sala operatoria

Didattica, cura e sogni

Posted by Pills on agosto 28, 2014
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foto di NC

foto di NC

 

Non ci sono sogni più strani di quelli fatti nelle notti delle settimane di tirocinio.
Sono popolati di camici spiegazzati, emergenze improbabili e scambi di ruolo tra studente e paziente.
Ci si sveglia sudati, frementi e con i muscoli strizzati dal “girarrosto” notturno.
– Saprò abbastanza? Mi chiederanno tanto? Mi cazzieranno? Qualcuno abbia pietà di me! –
Le domande si affollano mentre un camice inamidato si appoggia sul corpo come una palandrana da apprendista stregone.
-Ecco…Mi faranno portare secchi d’acqua come le scope magiche della Disney? –
Fonendo, fazzoletti per esplosioni allergiche, liquirizia per cali pressori e afrori (in)umani, telefono silenzioso e cartellino segnaletico.
– E se mi perdessi e non trovassi il reparto? Se al primo errore mi cacciassero? Potrò sedermi e andare in bagno? –

La porta e davanti al mio naso mezzo ignorante di studente. Busso ed entro.
Nessuno tranne i miei sconosciuti compagni di tirocinio che non salutano e osservano con occhi prematuramente giudici.
Per fortuna poco dopo di me entra la mia CompagnaAmica. Una ventata di aria fresca.
– E’ troppo presto o troppo tardi?   –
Mentre te lo domandi compaiono figuri in camice.
Presentazioni d’obbligo, controllo della presenza e scartabellamento di cartelle.
– Sei già stata in una chirurgia? –
Sì.
– Oh bene, allora oggi c’è sala. Vai di sotto ed entra e cerca il primario. Magari ti fa anche lavare se ha bisogno di una mano in più –
Orpo!
Corro con la mente ma cammino spedita coi piedi.
Arrivata prendo la divisa, mi spoglio del mio essere individuo riconoscibile ed entro nell’anonimato che tanto mi piace. Solo gli occhiali tradiscono un lato di me.
Mi infagotto con cuffietta e mascherina e divento temporaneamente una delle tante anime che vivono di neon, aria condizionata e zoccoli autoclavabili.
CompagnaAmica è con me e gode anche lei dell’essere diventata fantasma.
Segnaliamo la nostra presenza senza scoprire il volto. Si dovranno fidare delle nostre mani e del nostro sguardo.
Trovata la sala entriamo come si entra in qualità di ospiti in un salotto di una casa sconosciuta.
– Permesso? –
Formichine viaggiano attorno all’Ospite d’Onore (per comodità Doppia O). Toccano, pungono, agganciano a flebo, girano, si intrufolano, palpano, accarezzano, montano aggeggi vagamente inquietanti.
Doppia O si addormenta dopo aver detto : “Fate i bravi”.
I Chirurghi arrivano, si vestono come da rituale. Per la vestizione devi farti allacciare il dietro del camice da qualcun altro, come la mamma che ti tira su la zip del vestito elegante.
La sala trasuda intimità e distacco contemporaneamente.
Un po’ di musica e si incide.
A metà del primo taglio vengo invitata a lavarmi (l’ho già fatto in precedenza).
Tachicardia. – Posso toccare. Posso imparare! –
Chiedo aiuto ad InfermieraSorriso. Mi fa un refresh sul lavaggio. Insultiamo il lavandino poco pratico.
Mani a preghiera e mi vestono.
Porto un 6 e mezzo. Me l’ero dimenticata.
Mi accomodo e vengo investita dal fumo dell’elettrobisturi… e nel giro di un attimo gli operatori conoscono il mio nome e vengo risucchiata nel vortice del campo operatorio.
Siamo sincronizzati e anche se devo solo tenere delle spatole e altri aggeggi ne approfitto per aiutare la strumentista a tenere ordinato il campo.
Scopro consistenze strane d’organi e di vasi. Me le imprimo a fuoco nella testa per quando ri-studierò quegli apparati.
Tengo, taglio, osservo e mi ipnotizzo.

