anestesia

Ginocchieide (1a parte)

Posted by rens on aprile 01, 2013
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foto di RR

Genesi.

Tutto è cominciato il 31 dicembre. Dodici ore in più e il 2012 sarebbe finito senza guai, e io non sarei qui a scrivere dei miei bubù.

Anche se forse tutto è iniziato ad agosto, al Lubè, mentre portavo a casa una roverella per i bari dell’orto.

Pesava come ferro quella pianta, e salendo verso il sentiero, subito a monte del ciabot, sono scivolato; non potevo cadere con quel carico sulla spalla, lì dove è pieno di pietre e lose spigolose. Così avevo fatto forza sulle gambe ed ero riuscito a stare in piedi. Ma al ginocchio destro avevo provato una sensazione sgradevolissima; non dolore puro, ma come di qualcosa che grippa, che si incricca. E nei giorni successivi il ginocchio aveva cominciato a darmi fastidio e non potevo più chinarmi col peso del corpo sui talloni, ché faceva troppo male. Un problema fotografare i fiori. Dovevo avvicinarmi a terra allungando le gambe, niente ginocchia piegate. Più d’una volta, dimentico del problema, ho ribaltato come un fesso. Poi, piano piano la situazione era migliorata, tanto da indurmi a pensare: prima o poi passa e mi lascia in pace. Perché la mia filosofia è: come viene, prima o poi il bubù se ne va.

E così ero arrivato al 31 dicembre, Vallone di Massello, prati tra la Cascata del Pis e le Miande Lauzun; a correre dietro agli stambecchi che, in quella stagione, lì si riuniscono per fare l’amore; quasi in gruppo… lo sapessero i vescovi…

Salendo, piccola scivolata, proprio piccola, da nemmeno registrare, sul prato, ma con ginocchio destro tutto chiuso. Di colpo. Che male. Una legnata. Quando ho cercato di muovere, dopo un attimo, una spilla di fuoco tremenda mi ha schiacciato a terra. Di qui non vado più via, ho pensato. Qualche istante e ho riprovato, e la fitta era un po’ più leggera. Ancora un attimo e sono riuscito ad alzarmi. Che male, ma ero in piedi, forse potevo rientrare con le mie forze.

Prima però sono ancora riuscito ad andare dietro agli stambecchi, e li ho anche agguantati… con l’obbiettivo, intendo.

Nei giorni successivi sono ricorso alle arti di Fiurelin, l’amica carissima fisioterapista, a qualche cerotto anti infiammatorio e mi sono rimesso. Quasi. Perché sapere d’avere un ginocchio che può mollarti da un momento all’altro non è bello. E se mi molla al Col dell’Arcano? Pensavo, ai Laghi dell’Albergian? Anche solo a Roca Cadrega? Alla Cascata di Mil?

Così sono andato a fare la risonanza, e lì non hanno detto niente di particolare, niente di molto diverso da quanto emerso già in agosto dove, con un’altra risonanza a seguito dell’incidente del Lubè, era emerso che si, il ginocchio non era splendido, ma nemmeno da buttare; un ginocchio di sessant’anni, tutto lì. Ma questa volta, dopo la risonanza, Mil mi ha guidato da un luminare, il quale, dopo attenta meditazione e dopo avermi fatto un male cane, ha decretato: menisco rotto. Ed eccomi qui, claudicante, a raccontare per trascorrere il tempo, e pure un po’ per ridere, delle mie sventure di inseguitore azzoppato di stambecchi e di trasportatore mediocre di travi di roverella.

Il decreto.

Era giovedì 24 gennaio quando il dott. Tal dei Tali decretò che il menisco era rotto.

Intervento in quell’ospedale là, ragionevolmente verso la metà di febbraio. Telefonare per mettermi d’accordo. Tipo freddo, il luminare, di quelli formalmente corretti che ti fan sentire una merda, perché dall’alto del loro io non scendono al tuo basso. Da quell’altezza, però, dovessero mai cadere o trovare la loro roverella, sai che tonfo.

Telefono due giorni dopo e mi confermano ipotesi metà febbraio, da definire.

Si trae il dado.

Lunedì 11 febbraio, sono al lavoro.

È l’una, ho appena finito di mangiare quando squilla il telefono. Sono solo e sono in pausa, non ne sono tenuto e non rispondo: chi me lo fa fare, in quel luogo di puttane e ruffiani. Ma il telefono continua e alla fine, non so perché, alzo la cornetta. È la segretaria della clinica, quella che ho sentito una settimana prima. -Si è liberato un posto per il 14 febbraio, dice, se le va bene… –

-Ceeeeeeerto che mi va bene-, così la facciamo finita, penso. Ma poi… 14 febbraio, giovedì… tra tre giorni… quasi cado dalla sedia. -Mi lascia mezz’ora per decidere?-, le chiedo? -Va bene-, risponde.

Telefono a Mil, dice OK, richiamo la clinica ed è fatta.

