dolore

Il caffè del morto

Posted by Salvatore Nocera on ottobre 25, 2016
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Foto di NC

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“Viviamo in una società in cui la morte è un tabù. La si vede al cinema, alla televisione, sui giornali, ma è sempre qualcosa di astratto e lontano che riguarda gli altri. Non se ne parla, non ci si pensa, e quando tocca l’individuo da vicino c’è un lavoro molto profondo da fare per permettergli di affrontarla con maggior serenità.”                                       Marcella Danon

Lavoravo nella guardia medica notturna e festiva.

Saranno state le due di notte.

-È incredibile come a ripensare a quella notte mi sovvenga un sorriso spontaneo che non so trattenere, ma che mi riempie di qualcosa che ancora oggi non saprei spiegare: il mio essere straordinariamente medico malgrado me stesso.-

Dicevo: una notte forse autunnale, non ricordo particolari frescure. Passavo, e tuttora passo le mie notti in guardia medica, a leggere e soprattutto a scrivere – ciò che mi capita – ho questa strana impellenza.

E dunque leggevo, e di sicuro scrivevo e sento suonare il campanello. Naturalmente mi alzo (sempre all’erta!) e anzi scrivere probabilmente mi scarica dall’ansia di dover affrontare comunque, da solo, una notte in cui dal punto di vista medico potrebbe succedermi di tutto.

– e se non fossi all’altezza?, e se mi capita un infarto?, un edema polmonare acuto?, un soffocamento?, una crisi allergica?, uno shock di qualunque tipo? chissà se c’è l’adrenalina – saprò fare la diluizione? E il Kombetin? Il Bentelan da 4 mg o magari il Flebocortid da 500?- …

Mi alzo, all’apparenza flemmatico, e vado ad aprire. Strano spettacolo. Una folla assiepata dietro la porta. Una signora di mezza età:

“Dottore, possiamo entrare?”

Dio mio, che è successo? penso. È esattamente uno di quei momenti in cui si realizza la necessità di affidarmi a qualcuno. Dio, appunto. Oppure al mio angelo custode. Che prego mentre faccio entrare la folla nella speranza che non sia successo nulla d’irreparabile e che io sia in grado di …

“Allora, dottore, posso parlare?”

Per sicurezza mi siedo dietro la scrivania, come al solito quando mi difendo. E la sicurezza cui mi riferisco in realtà è un’auto-rassicurazione. Mi rinchiudo appunto nel mio ruolo, vorrei impedirmi di entrare in contatto – come al solito – con tutte queste persone che mi stanno davanti. Ma cosa vogliono? – il bello è che tutti questi miei pensieri avvengono in un attimo, tra le pause della voce della signora. Mi preoccupo esageratamente come quando sto per entrare su un palcoscenico qualunque durante una qualunque delle mie peregrinazioni artistiche teatrali: letteralmente me la faccio addosso, vorrei scappare, ma poi, all’ultimo momento … eccomi sul palcoscenico, e tutto diventa semplicissimo:

“Forse siamo in tanti, dottore, ma non si deve preoccupare: questi sono i miei figli e le mie figlie, con mogli e mariti …” “E anche nipoti”, dico io. “Dottore, non se l’abbia a male, lo so che è inutile, ma …” La signora comincia a piangere, subito circondata e consolata dalle altre donne, figlie e nuore, evidentemente.

Una di loro comincia a parlare: “Vede, dottore, mio padre sta male, sta veramente male. Oggi è venuto il nostro medico di famiglia e gli ha fatto un’iniezione che lo ha fatto stare bene. Ora però sta soffrendo e non sappiamo cosa fare. Lo sappiamo che è inutile, ma sa?…” Sembrava avesse ritegno: o forse non aveva il coraggio di chiedermi qualcosa che a me, sicuramente, sarebbe sembrato inutile.

