Archive for febbraio, 2010

Sull’orlo dello sfratto

Posted by Ania on febbraio 21, 2010
racconti / Nessun commento

” [….] Se io fossi malato mi piacerebbe non dover soffrire per le mie miserie fisiche, non dovermi vergognare per i segni del tempo sul mio corpo.
Vorrei potermi muovere ed esistere in un mondo che ancora mi appartiene e non sentirmi costantemente sull’orlo dello sfratto.
Se io fossi malato vorrei sentirmi dire in Ospedale “può tornare a casa perchè sta meglio” e non perchè “non ci sono posti”.
Vorrei potermi svegliare da un breve sonno e ritrovarmi accanto un volto noto che mi riporti un pizzico di mondo, non di nostalgia, ma di continuità, un attimo di speranza da leggere in un sorriso che crede e non finge.
Se io fossi malato vorrei conservare tutta la mia dignità, il mio nome, il mio “dottore”, non vorrei mai più essere un numero.
Anche se tutti mi dicessero che non serve a niente in quelle condizioni, io vorrei pensare che la malattia è solo una condizione dell’uomo, non è la distruzione dell’uomo.
Se io fossi malato vorrei essere trattato con rispetto vero e non con falsa affettuosità, vorrei che le mie paure non mi facessero deridere, vorrei che su di me si praticassero solo le cure necessarie.
Non vorrei diventare inconsapevole terreno di battaglia fra la morte e qualche medico assetato della gloria dei numeri; non vorrei essere un percento statistico in coma irreversibile.
Se io fossi malato vorrei attendere la guarigione e continuare a vivere fino a quando la morte non venga a concludere la mia vita. [….] ”

 (da “Il cavallino di pietra” di E. Carchietti).