Sono basito: non mi sembra vero: tre giorni e mi segano. Bene, così non ho tempo di pensare e penare, si fa tutto mentre fa freddo e fuori non si può concludere un gran che, nemmeno andare per roverelle al Lubè!

Tempo di darmi da fare.

Il gran giorno.

Giovedì 14 febbraio. Giorno del mio secondo menisco. Il primo fu dieci anni fa, se ricordo bene.

Alle 7.30 siamo in clinica. C’è già la coda per farsi ricoverare. Una signora gentile mi dice che per gli esami devo salire, che i documenti di ricovero li fanno anche dopo.

Salgo, Mil continua la coda.

Sopra, al terzo tentativo trovo lo sportello giusto, sanno addirittura chi sono – mi sento importante -, mi danno un foglio con su il mio nome e la mia data di nascita: sono il numero otto!

Mi fanno accomodare in una grande sala dove siamo in pochi. Ma in un baleno è colma. Le 8.00 e nulla si muove. Mi raggiunge Mil; che aspettano? Un attimo e d’incanto si va, ne chiamano otto, entro di culo nel gruppo d’elite. Vado davanti a una stanza ad aspettare in piedi. Dentro nemmeno un lettino, dissanguano da seduti. Brutta faccenda, per me. Per fortuna arriva un’altra infermiera uscita da un’altra stanza; cerca l’otto, per l’elettrocardiogramma, così guadagniamo tempo, dice…

Mai fatto l’elettrocardiogramma. Osservo curioso che mi agghinda, dopo avermi spruzzato d’acqua petto, caviglie e polsi. Poi mi collega, mi sistema modello defunto ben disteso ma con braccia ai fianchi, e via. Un attimo e mi toglie gli aggeggi e sono fuori, di nuovo davanti alla porta dei vampiri. E torno in crisi. Passeggio, mi allontano, cerco di pensare ad altro. Mi chiamano. Entro e dico subito alle due infermiere che ho dei problemi, che potrei svenire. Solite mezze risatine, il diavolo le porti, ma sono gentili. Mi fanno mettere sulla poltrona e mi ribaltano a testa in giù. Quella che mi buca è incredibile. Mano leggerissima. Un attimo e sono fuori anche di lì. Ma prima le dico che ho chiesto l’anestesia totale… Dice che l’ha scritto sui fogli grande come una casa. Ma bisogna parlare con l’anestesista. Va bene.

Si va al terzo piano. Infermiera gentile coi capelli rossi. Ancora un chilo di carta da compilare.

-Anestesia totale-, ripeto. -Bisogna parlare con l’anestesista-, conferma.

Attendo, molto, che mi diano una camera. Alle 9.30 l’ottengo: 333, c’è scritto fuori dalla porta. Dopo un po’, altra infermiera, pure lei gentile, a farmi la barba al ginocchio da segare. Tricotomia si dice, perbacco!

Anche con lei: -anestesia totale-, abbozzo… -Bisogna parlare con l’anestesista-.

Poi se ne va.

Pausa eterna.

Eccone un’altra. Giovane, mulatta direi, quasi carina, ma antipatica. Mi porta il costume per la camera operatoria. Spiega: -alcuni minuti prima di salire veniamo ad avvisarla, così si prepara: nudo come un lombrico, mette slip, cuffia, calzari e tunica-.

Ci provo anche con lei: anestesia totale… -Bisogna parlare con l’anestesista!-

Comincio a essere nervoso. Che mi stiano prendendo per il culo?

Aspettiamo.

Io che mi riscaldo, Mil anche, nel timore che mi saltino i nervi.

Eterno.

Tempo per scoprire che ho un calzino bucato. Maledizione, non le metto mai quelle calze, le ho scelte per esser un po’ più figo… e sono bucate. Porco mondo. Mica ho pensato a controllare se avevano dei buchi, questa mattina all’alba… Le tolgo, così non si vede il buco. Nella stanza fa caldissimo, ma ho i piedi di ghiaccio. Tensione, fifa, nervoso. Li tengo in mano per scaldarli. L’orologio sembra fermo. Qualcuno ha incollato i numeri.

Non viene nessuno.

Le 10.00; 10.30. E se mandassi tutti a cagare e me ne andassi? Questo pensiero garibaldino in camicia rossa mi insegue e mi martella sempre più deciso in testa. Quasi quasi, mentre ho ancora le mie gambe da corsa… Perché si può morire anche senza l’aiuto dei medici, diceva un mio amico tanto tempo fa.

11.00; niente. 11.45 o giù di lì: rientra la tipa antipatica.

-Si prepari che andiamo-, annuncia.

Mi spoglio e Mil mi aiuta nel passarmi il costume da camera operatoria. Anche lei è tesa. Cerchiamo di ridere e scherzare. Che forza la mia Mil.

