Archive for aprile, 2009

i tre ragazzi

Posted by Herbert Asch on aprile 25, 2009
cronache / 2 Commenti

I tre ragazzi sono evidentemente alle prime armi. Si vede subito.
Così come si vede subito che sono sversi tutti e tre, per aver visto il loro primo morto, che gli è morto quasi, letteralmente, nelle braccia…
Non mi ero accorto subito di loro, la chiamata indirizzava su un paziente in una stanza della medicina all’ultimo piano.
Ma già era sospetto il fatto che il paziente fosse su una barella d’ambulanza, dove peraltro, veniva correttamente massaggiato e ventilato da due infermiere.
La collega del reparto mi spiega brevemente il caso: broncopneumopatico, fumatore incallito, con diagnosi di tumore alla vescica, metastatizzato ad ossa e fegato, che andava ad un ospedale vicino, come le precedenti tre settimane, per fare un ciclo di radioterapia.
Era un uomo corpulento d’aspetto piuttosto trasandato, i vestiti stazzonati, la barba da fare, le mani rinsecchite, con le unghie non curate, le dita marroni di fumo.
Per il paziente era subito stato chiaro che non c’era più niente da fare, anzi, l’improvviso coccolone aveva messo fine sicuramente ad un calvario di sofferenze difficilmente sopportabile.
Ora era arrivato al capolinea, anzi, più precisamente aveva trovato questo capolinea appena uscito dall’ascensore al pianterreno, sul percorso che lo portava in ambulanza.
E gli ambulanzieri, appena visto che non parlava più, avevano ripreso la strada al contrario e l’avevano precipitato nuovamente indietro in reparto, nella sua stanza. Dove aveva anche cessato di respirare ed erano iniziate le manovre rianimatorie.
Manovre che avevamo poi interrotte una volta constatatane l’inutilità.
Il nostro povero paziente aveva finalmente trovato la strada giusta per l’uscita, probabilmente anche con sua intima soddisfazione, visto la terapia antalgica che gli avevano impostata. Le metastasi ossee danno spesso dolori difficilmente controllabili, in questi tumori. Amen.
Pertanto ora che le manovre rianimatorie si erano esaurite, si trattava di riprenderlo dalla barella autocaricante della lettiga, abbassata a livello pavimento per le manovre, e passarlo sul suo letto, in attesa del tanatogramma e dei vari adempimenti burocratici.
– Facciamoci dare una mano dagli ambulanzieri! – propongo. – Falli entrare! A questo punto sono comparsi sulla porta i tre, due ragazzi e una ragazza, infagottati nelle divise arancione dei soccorritori, vent’anni scarsi a testa, pallidi anzichenò, con le facce stravolte. Hanno realizzato che il loro paziente è morto, più precisamente gli è morto sotto gli occhi, proprio in quei momenti lì quando lo riportavano in reparto.
Capisco subito che ho avuto una pessima idea a farli entrare in gioco. In fondo c’era gente e non c’era così bisogno.
Attimo di incertezza.
Incrocio lo sguardo con la Caposala, infermiera di gran buonsenso ed esperienza, che conosco da tempo.
– Forse è meglio offrirgli un caffè! – dico, correggendo il tiro.
– Certo! venite che ve lo metto su – risponde lei rivolta ai tre – qui lasciate stare che ci pensa il personale di reparto! – Ci siamo intesi al volo.
– Si, certo, così vengo anch’io, un caffè lo prendo volentieri. Venite – Ne prendo uno sottobraccio.
E ce li portiamo in cucina, mentre il personale di reparto sistema la stanza..