Ania

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se fossi Marco…

Posted by Ultiva on febbraio 11, 2010
cronache / Nessun commento

Ho incontrato G. al terzo anno, docente di Area Critica ed Emergenza. Lui è uno dei miei Medici, e soprattutto, uno dei miei Maestri. Sempre gentile, mai brusco, perennemente pronto a difendere la causa di chi si guadagna da vivere maneggiando cateteri e padelle (o almeno così pensa il pubblico…). Mio relatore di tesi, rappresenta il mio gancio per entrare a lavorare nel reparto di Terapia Intensiva del mio Ospedale. Da allora è passata diversa acqua sotto i ponti.
E’ un bel pomeriggio di giugno quando dal 118 arriva la richiesta di usufruire del nostro posto letto per un ragazzo di 23 anni precipitato da 10 metri. Marco, per l’appunto.
Marco è sempre stato triste, ce lo dicono i genitori. Fin dall’adolescenza soffre di una grave forma di depressione, dominata con difficoltà dai farmaci. Ha minacciato il suicidio più volte, senza mai provarci. Marco ha una sorellina. Oggi sembrava che fosse su di giri: dice al papà che gli piacerebbe fare una passeggiata con lui, quando rientra dal supermercato. Mentre il padre si avvia, Marco esce sul balcone e si butta.
I soccorsi sono tempestivi: l’equipe dell’elicottero arriva immediatamente, l’evento è pressoché di fronte all’elibase. 
In ospedale Marco arriva intubato, con la pressione più bassa del suo umore. Mentre i ragazzi della CRI lo passano dalla barella al lettino della shock room, Marco va in arresto. F., del Trauma Team pratica una toracotomia resuscitativa ed una splenectomia che sono seguite da un invio a razzo in sala per una revisione chirurgica ed un emostasi più approfondita. Il tutto coronato da un angiografia intraoperatoria che non evidenzia altri sanguinamenti.
Marco entra in reparto alle 15:00; prima del rumore dell’ambu, il monitor GE ci informa con il suo laconico “BEEEEEEP” che la PA è molto bassa (50/–). La linea verde dell’ECG danza veloce sotto il nostro sguardo: tachicardia sinusale, FC 150 bpm. La PVC è bassa, emoglobina e crasi ematica fanno ridere i polli, mentre a toccarlo Marco sembra un ghiacciolo. Le due anestesiste-galline della camera operatoria se la ridono e se la raccontano mentre spingono il mobilizer della CO. I loro risolini isterici non riescono a coprire la tensione e a mascherare il problema: se Marco è ipoteso, loro non sanno perchè. Nulla di cranico, niente di mielico. Perdite intraoperatorie corrette. Nulla dal drenaggio in emitorace sinistro.
Now, it’s our job: PiCCO, riscaldamento, gasanalisi venosa e arteriosa, lattati, emocromo, funzionalità epatica e renale, coagulazione, TEG, riscaldamento attivo, 7 french in femorale e Voluven come se piovesse. Con il consueto “savoir faire” G. coordina: adrenalina a 20 ga/kg, nora idem, vasopressina… non cambia un tubo. L’assetto emodinamico è pessimo: l’indice cardiaco è depresso, le resistenze inesistenti. L’ecocardio mostra un cuore complessivamente ipocinetico. Non pnx iperteso o tamponamento. Massa nobile a non finire, coagulopatia trattata come da manuale e anche di più, grazie al VII ricombinante. Tentiamo provvedimenti quasi fantascientifici: vasopressina, idrocortisone. 
Mentre qualcuno dice ECMO, V. propone di lasciarlo andare. Voleva morire, c’è praticamente riuscito. Non accaniamoci. Ma G. no, proprio non ce la fa a lasciare andare quello che fino a ieri era un bambino. Si legge nel suo sguardo. 
Andiamo avanti, l’addome si gonfia sempre di più. La IABP sempre più alta. Sanguinamento a nappo, dicono i chirurghi. Sarà, ma in quella Marco inizia a buttare anche dal drenaggio toracico, andiamo in emorecupero. Al monitor la stessa fotografia di ormai ore prima: 150 di frequenza, 50 di sistolica. 20 i lattati. Midazolam e remifentanil scendono lentamente erogati dalle pompe siringa nel tentativo di proteggere Marco dal nostro accanimento, nel senso buono del termine.
Sono passate 6 ore. Richiamiamo i chirurghi. Fino ad allora G. si era espresso parlando al plurale: “facciamo questo, istituiamo quell’altro…”. La mia collega L. è sfatta, anche S., stoico per anzianità e per credo, accusa i colpi del fallimento. Poi, ad un certo punto, intorno al letto, G. dice “Ragazzi, adesso vediamo se i chirurghi possono metterci mano: diversamente, STACCO tutto”. F., il chirurgo, dice che in sala con 50 di pressione non ce lo può portare. G. concorda e incassa, sempre più curvo, sempre più tirato. Si avvicina a noi e ci dice: “Ragazzi, basta”. Spegne le pompe della nora, dell’adrenalina, della vasopressina. Ferma i liquidi e il sangue. Passa Marco in pressure support, a FiO2% 21%. Aumenta Ultiva e Ipnovel. Ha gli occhi lucidi. Mi avvicino, e lo aiuto a spegnere, a chiudere. Non può, non deve, non vuole sopportare tutto questo da solo. 
Mi tolgo i guanti, prendo la mano di Marco, lo accarezzo sulla testa fino a quando il monitor GE inizia il suo concerto di allarmi. E’ finita.
In corridoio devo avere più o meno le sembianze di un lombrico. G. mi fa una carezza sulla nuca, ha quasi l’età per essere mio padre. 
“Andiamo a fumare?” Ma si, proviamoci, anche se oggi mi sa che una sigaretta e qualche lacrima non bastano a lavare via tutto ciò che ci è arrivato addosso.