“Mio marito ha il cancro e sta morendo, non sappiamo nemmeno se arriva a domani, per questo le diciamo che è inutile, ma che vuole?, quando si vede un proprio caro soffrire noi vorremmo soffrire al posto suo – e soffriamo anche noi – anch’io, a vederlo soffrire così. La prego, ce la può venire a fare un’iniezione che così sta un poco meglio?”

E va bene, allora partiamo. Non sto lì a discernere se si tratti di un caso di umanità o di un intervento medico vero e proprio. E tuttavia anche il trattamento del dolore in un malato terminale è da considerarsi un intervento medico a tutti gli effetti, oltre che un diritto del malato e dei familiari: le famose cure palliative, il mantello protettivo, il pallio rassicurante.

Io prendo la mia macchina e vado dietro a una processione di altre macchine. Ma sono tutti qui, rifletto, non è che il malato è rimasto solo? Boh. Ha tutta l’aria della prova di un funerale, una sfilza di macchine, io con la mia nel mezzo, l’onore di una scorta ufficiale. Un paio di chilometri. Arriviamo in una strada larga, un agglomerato di case che fa pensare a un grande condominio popolare. Da molte finestre, malgrado l’ora mattutina, traspare la luce tremula di un qualche abat-jour rimasto acceso nell’attesa di un arrivo. Ricorda molto la parabola delle vergini del Vangelo, in attesa dello Sposo che prima o poi verrà a bussare … la storia dell’olio e delle lampade.

Mi indicano di posteggiare la macchina in un luogo facilmente accessibile. Loro posteggiano, abituali. Scendono tutti, mi aspettano. Spengo il motore. Afferro la mia borsa. Scendo. Chiudo. Sto fermo un po’ a guardare quella piccola folla surreale. Mi avvio. In gruppetti di due o tre, si dirigono verso un portone socchiuso, rimasto all’apparenza incustodito, in realtà tenuto continuamente sotto controllo da sguardi molto benevoli che avverto discreti dalle finestre contigue. Saliamo su per una ripida scala in fila indiana. Inevitabilmente il pensiero mi va alla difficoltà di far scendere da lì un’eventuale bara …

“Se muore dovremo scenderlo con le lenzuola”, dice molto lucidamene una delle giovani donne, probabilmente nuora, quasi a leggermi nel pensiero. Emano solo un sospiro e continuo a salire. Arriviamo davanti a uno stretto pianerottolo, su cui una maniglia traballante apre un’esile porta: entrano tutti, tranne la madre, che mi invita ad entrare dopo di lei. Una piccola stanza, un ingressino, un soggiorno lì a lato, un’altra porta, ennesimo rituale: entrano tutti, tranne la madre, che entra subito dopo di me. Entro anch’io. Una luce fioca, illumina appena un letto matrimoniale, disfatto, su cui è seduto, con i piedi incrociati sotto le gambe, un uomo, indefinibile nell’età, non sembra molto anziano, gonfio di cortisonici, uno sguardo cupo, gli occhi scavati, una sofferenza che è negli occhi di tutti, mi si apre una specie di comitato d’onore dentro cui faccio il primo passo. Mi fermo fissando l’uomo che probabilmente non s’aspetta affatto da me l’intervento anti-dolorifico tanto desiderato dalla famiglia, avverto semmai il suo estremo desiderio di farla finita al più presto possibile. Questo mi blocca. Il solito silenzio che mi avvolge quando ho su di me l’attenzione del pubblico da attore consumato. Lo guardo con tutta l’umanità di cui sono inconsapevolmente capace. Due secondi pesanti. Poi, non posso fare a meno di dire:

“Ma quando moriamo?”