No. Non farò il chirurgo. Non ho la resistenza di fisico ed animo necessaria.
Adoro parlare con le persone. Mi mancherebbe troppo quella parte.
Magari finirò dietro la vela, diventerò quella che sta seduta e fissa il monitor e conta i complessi dell’ECG.
Così assaporerò l’intimità della sala e la sete di curiosità dell’osservatore.
In più con calma e decisione tornerò a parlare con le persone dopo un sonno popolato da chissà quali sogni e demoni.

Chissà poi quali saranno i miei sogni tormentati.
Magari saranno li stessi dei miei pazienti e lì nelle nostre paure ci terremo per mano.
Io che rassicurerò loro sulla procedura e loro che rassicureranno me con il loro essere svegli.
– Che qualcuno abbia cura di noi tutti… –

Pills

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Ginocchieide (2a parte)

Posted by rens on aprile 05, 2013
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foto di RR

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Camera operatoria.

Si fa avanti un’infermiera. Sarà la mitica anestesista? Provo.

-Io vorrei l’anestesia totale, ma mi dicono che devo…- – deve parlare con l’anestesista!-

-Lo so! Rispondo secco. È lei?- – No-.

-Ma lei è teso-, mi dice con un sorriso dietro al simil-burka che le copre il viso -…cosa la turba?-

-Certo che sono teso, è da questa mattina che mi dicono di parlare con l’anestesista… esiste costui? È un terrestre? O è un fantasma?- rispondo un po’ incavolato.-Vede, è che vorrei… ma a che serve contarla a lei se devo parlare all’anestesista…-

-Ma no, mi racconti, mi racconti tutto…-

-È che vorrei l’anestesia totale e tutti mi guardano come fossi un marziano. Mica lo faccio per sfizio, è che è più forte di me, svengo se mi bucate la schiena.-

-Non se ne faccia un problema. Anch’io avrei paura, sa? Anch’io farei la totale, c’è niente di strano. Parli con l’anestesista e vedrà che vi mettete d’accordo.-

Che mi stia pigliando per il culo, mi chiedo… Ma quella mi sorride e mi dice che non vuole vedermi arrabbiato, che posso contare su di lei, che tutto si sistema. È una persona, e mi quieto. Avevo solo bisogno di un po’ di comprensione. Un pochino. Mi parla gentile, mi fa anche una carezza sul capo. Grazie, le dico, grazie.

Intanto si fa avanti un’altra infermiera, giovane, anche lei mascherata; mi buca il braccio e ci infila un chiodo per la flebo. Non una sillaba. Neanche fossi un legno o uno straccio. Ma a queste ragazze non l’ha mai detto nessuno che i malati sono anche persone? Lo sa quella fighetta risicata che fuori di qui me la trito in un baleno? Che non le lascio nemmeno il tempo di dire bah…

Arriva un tipo, un uomo questa volta, sempre mascherato. È così in quei posti, non vedi nessuno in faccia; oltretutto senza occhiali sono proprio orbo; se si ritraessero di un metro potrebbero farmi impunemente gli sberleffi.

-È lei l’anestesista-, chiedo?

-Si, che c’è?-

Infine eccolo qui, dunque, il mio arabo fenicio.

-Senta, io vorrei l’anestesia totale, l’ho già detto a tutto il mondo, e l’avevo detto anche al dottore che mi ha pronosticato il menisco rotto, ma lì c’è scritto che mi fate l’epidurale. E tutti m’hanno detto che devo parlare con lei…-

-E perché la vuole totale?- Mi chiede; ma è gentile, affabile. Forse è un furbone.

-Perché se no le resto in mano… svengo. Prima, sotto, ho già corso grossi rischi per il prelievo di sangue.-

-E come ha fatto?-

-Ho dovuto guardare via e farmi mettere un rattoppo sul braccio. Si figuri dunque se mi buca la schiena.-

-Beh, qui ha ancora meno problemi, allora, perché non può vedersi la schiena.-

Un altro che mi piglia per i fondelli, penso…

-Comunque se vuole io gliela faccio, la narcosi, ma non le conviene sa-, dice con calma. Mi parla anche lui come fossi una persona. –Oltretutto-, continua, -con l’epidurale dopo non ha male.-

-Dice bene lei, ma se le resto in mano?-

-Beh, siamo già qui… c’è tutto il necessario, cosa vuole di più?-

Bel merlo, penso, non c’è che dire. Però potrebbe anche esser vero quel che afferma, non è scritto che debba essere un serpente incantatore. Perché è davvero difficile essere bugiardi così bravi.