Ultiva

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viaggiare di traverso

Posted by Orso on febbraio 02, 2010
racconti / Nessun commento

1998, mese di febbraio

“Vado, il vento mi chiama”.
Mi è sempre piaciuto scherzare con questa frase un po’ melodrammatica per salutare gli amici, calzandomi il casco in testa e preparandomi a partire. A volte si scherza sulle cose alle quali si è più affezionati. È un modo come un altro per difendere i propri sentimenti, quelli più profondi, più intensi.
E del resto la vita è una cosa troppo seria per prenderla sul serio. Qualche volta fa bene recitare. Lo facciamo già infinite volte ogni giorno, per costrizione, per dovere, per necessità.
Perché non puoi mandare all’inferno il capufficio, il caposquadra, il capoofficina, i clienti, la moglie (o il marito), gli sbirri o chiunque altro se lo meriti ogni volta che vorresti farlo.
Allora tanto vale recitare per scelta, e trasformare la nostra tragedia in una farsa e la commedia in un dramma. In fondo non fa male a nessuno.
???
Salvo che a noi stessi, un po’, ogni tanto.

“Vado, il vento mi chiama”.
Meno di dieci minuti più tardi ero riverso a terra, con la gamba destra fracassata in sei o sette punti. Avevo trovato il mio, quello giusto. Quello che con l’auto non si ferma allo STOP perché lui ha una bella macchina, un po’ di fretta e tanto, dall’altra parte, arriva soltanto una moto.
Andavo piano, forse meno di trenta all’ora, e lui mi investe in pieno, centrandomi proprio all’altezza della gamba destra con il muso dell’auto. Un dolore intensissimo e la sensazione di un calore bruciante; mi rendo subito conto che qualche osso si è fratturato. Guardo in basso e vedo che il piede non poggia più sulla pedana: piegato innaturalmente verso l’esterno, pochi centimetri sopra la caviglia, è scomparso sotto il paraurti dell’auto.
“Puttana Eva, – penso – è andato!”
Ma non è finita. Il tizio è rimasto paralizzato dallo shock (lui!), e non riesce a frenare. L’auto procede nella sua marcia, continuando a spingermi lateralmente, mentre io riesco a rimanere in equilibrio sulla moto.
Mi sembra di vivere un incubo. La moto si è leggermente inclinata verso il muso della macchina che continua ad avanzare, sospingendola; i pneumatici stridono sull’asfalto, costretti ad una direzione di marcia che non è propriamente quella più normale. In equilibrio sulla moto, sento di nuovo un dolore atroce alla gamba: stritolata tra il muso dell’auto ed il motore della moto si è fratturata in un altro punto, qualche dito sotto il ginocchio.
Urlo: “Fermati, bastardo!”, e sferro un pugno sul cofano. Bella ammaccatura, ma quello non è in grado di reagire. L’auto continua ad avanzare, lentamente ma inesorabilmente, e mi sospinge con la moto per tutta la carreggiata; dopo aver superato la linea di mezzeria attraversa anche l’altro senso di marcia. Sto viaggiando di traverso, cazzo! e la cosa non è affatto divertente, considerate le circostanze.
“È assurdo – mi dico – non sta succedendo!”
Finalmente, giunto all’altezza del marciapiede che era alla mia sinistra, il tizio riesce a frenare.
La moto si inclina di colpo verso sinistra, ma, prima che rovini a terra, riesco a gettarmi all’indietro e ad evitare che l’altra gamba vi rimanga sotto. Il casco mi risparmia, se non proprio una commozione cerebrale, per lo meno un gran bel bernoccolo.
Accorre gente. Riverso a terra, supino, vedo alcune mani che si protendono verso di me.
“Lasciatemi stare – riesco ancora a grugnire – ho una gamba fracassata!”
Qualcuno chiama l’ambulanza.
Mi sfilo i guanti e meccanicamente cerco il pacchetto delle sigarette, ma non riesco a trovarlo: non ricordo in quale tasca l’ho messo. Rinuncio a fumare e cerco di guardarmi un po’ intorno, ma riesco soltanto a vedere, in alto, sopra di me, i volti di quelli che si avvicinano maggiormente per godersi lo spettacolo di un cavaliere disarcionato e ferito. Mi appoggio sui gomiti e cerco di mettermi a sedere, forse perché mi sento un po’ ridicolo, disteso lì, a terra, come un salame sul tagliere.
Non ce la faccio. La gamba mi fa un male atroce, ma per fortuna ancora non svengo.
Dove cristo avrò messo le sigarette? Cazzo! Se almeno avessi con me un po’ di fumo, anche solo qualche boccata, di quello buono, sono sicuro che la gamba mi farebbe meno male. Assurdamente, ma nemmeno poi tanto, a pensarci bene, mi viene in mente una canzone, gli accordi di chitarra struggenti di Keith Richards e la voce sgraziata di Mick Jagger.