Sembra una boutade di cattivo gusto: magari un tantino macabra. Altri secondi muti, pesanti. Ho l’impressione, alquanto da incosciente, di aver detto quello che nessuno di loro, malato terminale compreso, aveva avuto fino ad ora il coraggio di affermare. Improvvisa una risata senza freni da parte del malato:

“Ah ah ah ah!…!” E mentre lui continua a ridere, la madre – cioè la moglie, nella sorpresa generale, si mette a singhiozzare, sotto lo sgomento di tutti. In effetti un po’ mi preoccupo, pensando di averla detta grossa, per questo cerco lo sguardo della madre – cioè della moglie, sperando di trovarvi una qualche rassicurazione. E lei, altrettanto improvvisa, mi dice:

“Oh dottore, non ci crederà, ma sto piangendo perché sono contenta: era da tanto che non lo vedevo ridere così, con gli scàccani.” E tutti le si stringono attorno, per sostenerla, accompagnandola dolcemente ai piedi del letto. Mi avvicino anch’io. Preparo un’iniezione di un comune anti-dolorifico, che somministro solerte. Non so quanto efficace, ma a questo punto un qualunque mio intervento è comunque vissuto da questa famiglia come benefico. Anche il malato mi ringrazia, sorridente. Saluto, mi avvio, accompagnato dalla madre piangente.

Mi rimane ancora qualche ora di questa notte che non finisce più.

Finalmente le otto del mattino. Smonto. Un cielo insolitamente terso. Quasi scappo via, scaricando sull’accensione della Focus SW la mia soddisfazione: tutto sommato, penso, non è andata poi così male – pregustando il caffè che sorbirò tra qualche minuto, nel mio solito bar, tutte le mattine che finisco il turno di notte: la mattina della smonta il caffè è sempre più buono. Ecco il bar. Posteggio, mi fermo, spengo. Scendo.

“Buongiorno, dottore”.

“Buongiorno”. Entro, lo sguardo distratto a un manifesto funerario appiccicato al muro, gocciolante di colla.

“Un caffè”

“Subito, dottore. Nottata tranquilla stanotte?”

“Più o meno, le solite cose”.

“Pronto il caffè.”

Lo sorbisco piano. Buono. Metto le mani in tasca per prendere le monetine e pagarlo, ma il barista mi previene:

“No, dottore, lasci stare: oggi il caffè glielo offro io”

“E come mai?…”

“Non lo so, guardi: mi viene così, sento di farlo, stia tranquillo”

“Va bene, come vuole, grazie”

Saluto e me ne vado. Uscendo, lo sguardo sul manifesto funerario. Stavolta vi riconosco il nome della persona malata di cancro … Sento subito la sua risata inaspettata. Una specie di brivido su tutta la schiena. Che me l’abbia offerto lui, il caffè?

Bracco

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A che serve?

Posted by Gio on settembre 10, 2015
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Foto di EP

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Avrei bisogno di trovare un motivo a tutto questo dolore.

Avrei bisogno di capire come il destino possa accanirsi cosi tanto su alcuni uomini donne e bambini.

Avrei bisogno di trovare una ragione, per capire, per non rassegnarmi, per continuare a credere che lottare abbia importanza.

Quando il tuo paziente si rialza dopo un percorso estenuante, accenna appena a tornare ad una vita normale, riassapora la dignità di una esistenza fuori dalle mura di una stanza ospedaliera; cosa gli resta se il fato lo colpisce di nuovo e lo riporta indietro nei suoi giorni di sofferenza?

A che giova?

A che serve il coraggio da uomo che ha avuto essendo bambino, la forza che ha trovato nei suoi pochi anni per combattere quotidianamente. A che serve lo sguardo fiero che ha tenuto davanti a me e ai suoi genitori per non tradire la sua paura, per non infliggere ulteriore dolore a chi lo ama (e farebbe a scambio con ogni sua sofferenza). E a che serve l´eroico e incredibile sforzo che i suoi genitori hanno fatto ogni giorno, assistendo impotenti al compiersi delle chemio, delle febbri, delle medicazioni. Quanto è stata vana ogni loro attesa, l´attesa per un neutrofilo in più, baluardo contro le infezioni, per un cenno di eritema, simbolo di un trapianto attecchito. A che serve la mia voce che dice che tutta quella sofferenza è per qualcosa: la mucosite, la GvHD, le infezioni, il vomito, tutto avrà una fine quando il midollo del donatore avrà spazzato via la malattia e tu, piccolo, potrai finalmente goderti la tua infanzia.