Un lampo, da pazzo, come spesso m’è successo: -dai, proviamo-, rispondo. Non so nemmeno io perché. Arriva l’infermiera umana, mi infila una siringa nel tubo predisposto da quell’altra e dice quasi con leggerezza: -questa le fa bene, è bella… è buona, è soltanto un calmante…- M’hanno incastrato come un pivello. Come un novellino; non di primo pelo, ma proprio sprovvisto, di pelo. Non dispongo più d’uno sputo di difesa.

Mi segano.

Mi spostano ancora, me e il letto. Mi fanno girare sul fianco destro e portare le gambe al petto. Braccia lunghe. Sono in due lì dietro. Sento pungere la schiena. Tutto lì? Però, una bazzecola, aveva ragione il tipo. Mi rigirano pancia al cielo. Poi mi alzano un telo davanti alla faccia. Bene, non voglio vedere. Dall’altra parte del telo parlano, muovono, non so cosa traffichino. Ogni tanto la fascia attorno al braccio sinistro si gonfia: controllano se son vivo, penso. Certo che son vivo!

Ma cosa combinano lì davanti? Che diavolo aspettano? Il tempo non passa, non m’accorgo nemmeno che non sento più la gamba.

Mi hanno messo addosso le coperte con la mano destra fuori, perché è quella impalata. La sinistra sotto, a non prendere freddo, allungata sul fianco. Mentre aspetto la mano si muove. Trova una massa molle, in mezzo alle gambe, senz’anima ne corpo, incoerente. Che diavolo è? M’han tirato fuori le trippe! Ma no… Sono i genitali! Realizzo di colpo. Possibile? Tocco meglio… non li riconosco, non hanno consistenza, come non fosse roba mia; eppure il salamotto piccolo piccolo sembra proprio lui, il fratellino…

Quando eravamo bambini e nessuno ci vedeva, toglievamo i vestiti alle bambole per vedere com’erano fatte in mezzo alla gambe; senza sapere cosa cercare, per altro, ma si cercava, la curiosità era prepotente; e non c’era niente. Nè pisello nè altro. Tutto liscio, tutto piallato, nulla. Ecco, io mi sono scoperto così, quando la mano è andata a spasso sotto le coperte.

Mi spostano ancora. Allora hanno finito. Mi fanno passare in una apertura strana per mettermi dalla lettiga a un’altra.

-Si sposti!-, mi incitano.

Macchè spostare, una parola, non risponde niente. Sono di piombo.

-Dai, forza!-, insistono.

Allora provo a rotolare. -No, non rotolando-, mi ammoniscono. E come faccio allora, maledizione? Poi ci arrivo. Punto sulle braccia e sposto la schiena sul lettino a fianco; qualcuno mi sposta le gambe. Si torna al mio letto. Non so chi mi porti, sono proprio cotto. Chissà che diavoleria m’han messo in vena…

La pipì.

Letto, Mil lì vicina che sorride.

La pace dopo la tempesta. Arriva un donnone e mi cambia il recipiente della flebo. Sarà un antidolorifico, penso. Per fortuna non c’è da bucare. Il buco è sempre quello della stronzetta di sopra.

-Appena fa pipì, la lasciamo andare-, dice il donnone.

Quanto ci vorrà?

Un paio d’ore.

Il tempo passa.

Ho modo di controllare tutto me stesso lì sotto, quel che sento e quel che non sento. Gamba destra assente, sinistra presente ma senza dita del piede, e gluteo che sembra un budino, una vescica tiepida, sorda come una ciocca. Ma non c’è dolore, è già qualcosa.

Flebo finita. La sostituiscono con un fiasco. Ci sarà un litro di brodo lì dentro. Per fare pipì. -Beva quattro bicchieri d’acqua-, ordina la tipa. Questo è facile, penso. E invece no. È difficilissimo bere stando orizzontale. Difatti non c’è nessun animale che beva così, in natura. Nemmeno le lucertole: pigliano una boccata e alzano il muso al cielo per mandarla giù.