“… Tell me, Sister Morphine,
when are you comin’ round again?
Oh! I don’t think I could wait that long
Oh, you see that my pain is strong

Oh! I don’t think I could wait that long
Oh, you see that I’m not that strong
The scream of the ambulance
Is soundin’ in my ear
Tell me, Sister Morphine,
How long have I been lyin’ here?
What am I doing in this place? …”1

Finalmente arriva l’ambulanza, con tanto di sirena che mi fa sentire maledettamente importante, e da quel momento hanno inizio le comiche.
Vedo un uomo chinarsi su di me. Mi parla. Dapprima le solite domande di routine che servono ad attenuare lo stato di shock. Poi comincia ad inquadrare meglio la situazione.
“Ascolta, io sono un medico, stai tranquillo che adesso mettiamo tutto a posto. Comincio a toglierti il casco, ma tu non devi fare nessun movimento”.
“OK” gli dico, e annuisco con la testa.
“No, fermo! Ti ho detto di stare fermo!”
“Va bene, va bene, non mi muovo più”.
Mentre mi solleva delicatamente la testa per sfilarmi il casco intravedo una ragazza con la divisa da barelliere che si aggira all’altezza dei miei piedi con un paio di cesoie in mano, poi sento che traffica qualcosa laggiù, in quel magma ribollente di dolore che è la mia gamba. Drizzo di colpo la testa:
“Cosa diavolo sta facendo, quella?”
“Cristo santo! – mi riprende il dottore – vuoi stare fermo? Ti sta tagliando lo stivale, per sfilarlo!”
“Ma porca puttana! Non vedi che c’è la cerniera?”, abbaio verso di lei.
La ragazza mi sente, e provvede a togliermi gli stivali senza farne delle bistecche.
Poi mi coglie uno scrupolo di coscienza.
“Senti, guarda che porca puttana non lo dicevo mica a te “, dico alla ragazza.
Sarà anche un po’ imbranata, la tipa, ma in fondo non si merita un giudizio così severo. Così si limita a tagliare i pantaloni.
Comunque sono davvero bravi. Riescono persino a caricarmi sulla barella senza farmi ululare come un lupo incazzato.
Mi infilano nell’ambulanza. Si riavvicina il dottore e mi fa:
“Senti, adesso ti dobbiamo tagliare il gilet ed il giubbotto”
“No, cazzo, non se ne parla nemmeno!”
Scherziamo? Il gilet con i colori!2 E neanche il giubbotto! È un po’ vecchio, d’accordo, ma mi costa qualche centone, e non è che io ne abbia tanti da gettar via così. E poi gli sono affezionato, quasi come ai colori.
“Ascolta – riprende il dottore – non possiamo correre rischi facendoti muovere per sfilarlo; possono esserci delle lesioni alla colonna vertebrale. Dobbiamo tagliare tutto!”
“No, doc, non si taglia proprio niente. Andiamo in ospedale così”
Vedono che proprio non intendo mollare, allora si consultano tra loro. Infine si arrendono.
“Va bene, te li sfiliamo, tu lascia fare a noi, non muoverti, mi raccomando”.
“D’accordo”, gli faccio, e questa volta senza assentire anche con la testa.
Con infinita pazienza, centimetro dopo centimetro, mi sfilano il tutto dalle spalle e poi lo fanno scorrere lungo la schiena, sollevandomi con mani sapienti. Se fossi stato io al loro posto, ad un rompiballe così avrei dato una botta sulla testa, e dopo averlo messo a cuccia avrei fatto quello che più mi sarebbe sembrato opportuno. Ma per fortuna (fortuna? fortuna un accidente!) ognuno è al posto suo: io faccio il ferito e loro i soccorritori; è così che funziona la cosa.