A che serve, se il destino è in attesa di giocarti lo scherzo più crudele appena avrai rialzato la testa…

Gio

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Il dolore e la sofferenza

Posted by Herbert Asch on aprile 13, 2014
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foto di EP

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“Il principale compito dei medici è quello di curare il dolore e alleviare la sofferenza. Parliamo spesso di queste due entità come se fossero la stessa cosa. In realtà sono molto diversi:  il dolore è un’afflizione del corpo. La sofferenza è un’afflizione dell’io, uno stato specifico di stress che si verifica quando l’integrità della persona è minacciata o lesa.”

Eric Cassel

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Storie di ordinaria medicina e di straordinaria vita – tre

Posted by Magu on dicembre 29, 2013
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Foto di HA

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Stamattina ore 8.35 circa. In P.S. giunge Loredana 58 anni insegnante di scuola primaria ed attivista di Greenpeace. Caduta al suolo (banale sciuliata sullo zerbino di casa), deformità del braccio destro. Non si lascia neanche sfiorare dal chirurgo per valutare il sospetto di frattura. Un rapido sguardo negli occhi tra me e Giancarlo come per dire…”Giancà amma pruvà?!”. Pieno assenso (con colleghi come lui e gli amici infermieri Procolo, Amelia, Peppe, Mario… è facile).

NRS* 10 monitoraggio pressione e saturazione tutto bene, corro nella stanza a prendere la bombola e via…. subito un po’ di Protossido. Tempo cinque minuti e tante chiacchiere con Loredana sulle attività di Greenpeace, la protezione dei cetacei (guarda con tenerezza Procolo) in Antartide (ah in Russia è stato arrestato un napoletano attivista per la lotta alle trivellazioni del mar Artico e la stampa non dice nulla)

NRS 5, Paracetamolo un grammo EV (costa tanto ma abbiamo solo quello). Ora Loredana si lascia visitare sembra una lussazione completa di gomito.

NRS 2 e tanto “benessere (Loredana dice che ha anche un buon odore anche se dovrebbe essere inodore). In previsione del dolore provocato dalle varie proiezioni delle RX, Fentanyl 100 mcg in fisiologica 100 ml (sguardo alla pressione che regge bene) Midazolam 2 mg EV (poco ma è sufficiente a raggiungere una Ramsay** di 3 che ci basta per la radiologia). Conferma della lussazione. L’ortopedico venuto in consulenza è bravo ma un pò manesco, allora in previsione della procedura altri 2 mg di Midazolam. Riduzione parziale, lastra di controllo e nuova procedura. Nel frattempo spiego tutto, compreso il video che stiamo girando, al marito.

Recupero completo, lastra di controllo, bendaggio in Dynacast e dimissione dopo un’ora circa. Loredana: “che bella sensazione se ne potrebbe avere un pò da utilizzare quando sono in classe con trenta satanassi?” Ci ringraziano affettuosamente Loredana ed il marito e ci fanno i complimenti per la presa in carico. Nel frattempo la caposala Letizia cazzia Procolo per non so bene cosa. Sull’uscio un ultimo sguardo di Loredana; leggo nei suoi pensieri: beh non bisogna sfidare il mar Artico a bordo di un gommone per difendere un cetaceo! Ciao Lory

*NRS: scala di valutazione del dolore

**Ramsay: scala di valutazione della reattività dl paziente

Magu

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Primavera

Posted by Gavino on maggio 16, 2013
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foto di GP

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Essere presenti… empatia, assertività, quante parole così difficili da capire e così facili da poter essere dimenticate dopo tanti anni passati tra sofferenza, dolore, malattia. Ma non è vero… sono sempre presenti, nascoste; puntualmente saltano fuori e si materializzano ogni volta che mi ritrovo a pensare alla tragedia dei familiari dei miei pazienti deceduti. Il colloquio con i parenti per dire che il loro caro è deceduto o che non c’è più nulla da fare.