Il debriefing non è semplice, sono tutti e tre molto scossi, uno non vuole stare comunque, esce a fumare.
Gli altri due si siedono, ma ci va un attimo prima che riprendano un filo del discorso, prima che diano retta a chicchessia.
Prima cerco di buttarla sul tecnico: avete visto la classica situazione dell’arresto cardiaco, è proprio in questi casi che si applicano i gesti che vi spiegano ai corsi di Primo Soccorso… anche se in alcuni casi c’è poi il giudizio del medico… Cerco di dire qualcosa, spiego che hanno fatto tutto quel che c’era da fare, che hanno fatto nel modo migliore, che la storia non poteva concludersi che così, per quel signore, è stato solo un caso che loro si siano trovati in mezzo…
Ma loro sono giovani che si sono trovati improvvisamente vicino alla Morte, non la loro, per fortuna, ma l’han vista da vicino, su uno che un po’ avevano imparato a conoscere:
– Si nascondeva sempre la sigaretta in tasca e la tirava fuori quando usciva dall’ospedale… – ricordava uno di loro.
E poi, adesso, improvvisamente, zot! finito, schiodato lì.

E a me veniva in mente la mia, di storia.
Ho fatto questo lavoro per più di vent’anni, comincio adesso (e forse mi sbaglio) ad essere un po’ più sicuro e meno incerto, avendo sviluppato quel sesto senso che ti viene dall’esperienza di essere chiamato a qualunque ora del giorno e della notte a cercare di capire quel che altri non han risolto, di salvare quel che forse è già perso… io, proprio io che da ragazzino avevo paura dei morti, che odio prendere decisioni irrevocabili proprio tanto quanto amo ricercare le infinite variegature delle possibili soluzioni…
E questa mia pretesa sicurezza l’ho pagata cara, perchè non è semplice passare indenni e mantenere la testa fredda quando sei in situazioni critiche, dove devi capire, prendere decisioni, fare cose, da cui dipende (letteralmente e senza retorica) la vita altrui.
Vedendo magari spettacoli da Gran Guignol con gente incastrata tra le lamiere, con il corpo lacerato, istupidita dal dolore o dalla violenza che ha appena subito.
Diventi poco a poco più sicuro, ma, necessariamente più insensibile; e questa insensibilità te la porti dietro anche nella vita, alla fine non ti diverti più fino in fondo, non ridi più di gusto nè piangi da sfogarti.
Non scrivi più lettere, poesie e forse a volte è anche meglio non pensare.

E allora, io, che cazzo gli posso dire io a questi qui?.

Che sono sfigati, che si son trovati in mezzo e non è colpa di nessuno, che quando finiscono il turno si lavino bene le mani e sciacquino tutte le miserie che hanno visto e le lascino lì nel lavandino, che la vita fuori, per fortuna è diversa, che vadano a divertirsi, che pensino ad altro, che la loro parte l’han fatta…
Poi non dico niente e lascio concludere alla Caposala, che forse è un po’ teatrale, ma è sicuramente efficace:
– Datemi retta, lo conoscevamo bene, qui. Era un buon uomo ed ha sofferto tanto. Ora sono sicura che lui di lassù adesso è contento, finalmente, ed è tranquillo.

E pace all’anima sua.

Herbert Asch

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una mattina come tante

Posted by tartaruga on aprile 18, 2009
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C’è un solo responso, un solo e unico NO… nella frenesia di una mattina come tante, tre persone si fermano accanto al letto di un paziente… un paziente come ne abbiamo visti passare molti altri e a suo modo unico… tutto quello che avevamo pensato per lui non si può fare e non lo si farà… lo svolgersi degli avvenimenti e le decisioni assunte forse non sempre possono lasciarci del tutto appagati. Il succedersi di pazienti su questo stesso letto attorno a cui ci troviamo mi ha insegnato che non sempre le situazioni sono tutte bianche o nere, ho dovuto imparare a cogliere quella infinità di grigi, senza i quali sarebbe impossibile resistere.
Un gusto amaro ci pervade la bocca, un sottile lampo di perplessità ci attraversa gli occhi… lo sappiamo noi tre, lo vedi negli occhi di chi ti sta intorno nella sala emergenza, lo vedi nei volti della famiglia con cui parlerai, lo vedi nella neve che cade sciogliendosi sul vetro della macchina, mentre lasci l’ospedale per riprendere la tua vita all’esterno.
Io non lo so cosa sarebbe stato meglio in questo caso… so che noi ci abbiamo provato… e questo è sufficiente per entrare domani in sala emergenza, sfoderare il mio solito sorriso e dire: “Allora, che si fa?”, e so che per voi due sarà lo stesso…