Comunque non è ancora finita. La tipa di prima, l’imbranata, mi solleva la manica destra del maglione, probabilmente per infilarmi qualche ago nel braccio, e quasi grida:
“Oh, mio Dio!”
“Che accidenti c’è, ancora?” le faccio. Sta’ a vedere che mi sono giocato anche il braccio e non me ne sono neppure accorto!
“I ragni! I ragni!”
Con una faccia inorridita indica i ragni tatuati sul mio braccio.
“Ma porca vacca, bimba, con tutto quello che sei abituata a vedere ti spaventi per un tatuaggio?”
“Mi fanno impressione!”
“Ma fammi il piacere! Conosco tanta gente che è molto più repellente dei ragni, te l’assicuro. Dai, fa’ quello che devi fare”.
Finalmente riusciamo a partire per l’ospedale, e quasi con soddisfazione ascolto l’ululato singhiozzante della sirena dell’ambulanza. Nel frattempo mi accorgo che il dolore sta diminuendo; non so cosa mi abbiano iniettato, però funziona.
Pronto soccorso. Mi portano subito dentro la sala di medicazione. È la prima volta che mi capita di non dover aspettare almeno quattro ore in sala d’attesa. Sono i vantaggi che ti derivano dal fatto di essere conciato piuttosto male.
Un infermiere mi si avvicina.
“Come va?”, mi chiede.
“Da Dio!”, gli rispondo.
“Bene, adesso vediamo meglio”.
Solleva il telo con cui mi avevano coperto quelli dell’ambulanza e fa una brutta faccia. Mi punto sui gomiti e do un’occhiata anch’io.
Vorrei non averlo fatto. Mi viene da vomitare. La gamba, dal ginocchio in giù, è proprio conciata male.
Bel lavoro, cazzo! Frattura multipla scomposta ed esposta.
Arriva un chirurgo (almeno, spero che lo sia, anche perché non è propriamente un ginecologo quello che mi serve). Guarda con un certo interesse la mia gamba e si rivolge all’infermiere:
“Mettiamo un catetere”, gli fa.
“No, guardi, non mettiamo nessun accidente di catetere!” ringhio io, un po’ sull’incazzoso, anche se sto cercando di moderare il mio linguaggio – in fin dei conti, come si dice, è lui ad avere “il coltello dalla parte del manico” – ed evito di dirgli che il catetere può metterselo lui, se proprio vuole.
“Perché, lei riesce ad orinare?”
“Gliene faccio anche un litro, se proprio ci tiene. Ma adesso è proprio la cosa più importante?”
Non mi risponde, ma per fortuna sembra perdere interesse per le mie urine. Debbo riconoscere che si stanno dando da fare: medico ed infermieri mi fanno un paio di iniezioni e mi infilano l’ago di una flebo nel braccio. Devono avermi imbottito di sedativi: poco dopo la gamba mi fa ancora meno male ed il tempo sembra essersi fermato.
E forse succede proprio una cosa del genere, perché la faccenda andrà maledettamente per le lunghe. Dopo l’intervento e venti giorni in ospedale, dieci mesi con le stampelle perché le mie vecchie ossa se la prendono piuttosto comoda a rimettersi insieme, e poi la riabilitazione; insomma: un anno senza la mia piccolina. Un anno quasi gettato via.
Ma non era ancora finita.
Allora dovevo ancora imparare quanto è meschina e crudele certa gente, quando ha la possibilità di sfogare il proprio odio verso chi, come un animale ferito, non può difendersi.
Se io sono Orso, di soprannome e di carattere, di sciacalli ne ho incontrati parecchi.
Ma questa è un’altra storia. (tratto da “Racconti bikers”; Edizioni 9Muse)

Orso

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