 

 

Lo so… non vorrei essere lì… è troppo alta l’emozione e cosi anche l’imbarazzo, perchè vedere altre persone straziate dal dolore ti fa abbassare gli occhi a volte… Ma prendi un bel respiro e ti fai forza mentre li accompagni dal loro caro e allora ti assale la paura. La paura di vedere scene di dolore che non vorresti.

“la rappresentazione del dolore e’ personale” mi dico, ma mi sento in imbarazzo nel vederla, viverla nel mio contesto professionale, soprattutto quando a morire è un ragazzo di sedici anni.

Finito il turno esco e mi accendo una sigaretta, faccio un tiro profondo… alzo gli occhi al cielo e mi dico: “che bella stellata stasera… è quasi primavera”.

Mi incammino verso la macchina e non posso fare a meno di pensare a come sarà la vita delle persone alle quali il destino ha portato via i propri cari.

Questo lo sto già vivendo mi dico… perchè io sono unico ma non diverso da tutte le persone che incontro e che incontrerò nel cammino della mia vita.

 

Gavino

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la soglia del dolore

Posted by Morris on maggio 31, 2010
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“Voi uomini avete una soglia di sopportazione del dolore così bassa che se sbattete il gomito contro uno spigolo non sentite la scossa, cadete fulminati. Poi si lamentano se noi facciamo l’epidurale per partorire e loro farebbero l’anestesia anche per farsi la barba. ” da: le più belle frasi di Luciana Littizzetto.

Ho riletto già un paio di volte questa frase che campeggia nel mezzo della mia pagina di Facebook e mentre la guardo ancora sento che mi monta dentro un’ ondata di rabbia.
Mi ha mandato questa riflessione una povera di spirito che per disgrazia ho accettato fra i miei amici: già non la sopportavo al liceo, e risentendola tanti anni dopo ho avuto un’ ulteriore conferma del fatto che le persone non migliorano col tempo come il vino: possono solo peggiorare. Figurarsi, ha messo come foto iniziale del profilo un’ immagine in bikini palesemente di almeno dieci anni fa in posa da strafiga, e continua a postare come perle di saggezza aforismi che scarterebbero anche per i Baci Perugina.
Ma questa qui no, non la reggo proprio. Non è perché anche oggi ho visitato l’ ennesima fibromialgica che, quando le ho appoggiato un dito sotto la scapola, si è contorta ed ha urlato come se l’ avessi trafitta con un kriss malese. Poverette, oramai le capisco, le mie fibromialgiche, e le tratto anche abbastanza bene, con adeguate parole di conforto. Non è colpa loro, è che le disegnano così, come Jessica Rabbit.
No, quello che mi rende insopportabili queste parole è che oggi sono andato in camera mortuaria a dare l’ ultimo saluto a Roberto.