I mini slip sono molto sexi. Da gigolo. Da una parte un triangolo più grande, dall’altra un rettangolino piccolo piccolo. Due spaghi per la vita. Quale sarà il davanti? Quello più piccolo, dice Mil decisa. Infilo così. Quel rettangolino tiene su, si e no, il pene che, pur ridottissimo per la tensione, non ci sta; esce una volta a destra e una volta a sinistra. Forse va al contrario. Si, così va meglio.

Rientra la tipa: mi fa salire su una sedia a rotelle. Mi dice di tirare su i piedi. Dove? Tiro su i piedi… Il predellino è aperto! Se ne accorge, traffica un po’ e ce la fa.

Andiamo.

Non una parola: come fossi un sasso.

Vaffanculo, ragazza!

rens

Fine della prima parte (continua)

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Boston, 1846

Posted by il guardiano on dicembre 22, 2008
racconti / 1 Commento

Quello che vedrete oggi non è solo una grande scoperta scientifica. Quello che vedrete oggi è molto di più. E’ magia. Una magia che farà il giro del mondo.
Parlare di anestesia non è sufficiente. Non rende merito a ciò che è realmente. Vedete, non è solo di far dormire la gente che si tratta. Io non farò solo dormire questo paziente. Io lo proietterò in un mondo parallelo. Quando il vapore ipnotico entrerà dentro al corpo e raggiungerà il cervello, l’anima si scollerà dal corpo. Non completamente, certo. Compirà movimenti infinitesimali, scivolando sul corpo per restare sospesa quel tanto che basta da non lasciare traccia nella memoria. Tutto ciò che succederà in quei momenti non verrà impresso nelle pagine della materia cerebrale. Il sonno indotto dal vapore creerà una piccola sfasatura nella mente. Io ho trovato la chiave per entrare in un nuovo mondo.

E vi dico ancora che questo non è che l’inizio. Un giorno si scopriranno cose inimmaginabili. Macchine si sostituiranno ai muscoli respiratori, tubi si inseriranno direttamente nella grande circolazione sanguigna, nuove sostanze attiveranno, disattiveranno, potenzieranno, smorzeranno, abbasseranno, alzeranno, indurranno, stimoleranno, deprimeranno le funzioni del corpo… Ma l’effetto, il fine ultimo della nostra missione non cambierà. Perché quando l’uomo, il medico, si avvicinerà al paziente e preparerà il suo incantesimo, ancora e sempre l’anima scivolerà via, lentamente, come una pelle invisibile, e con piccoli movimenti di tensione e rilassamento si libererà dal corpo pezzo per pezzo, rimanendo lì, sospesa nel tempo, in attesa di essere richiamata indietro… Professor Warren, può procedere, il paziente dorme.

il guardiano

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l’anestesista

Posted by Herbert Asch on dicembre 03, 2008
grandi autori / Nessun commento

“L’anestesista, Nakash, aveva voglia di chiacchierare con me. Era sui sessantacinque, asciutto e ossuto, e la tonsura bianca intorno alla testa pelata contrastava simpaticamente con la tinta scura della carnagione. (…) In India avevo visto non poche persone che me l’avevano ricordato e che mi avevano ispirato istintiva simpatia. Hishin (il capo chirurgo) lo stimava e amava lavorare con lui, anche se non era l’anestesista di maggiore spicco. «Nakash non sempre capisce cosa succede durante l’operazione – diceva alle sue spalle – ma è sempre vigile, anche in quelle che durano dieci ore. E questa è la cosa più importante. Perchè il paziente si abbandona non nelle mani del chirurgo, bensì in quelle dell’anestesista». (…)
Nakash mi chiese se ero interessato a un po’ di lavoro privato, cioè a fare da assistente nelle operazioni cui partecipava in una clinica. (…)
«Ma non ho nessuna esperienza in anestesia», osservai stupito.
Al che Nakash spiegò che la specializzazione in anestesia era alla portata di chiunque, la parte tecnica era facile e la si assimilava rapidamente, mentre la cosa più importante era non abbandonare l’anestetizzato, pensare anche alla sua anima, oltre che al suo respiro. Mentre il chirurgo e la sua squadra durante l’operazione sono concentrati esclusivamente su un angolino del corpo, l’anestesista è l’unico che pensa sempre al paziente nella sua integrità, e non come insieme dei vari elementi. L’anestesista è dunque il vero medico interno, mentre il chirurgo fruga avidamente nelle viscere.
«Credimi, in vita mia ne ho visti tanti di chirurghi. Chi li conosce meglio di me? Ma ti ho visto un po’ all’opera e non fa per te. Il tuo bisturi è titubante, perchè pensa troppo. Non perchè ti manchi l’esperienza, ma perchè sei troppo responsabile. E in chirurgia non ci si può permettere di essere troppo responsabili, perché così non si va avanti, non si fa nulla. Bisogna prendere il coltello in mano: per ridurre a pezzi un essere umano e fargli ancora credere che sia un toccasana. Bisogna davvero essere un po’ ciarlatani e un po’ giocatori d’azzardo».”
da “Ritorno dall’India” di Abraham B. Yehoshua.

Herbert Asch

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