Passa il tempo. Mil va a farsi un giro, è stanca e stufa ed ha ragione. Che palle aspettare che uno faccia pipì.

Entrano due ragazzette bianco vestite. -Ha urinato?- Esclama forte una. Avrà visto il grigio dei miei capelli e deciso che sono sordo. -No-, rispondo secco. Urinare, penso: dev’essere per darsi un tono… fatto pipì non va eh, troppo umano, ma vaff… anche tu, dai. Altro fiasco da mandare in vena.

Scoccano le due ore.

-Fatto pipì?-

-Macché!-

L’infermiera è un’altra. Ma quante ce ne sono? Sono tutte qui a scrutare le mie disgrazie?

Questa però mi piace. Giovane anche lei ma semplice e umana, sorride, ha un cuore e credo anche un’anima.

Quanto ci vorrà ancora? Mezz’ora e vedrà che arriva. E intanto cambia fiasco un’altra volta. E tre! Più il primo.

Due ore e mezza, niente.

Tre ore.

Quattro, tuoni e fulmini.

-Fatto pipì?- -Nooooooooooo!-

-Vedrà che adesso arriva-, dice sorridente l’infermiera. Venti minuti.

-Provi a sedersi sul letto con le gambe penzoloni-.

Aspetto un po’ poi Mil mi aiuta. Ma come si fa a fare pipì se non ti senti il pisello, accidenti? Eppure, tra fiaschi e bicchieri d’acqua, ne avrò bevuti dieci, non quattro, dovrà pur decidersi. È un’impresa persino infilare il pisello nel pappagallo: poveraccio lui, è mortificato, potesse rientra nell’antico vano assieme ai testicoli. Ma quando tutto sembra perso…

Pipìììììììììììììììììì………… poca, ma c’è.

Robe da matti. Sessant’anni per gioire d’un bicchiere di pipì! Troppo poca, dice l’infermiera, e mette su un altro fiasco. Con questo sono quattro. Ma ormai il ghiaccio è rotto. Sono le 19.00 suonate quando l’impresa ha termine, faccio di nuovo pipì e l’infermiera dice che possiamo andare. Schizzo sul letto.

-Non vuole mangiare qualcosa?-

Ma no… andiamo via subito.

-Mangi qualcosa…-

-Un frutto-, rispondo. C’è?

-Una mela cotta?-

Perfetto. Due mele cotte, una anche per mia moglie.

-Gliele porto, ma non devo farmi vedere-, dice il mio angelo.

Si vede che c’è qualche bastardo che controlla, penso, e magari il rancio non mi spetta. Trovarlo tra qualche tempo, il verme, magari al Lauzun o al Lubè… Mangio in un lampo, Mil non ha fame. Torna l’infermiera, mi insegna a farmi l’iniezione nella pancia da solo, a camminare con le stampelle, due dritte generali; la ringrazio con un sorriso da orecchio a orecchio, l’abbraccerei, le darei un bacio, tanta è la mia riconoscenza. Tutto il contrario di quanto provo per il Dottore che mi ha operato. Lui non m’ha detto nemmeno crepa, su in camera operatoria, nemmeno m’ha degnato d’uno sguardo; gli sarebbe bastato affacciarsi oltre il telo, ma forse pensava di operare un pupazzo. Di fare allenamento. Tanto meno s’è degnato di venirmi a vedere in camera. Sono singolari questi personaggi. Autentici luminari, bravissimi e senz’anima, vuoti come una vescica; sembrano il mio gluteo sinistro quando ancora era sotto effetto dell’anestetico: lo sentivo ballonzolare se lo scuotevo con la mano ma non sapeva di nulla e non diceva nulla. Una vescica. Gli stambecchi per i quali mi sono fatto male sono molto più espressivi, ed uguali quanto a parola, perché entrambi sono muti.

Ma ora è tutto passato. Si parte. Via!

Tutti in fila.

Da quell’ospedale là a casa ci sono una novantina di chilometri. È buio pesto ormai. Mil non ama guidare di notte, conosce poco la Polo che non usa mai, e non conosce il percorso. È tesa ma si và. Faccio il navigatore.