Roberto era un collega con cui ho percorso praticamente tutti questi anni di lavoro, anzi, uno dei pochi che oltre che collega potevo definire anche un amico. Abbiamo iniziato insieme con le prime guardie mediche sul territorio, siamo stati assunti praticamente insieme in questo ospedale, per un po’ abbiamo lavorato insieme nello stesso reparto.
Quindi una riorganizzazione interna lo ha “convinto” a passare ad un rapporto di collaborazione libero-professionale, a cui si è adattato inizialmente con un po’ di frustrazione, poi con un impegno ed una professionalità che lo hanno portato ad essere uno dei più stimati e richiesti specialisti del circondario.
Era uno di quei medici che teneva a darsi un tono e ad avere un’ immagine consona al suo ruolo, sempre in cravatta ton-su-ton con la camicia, d’inverno con il panama leggermente inclinato, e la sua naturale eleganza strideva un po’ con i miei pantaloni stazzonati e le mie magliette da 7 euro al supermercato. Ma si capiva che il suo atteggiamento non era un volersela tirare, ma una forma di rispetto verso i suoi pazienti che “volevano” vederlo così.
Poi, alcuni anni fa, le prime avvisaglie; difficoltà a respirare in certi momenti, alla sera sempre più spesso un po’ di febbricola.
L’iniziale atteggiamento da struzzo di tutti noi che lavoriamo in sanità (cosa vuoi che sia, passerà da solo); quindi i primi accertamenti, con risultati interlocutori. Si sa, curare un collega non è mai semplice, così di fronte ad un esame negativo o dubbio di solito il consiglio è spesso di rivolgersi ad un altro specialista “sicuramente più pertinente al tuo caso”.
Così di controllo in controllo, lo vedevo sempre più stanco e preoccupato. Mi aveva confessato che per tenere sotto controllo la febbre e attenuare la sensazione di spossatezza aveva cominciato ad assumere regolarmente del cortisone. Poi, finalmente, all’ ennesimo controllo la diagnosi : una forma leucemica rara, “una di quelle classiche cose da una su un milione che capitano solo ai medici”, disse l’ ematologo con grande tatto e sensibilità.
Iniziò così il solito calvario; i cicli di chemio, accertamenti sempre più serrati ed invasivi, la nausea, i capelli persi, la faccia gonfia per i farmaci, il colorito sempre più pallido.
Ciò nonostante continuava sempre il suo lavoro, con l’ attenzione e la cura di sempre: la mattina andava a fare la chemioterapia, il pomeriggio veniva da noi a svolgere il suo ambulatorio , non prima di essersi fatto sparare in vena uno Zofran ed un desametazone.
In ultimo portava un busto , perché le vertebre rese sempre più fragili dai cortisonici avevano cominciato a cedere. Vedevo il dolore che gli costava ogni movimento, ed era una sofferenza anche per me. Una volta, capendo quello che stavo pensando, mi disse:” Ho dei figli piccoli, è importante che non pensino che mi sto arrendendo”.
In questi anni mi è capitato di perdere diversi colleghi. Alcuni, dopo essersi ammalati, sono semplicemente spariti, come i vecchi eschimesi, che quando sentono prossima la fine si allontanano dal villaggio e si perdono nel bianco.
Roberto no, quando non ce l’ha più fatta si è ricoverato da noi, anche perché i luminari che l’ avevano assistito e che fino a poco tempo prima gli avevano garantito che era sulla soglia della remissione vedendo la situazione precipitare si erano improvvisamente tirati indietro.
Così siamo stati costretti a seguire il suo declino, e abbiamo potuto ammirare la dignità con cui lo sopportava.
Quando infine lo abbiamo trasferito ad una struttura “sicuramente più pertinente al suo caso”, lo sono andato a salutare mentre gli ambulanzieri lo portavano via.
“Cerca di tornare presto”, gli dissi, e sapevo che non sarebbe tornato.
“Vedrò di non deluderti”, rispose con un debole sorriso, e dal suo sguardo capii che lo sapeva anche lui.
Ecco, stamattina lo sono andato a salutare per l’ ultima volta alla camera mortuaria. Ai familiari non ho potuto dire altro che in casi come questo mi sento inadeguato come medico e come uomo.
Inadeguato. Non mi viene nessuna altra parola.
“Voi uomini avete una soglia di sopportazione del dolore così bassa…”
Sotto alla scritta occhieggia, invitante, il link “commenta”.
Che dite, se la mando affanculo e la cancello dai miei amici di Facebook sono troppo cattivo?

Morris

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