassegnazione e la quarta l’ho dimenticata. Ed è proprio di questo che vorrei raccontare: di quando, per la quarta volta, mi hanno rubato la bicicletta e io l’ho dimenticato.

Da casa mia, ho la fortuna di poter raggiungere l’ospedale in cui lavoro in circa tredici minuti di pedalata decisa.

Dico “fortuna” perché tredici minuti in bici sono proprio pochi, me ne rendo conto. Eppure a volte sembran tanti: sembrano tanti dopo le notti, quando anche il teletrasporto sarebbe una soluzione lenta rispetto all’intensità con cui si desidera essere già a letto, già docciati, già addormentati; sembrano tanti le mattine d’inverno, quando si vorrebbe essere ancora a letto, ancora addormentati, uterinamente avvolti dal piumone caldo. Sembrano tanti questa sera, che ho finito il turno del pomeriggio e domani dovrò alzarmi presto per quello del mattino. Pomeriggio, poi. Ma quale pomeriggio!? Tra una cosa e l’altra si esce dall’ospedale quasi alle undici, altro che pomeriggio: è notte fonda! Già notte fonda quando esco e ancora notte fonda quando mi alzerò. Tanto valeva tenersi la divisa addosso. Tanto valeva restare in ospedale. E ora che faccio? Cosa la metto dentro a fare la bici, se tra poche ore sarò di nuovo per strada a pedalare? No, questa notte la lego fuori, davanti a casa, che non ho tempo da perdere a litigare con la serranda del garage. Qui non me l’han mai rubata, non succederà proprio questa notte. Sarebbe la quarta in sei mesi, è statisticamente impossibile. Non succederà.

Il mattino seguente, sono in strada a correre, letteralmente correre, verso la fermata dell’autobus. E’ successo. Me l’hanno rubata.

Non ci credo, mi hanno rubato la bicicletta, di nuovo. Proprio questa notte, proprio a me, proprio la mia bicicletta… rubata. Una tragedia! Ah, ma oggi mi sentono! Chi? Tutti! Tutti mi devono sentire! Se non posso colpevolizzare nessuno, allora tutti dovranno pagare: oggi mi lamenterò tutto il giorno, incessantemente, svergognatamente, oggi mi lamenterò come non ho mai osato fare in vita mia, perché mi hanno rubato la quarta, dico la quarta bicicletta in sei mesi e lamentarmi è un mio sacrosanto diritto!

Quando arrivo in reparto, i colleghi si sono già assegnati i pazienti. “Scusate il ritardo, è che mi han rubato la bici, la quarta…” ecco, iniziamo a lamentarci, che capiscano quale sarà l’andazzo della giornata “…la quarta in sei mesi! Comunque, chi è rimasto da seguire?” Letti sette e otto.

Prendo consegna.

Al letto otto c’è un paziente nuovo, un ricovero della notte; ieri sera, mentre io tornavo a casa in bici, lui rientrava a casa in macchina.

Al letto otto c’è un giovane uomo, sembra un bambino per noi, abituati come siamo ad assistere persone tanto più grandi di lui; ieri sera, mentre rientrava in casa in macchina da solo, ha perso irrimediabilmente il controllo della vettura.
Al letto otto c’è un ragazzo di diciotto anni. E sta andando in morte cerebrale.

I pazienti in rianimazione non vanno proprio da nessuna parte, tendenzialmente se ne stanno a letto. Eppure si dice in continuazione: sta andando in morte cerebrale. Lui è arrivato a 3 di potassio, l’altro è andato in fibrillazione atriale, poi è rientrato… se lo avessi sentito dire da bambina, molto più bambina del paziente del letto otto, mi sarei immaginata un gran via vai di gente. Avrei pensato ad uno stanzone pieno di persone, alcune in divisa, altre no; ogni tanto uno inizia a camminare “Scusi, dove sta andando?” “Io? Sto andando in acidosi” “Non credo proprio, venga da quest’altra parte con me…” gli direbbe quello in divisa.

La reazione di quelli in divisa è sempre diversa: se uno va in ipernatriemia, ad esempio, gli si batte una mano su una spalla, gli si fa no col dito e lo si riporta sulla strada giusta accompagnandolo lentamente. Ma se uno si mette inaspettatamente a correre e qualcuno vedendolo lo addita urlando “Sta andando in arresto!!”, allora gli si salta addosso in tanti e lo si placca con determinazione come giocatori di rugby. Altre volte ancora, qualcuno si alza e va, e nessuno cerca di fermarlo, lo si osserva in silenzio mentre si allontana “Lui sta andando in morte cerebrale” e chi va in morte cerebrale non si può far altro che lasciarlo andare. Anche se ha diciotto anni.

Accanto al paziente del letto otto c’è una donna, sta seduta su una sedia blu, poi si alza, poi si siede. Vederla piangere, per quanto straziante, è un sollievo. Quando smette, diventa quasi palpabile un dolore tanto forte da spegnerle il pianto.

Mi ritrovo a chiedermi se sarebbe più comodo per me se lei non fosse qui. Se non ci fosse questa madre a trasformare il paziente del letto otto, un perfetto sconosciuto, in un figlio amato.

Se fossimo solo io e lui, se guardandolo mi rendessi conto che tutto sommato ieri sera avevamo la stessa probabilità di vivere o morire, non sarei spaventata dal riflesso della mia vulnerabilità.

Ma questa madre testimonia il fatto che per ogni persona che amo e che amerò corro il rischio di ritrovarmi seduta su una sedia blu, senza più lacrime da piangere. Come proteggersi da questa vulnerabilità? E come supportare questa donna, come starle accanto senza essere inadeguati?

Non sarà certo sufficiente rannicchiarsi ipocritamente dietro lo scudo del fare. Eppure ci sono i parametri da registrare, sistolica, diastolica, media, frequenza, diuresi, saturazione… ci sono terapie da somministrare, stappa, aspira, diluisci, inietta, deflussa… ci sono fogli da compilare, telefoni a cui rispondere, ci sono di nuovo parametri da registrare… e c’è lei, sempre lei che piange e quando non piange è forse peggio. Il suo dolore rende insignificante ogni più piccolo gesto, ogni pensiero, ogni cosa che non sia dolore stesso.

Il turno finisce. Do consegna al mio cambio. Esco dal reparto, mi cambio con estrema lentezza e me ne vado guardando la vita che scorre al di là del vetro dell’autobus.

Solo quando arrivo sotto casa mi ricordo della bicicletta. Me l’hanno rubata. Che stupida: poche ore fa era per me un avvenimento tanto tragico da credere che valesse la pena lamentarmene. Poi l’ho dimenticato.

Nicola

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4 commenti

  • morris scrive:

    Veramente bello, animato da un umorismo e da una fantasia vivace che temperano la malinconia. Come dice il mio Doctor preferito: ” It’s the sad smile. It’s a smile, but you’re sad. It’s confusing. It’s like two emotions at once. It’s like you’re malfunctioning.” Ma,in questo caso,funziona tutto alla perfezione. Congratulazioni.

  • Labile scrive:

    la malattia Ti cambia e la malattia altrui Ci cambia.La “leggerezza” e “l’umorismo benefico perfettamente illustrati nel racconto ci accompagnano ogni giorno.
    altro che “pedalare”.
    Grazie.

  • rens scrive:

    Perché non ti porti appresso una ruota?

  • Nicola scrive:

    A malapena mi porto appresso la borsetta…

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