Tutto dritto, asciutto, non c’è nebbia. Mil guida impettita, dura a metà dello spazio tra il volante e il sedile. Se la si bucasse non uscirebbe una stilla di sangue. Cinquanta all’ora, ma si va. Dietro ci sono parecchie auto. Più grandi, più piccole, furgoni e camioncini. Mil ha messo tutti in riga. Chi ha la ventura di fare il nostro percorso, viaggia a cinquanta all’ora. Passano uno alla volta dove possono.

Da quell’ospedale là a casa. Eterno.

Vicino a casa Mil si rià, tocca punte anche di ottanta chilometri l’ora per qualche istante: lì conosce bene la strada; tiene duro, è davvero grande la mia Mil, e alle 21 siamo a casa. Dalle 6.30 del mattino.

È fatta. Siamo eroi.

E tutto per uno stupido menisco… una guarnizione, o poco più. 

rens

 

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Il signor P.

Posted by Nuur on giugno 26, 2012
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foto di DB

foto di DB

Un enorme mostro sibilante, simile a una nuvola nera, stava per ghermirla.
“Sofia, scappa!”, urlai con tutte le mie forze.
Sofia invece si girò, nel suo camice immacolato, brandendo uno stetoscopio dorato come una fionda. La nuvola di oscurità si avvicinava, con un rumore di unghie sulla lavagna. Sofia caricò le gambe e prese a roteare la sua unica arma. Iniziò ad alzarsi polvere da terra.
“Oggi vinco io”, si lasciò sfuggire, tra i denti digrignati.
Quand’ecco, la nuvola accelerò improvvisamente, si alzò turbinando, si aprì e si richiuse su di lei come la bocca di un lupo.
“No!”, urlai, e caddi dal letto.

Ore? 4:35 della mattina. Emicrania? Presente.

Ottimo.

Mi rannicchiai un po’ scossa cercando di riprendere sonno tra le lenzuola. Ovviamente mi riaddormentai tardi e mi svegliai quando avrei dovuto essere già lavata e vestita da un pezzo.
Arrivai catapultata in ospedale, con ancora su le scarpe normali, quattro chili di cose inutili nelle tasche del camice e una faccia da culo inenarrabile. Sofia stava già attraversando i corridoi, con il passo nervoso e balzellante di un capriolo. Faceva le scale a due a due. Rampe e rampe. Ogni giorno.
Inutile dire che noi tirocinanti arrancavamo dopo cinque minuti, supplicandola di rallentare, con ogni improbabile scusa: “Vado a prenderti le cartelle”, “Guardo se il 15 si è svegliato”, “Aspetta, mi metto l’amuchina che mi ero dimenticata”.
Lei era già trenta metri più in là, a spiegare gli esami e i farmaci alla caposala. Aveva fatto la notte di guardia, e non aveva chiuso occhio. Dolori, coliche, dializzati. Un signore aveva pure pensato bene di iniziare a sanguinare dal colon come se fosse stato il Gange, così diceva. Fuggì in sala cucina, ingoiò un cioccolatino (l’unico cibo che l’avessi mai vista ingerire) e si annegò nel caffè. Mi batté un dito sulla spalla e senza dire niente si lanciò giù nel reparto chirurgico.

“Dai, dottoressa. Esame obiettivo ”, fece a me.

Il signor P. era un pinco pallino. Il prototipo del pinco pallino. Un ometto piccoletto, spelacchiato, con un po’ di baffi, delle grandi orecchie e degli occhi terrorizzati. Non esattamente il paziente ideale. Bombardava Sofia di domande. Era riuscito a recuperare tutti i suoi dati clinici da quando aveva 15 anni a ora. Quarant’anni di fascicoli troneggiavano come una torre sul suo comodino. Sofia deglutì sonoramente, poi andò a cercare il chirurgo, con me al seguito.