Tartaruga

primanotte

Posted by Ania on aprile 12, 2009
cronache / 3 Commenti

Sono le ventuno, avevo avvisato che sarei arrivata un po’ più tardi, tutina blu elettrico , zoccoletti azzurri e camice bianco , tutto stirato alla perfezione e tutto col profumo che solo le mamme sanno dare al bucato, eppure anche io uso gli stessi detersivi, ah si… ma questa è un’altra storia.
Metto sul taschino tre penne, tutte griffate con il nome dei farmaci, con i colleghi facciamo a gara a chi riesce ad averne di più, metto in tasca una calcolatrice, un prontuario un blocchetto per gli appunti e il fonendoscopio al collo, Littman naturamente, però in effetti messo così attorno al collo sa tanto di E.R. o di Grey’s Anatomy, magari poi sembro ridicola e un po’ convinta, ma si dai, mettiamolo in tasca, anche se poi mi si impiglierà ovunque, ora attacco il cartellino che dice “Dottoressa… medico tirocinante”.
Io medico?? Stamattina mi hanno chiamato e mi hanno confermato l’iscrizione all’ordine, mamma mia, ma se fino a qualche mese fa mi disperavo per l’esame di neurologia!
Mah che dire, ecco, sta pure arrivando un’ambulanza, va bene, la vestizione è finita, leghiamo i capelli e andiamo: ora non ho più scuse e poi ho sempre sognato di essere qui.
Arrivo al piano superiore di fronte alla saletta delle emergenze, ecco la mia tutor, non si è accorta che sono arrivata, tutti si affannano attorno al paziente, il medico del 118 che parla di infarto e tutti che si adoperano, aghi, aghetti, monitor, ossigeno, provette, mi infilo nella stanza e mi metto in un angolino da cui posso vedere tutto senza essere d’intralcio, ognuno fa qualcosa, l’uno perfettamente coordinato all’altro, come una danza provata mille volte, quasi a ritmo di musica, io mi stringo nel camice che sa di ammorbidente impaurita, quasi a trovare coraggio nel profumo che solo i panni lavati dalla mamma hanno. Sollevo lo sguardo sono passati già 15 minuti, che strano, ma siamo sicuri? Magari l’orologio corre troppo in fretta. Ora il paziente è stabile, l’infermiera avvisa i cardiologi, adesso bisogna portarlo al quarto piano. Ecco la tutor si è accorta di me, mi sorride e mi chiede se sto bene ” Sì sì – dico io – sono sempre cosi pallida”.
Non le dico che il cuore sta per saltarmi via dal petto, mi sorride ancora e mi dice: “Vieni lo portiamo su in cardiologia, prendi lo zainetto di emergenza e chiama l’ascensore. Sei pronta per la tua prima notte dottoressa ? ”

aspirante anestesista

un gelato per Chanta

Posted by Rachele on aprile 04, 2009
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Un giorno come un altro, una famiglia di contadini come tante qui in Cambogia si sta recando al lavoro nei campi con il carretto trainato dai buoi, sopra ci sono un padre, una madre con una piccolina di 6 anni in braccio e altri 3 fratelli più grandicelli, davanti al carretto cammina la sorella più grande di 17 anni. La ruota del carro fa pressione su quella mina anticarro che chissà da quanto tempo era lì sotto, il boato è forte e improvviso, la sorella più grande si gira e nel tempo di un respiro ha perso metà della sua famiglia… il padre e tre fratelli muoiono sul colpo e la madre con la figlioletta più piccola sono scaraventate a terra… Vengono portate all’ambulatorio più vicino dove la bimba appare subito in condizioni molto gravi, respira male e si lamenta di dolori addominali… La caricano su un ambulanza e via verso l’ospedale che dista 3 ore di auto… E’ sera quando l’ambulanza che porta la piccola Chanta arriva al nostro pronto soccorso, la visitiamo, la studiamo con le radiografie del torace ma nulla è chiaro… siamo perplessi perchè le condizioni sembrano stabili anche se quel respiro e quel addome non ci convincono e poi è così piccola, ha 6 anni ma pesa solo 13 kg…