Nessuno riusciva a capire quando sarebbe stato operato.
Il signor P. inizialmente era stato un paziente oncologico, ma nel corso delle analisi dell’anestesista pre-intervento, gli avevano trovato un vizio vascolare troppo serio per essere messo sotto i ferri. La presa di posizione era categorica: niente rimozione di tumore, se prima quel difetto non fosse stata sistemato. Venne allora sparato in chirurgia, sennonché gli venne trovato pure un altro problema ancora e lo appiopparono agli interni di medicina.
Il signor P. era parcheggiato nel limbo da quasi due settimane. La situazione non si sbloccava. Non saliva nelle liste chirurgiche perché c’era quell’organo che non andava, non veniva operato al tumore perché quel vizio vascolare non era apposto.
E quel povero pinco pallino, da quando era stato affidato ad Sofia, cioè circa tre giorni, si aggrappava al bordo del suo camice, le stringeva le mani, dicendo sempre le stesse parole: “Dottoressa, il mio cancro…”, e sgranava gli occhi neri pieni zeppi di paura.

Effettivamente il suo tumore non era una cosa serissima: era trattabile, poco metastatico, a crescita lenta. Ma vai a spiegarlo te a uno che rimane nella stessa stanza, senza informazioni, per due settimane.

Sofia uscì il terzo giorno da quella stanza sbattendo la porta malamente. Con un dito mi disse di seguirla in pausa cicca, dove il mio compito era per lo più vederla pensare in silenzio, mentre tirava grandi boccate nervose. Con i capelli raccolti alla meno peggio, due ricciolini da rabbino davanti alle orecchie e due occhi strizzati di stanchezza, ma acuti e furbi come quelli di un animale selvatico.
Infatti, mentre fumava, ebbe un lampo. Un lampo da faina o da lupo. Dilatò le narici, fissando sempre di più un punto, seguendo l’incalzare dei suoi pensieri, chiuse gli occhi, gettò la cicca e corremmo assieme di nuovo in reparto.

Attendemmo il pomeriggio, quando aveva dato appuntamento all’oncologo, dandogli a credere di un improvviso aggravamento della situazione, per scuoterlo del suo torpore. Vedendo il paziente in buona salute il medico rimase di sasso, mentre Sofia si limitava a sogghignare.
“Ma sta benissimo!”, esclamò lo smilzo dottore.
“Già. Per ora”, rispose lei. “Venga”.

In mezz’ora, parola mia, tra suppliche, critiche e problemi etici, lei riuscì a far vergare da quel dottore tali parole: “Ottima prognosi se operato, probabile repentino aggravarsi se non operato entro due mesi”. Non era vero. Pinco Pallino poteva resistere ancora sei mesi, forse più. Non capivo perché stesse aggravando così il quadro di un paziente che già a vederlo stava bene. Ma poi vidi l’occhiolino di Sofia e mi zittii.
Ci congedammo davanti a una panzona che preferiva la morte piuttosto che mangiare lo yogurt dell’ospedale, e mi disse stringendo la carta: “Adesso vedi come metto fuoco ai culi”.

L’indomani tutto il gran galà dei camici immacolati si era riunito in camera del Signor P., e tra salamelecchi vari, e supponenti domande verso la giovane dottoressa responsabile, venne portato trionfante su un’inutile, ma scenografica sedia a rotelle verso il reparto di anestesia. Nel pomeriggio venne operato in pompa magna, con chirurghi brizzolati e medici leccati che si vantavano con la caposala di averlo “salvato” da un’inesorabile sorte.

Sofia era rimasta nella stanza vuota del signor P., a compilare la grafica, nella penombra. Improvvisamente la pila d’inutili fascicoli medici franò giù dal comodino. Recuperandoli, presi molto coraggio e chiesi: “Sofia?”
“Mhm?”
“Perché hai truccato la consulenza, poteva farcela ancora un po’. Il suo tumore non è così grave”.
Lei mi guardò seria e nervosa, come sempre e poi mi disse: “Però la sua paura lo era. Hai visto che lo stava mangiando”, e tra le pratiche cadute a terra raccolse un piccolo coltellino svizzero, aperto, affilatissimo.

“Non ti eri accorta dei polsi al primo giorno?”, mi chiese senza guardarmi.

Io rimasi stupefatta, con una vaga voglia di piangere. Lei restò in silenzio, agganciò la grafica al letto e poi, guardando la finestra nera, disse: “Dai che è tardi, vai a casa. Hai tutta la vita davanti per stare qua dentro”.
Quella notte sognai di nuovo il mostro, ma stavolta lo stetoscopio diradava la polvere nera… e in mezzo c’era il Signor P., in pigiama, che tutto sorridente tornava a casa senza paura.