Decidiamo di farle una tac torace e addome: ha contusioni polmonari bilaterali e un immagine molto dubbia di sanguinamento sul fegato, le controlliamo l’emoglobina ogni ora… scende di 1 grammo e poi un altro… decidiamo di portarla in sala…

E’ sulla barella con un pupazzetto rosso tra le mani, una infermiera le chiede se ha mai mangiato un gelato… lei dice che non le piace poi ci pensa un po’ e ci dice che lo vorrebbe proprio tanto un gelato… l’infermiera la guarda e le sussurra: “te lo prometto Chanta, lo mangerai quel gelato…”

Nell’addome c’è sangue… ci guardiamo con il chirurgo e pensiamo la stessa cosa, Dio fa che non sia il fegato… e invece ha proprio una lesione epatica molto grave… lo staff della sala si mobilita… comincia l’ennesima battaglia per la vita al di qua e al di là dei teli verdi… noi anestesisti che speriamo che il chirurgo faccia il più in fretta possibile per arrestare l’emorragia e guardiamo i bottiglioni dell’aspiratore con angoscia… ci affanniamo a trovare le vene, a trasfondere, a ventilare la paziente, non ci sono ventilatori pediatrici… né infusori per bimbi così piccoli… L’emostasi riesce e il chirurgo chiude l’addome lasciando un packing di garze… ma le condizione respiratorie sono brutte… ci vuole più di un ora per estubare la bimba e non è brillante… passa la notte nella terapia intensiva ma la mattina successiva ha 50 di frequenza respiratoria, broncospasmo, un respiro superficiale, piena di secrezioni e poi comincia ad avere delle apnee… In queste condizioni – dico allo staff- non ce la farà, presto andrà in arresto respiratorio e non possiamo aiutarla, non abbiamo i ventilatori… non c’è modo… Gli infermieri mi guardano, la loro responsabile, che è anche l’infermiera più esperta dell’ospedale, mi dice che se la intubiamo, la ventilano loro a costo di stare lì 24 ore… Penso ma come fanno a non rendersi che non è possibile! Se non si danno per vinti loro allora va bene, ci proviamo… Ogni volta che va in apnea – spiego- la aspirate dal naso così lei si sveglia comincia a tossire, migliora la saturazione… ma dovete andare avanti così tutta la notte… ve la sentite? Mi rispondono che ci sarà un infermiere solo per la piccola Chanta per tentare di farla arrivare viva al mattino dopo quando la riopereremo per toglierle le garze…

Il mattino è arrivato, sono passate 48 ore. Ci serve sangue fresco per i fattori della coagulazione e le piastrine… non c’è problema, mi dicono, ci sono due donatori compatibili pronti a donare il mattino dell’intervento: una è la sorella e l’altro è il nostro amministratore… Ormai c’è tutto lo staff che fa il tifo per Chanta… Si va in sala… l’emostasi ha tenuto, il packing rimosso e ora la piccola deve respirare… Ce la teniamo 2 ore in sala, sulla barella… guardo l’infermiera che la assiste e che le dice con tenerezza: “su Chanta, respira piccolina, ricorda che devi mangiare il gelato…”.

Sono passati alcuni giorni, Chanta con quelle misteriose risorse che solo i bimbi hanno, ce l’ha fatta, tornerà a correre con gli altri 5 fratellini. Chiedo alla sorella più grande se è contenta… è stata al suo capezzale nei giorni più critici… Non sorride, non è felice, pensa al padre morto, l’unica fonte di sostentamento della sua numerosa famiglia non c’è più… mi dice che non sa ora come faranno a tirare avanti, non si possono sfamare 6 bambini solo raccogliendo legna, lei è la più grande e si sente responsabile per tutti, lei non sa neanche cosa è una scuola ma sa cosa è la fame e sa che dovrà tornare presto in quei campi maledetti che le hanno distrutto la famiglia, sperando di non finire su altra mina.

Rachele

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