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Anima d’Africa

Posted by manuele on marzo 17, 2012
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Congo, lago Tanganika.

Mattino, ore 6 precise. I canti “gospel” in lingua swahili della messa sono la mia sveglia. Apro gli occhi. Sul viso un sole enorme che mi riempie l’anima, entra nella mia stanza dalla finestra della ex missione dei saveriani abbandonata. Ogni mattina percorriamo in jeep una lunga strada di polvere rossa.

Colori vividi, mai visti prima, un cielo terso e d’un azzurro sgargiante. Un via vai continuo di persone a piedi, motociclette mai viste fanno da taxi, edifici in rovina e capanne lasciati così dalla guerra ai lati del lago splendente.

“jambooo ! munganga musungu, habari gani?” è il saluto che accompagna il mio esser uomo bianco e medico in missione, tra sorrisi e volti che mi guardano con occhi grandi e sereni, volti d’un colore d’ebano di antiche origini dell’uomo.

L’ospedale è fatiscente. Nei piccoli giardini circostanti, galli e capre, panni colorati stesi al sole, persino i guanti in lattice vengono messi all’aria per essere riutilizzati.

In sala operatoria si muore di caldo, ci saranno 50 gradi, ma oggi ho un ventilatore comperato ieri a Bujumbura dopo 4 ore di macchina.

A volte non riesco a credere a ciò che vedo, colera, lebbra, tifo, malaria, meningiti, tumori, gozzi grossi come meloni…  come faccio a curare cosi’, coi mezzi che ho?

Tra un intervento e l’altro esco a fumare una sigaretta e coi miei fratelli africani parlo un misto tra francese e swahili e le risate assordanti non mancano.

Sì perchè là non si parla sommessamente come da noi. E questo mi piace da morire. Ricordo che avevo un pacchetto di mentine. Le assaggiavano e ridevano di gusto…ma come? Non avete mai assaggiato la menta? Ahahahah fantastico.

Tra un reparto e l’altro percorro corridoi all’aperto con le donne che mi sorridono, si interrogano, c’è chi dorme sulle stuoie, chi cucina… giuro, c’è anche il coiffeur che taglia e pettina !

Bimbi che mi toccano i capelli biondi e lisci e ridono e ti saltano al collo….le mamme poi dicono loro che lui è l’uomo bianco, il “musungu”…Ma com’è possibile che queste persone che non hanno nulla riescano ad avere sempre il sorriso ?

La mia ombra si stacca da me al massimo di trenta centimetri. E d’un tratto fuori ed è buio.

Il sole cade alle sei precise, esattamente dodici ore dopo. Non ci sono lampioni, ci sono i grandi fari della jeep che ci portano a casa. Ma anche il buio sembra colorato e acceso da stelle grandi come sassi se guardo in alto…

E c’è un profumo accattivante nell’aria, di lago salato, di erba, di frutti, come d’incenso che miete la mia stanchezza. Ogni giorno e sera così per un mese.

Oggi si ritorna in Italia. I bambini della missione hanno un nastro di carta sulla testa con scritto in italiano “tornate presto”. Le mie lacrime sono cosi’ grosse, che non riesco quasi a vedere chi abbraccio ed è un coro di voci, di canti e ululati delle donne vestite a festa, con abiti lunghi dai toni accesi… Grazie Dio Onnipotente che mi hai fatto non fare ma Essere medico dopo un’esperienza così.

La mia anima è cambiata: è colma di quel sole, di quegli odori, di quei colori, di quegli abbracci di bimbi e amici, di lacrime e risate, del ricordo di quelle malattie così “distanti” da noi, del mio senso di impotenza ma di ritrovo continuo di vigore quotidiano, di dire a me stesso di non mollare mai, ma di pensare con calma a come affrontare tutto.

Grazie.

Ho imparato che la mia anima è fatta per condividere, per avere e donare empatia, come loro senza volere l’hanno donata a me. E io ritornerò là…presto, molto presto….perchè tutto questo mi manca immensamente e se ci ripenso mi viene un groppo in gola….

Manuele

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