Archive for giugno, 2014

Emily

Posted by Labile on giugno 10, 2014
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immagine da RS

Unico fotoritratto conosciuto di Emily Dickinson, dagherrotipo, 1847

 

 

È quasi mattino, una luce indefinita si fa spazio nella notte avanzando coi cinguettii tipici del un risveglio estivo. Una infinita moltitudine di uccelli nascosti in ogni possibile anfratto partecipa al baccano, che a ben ascoltarlo celebra il risveglio, come una elaborata orchestra che celebra la vita.

Noi, insonni ospedalieri, siamo quasi alla fine del turno, il migliore o il peggiore, quello notturno che di piacevole ha , appunto, questa ora che ci avvicina alla fine aspettando il cambio.

Appassionante come può essere una liberazione, onirica nel bisogno di riposo, urgente e bella come la luce che invade le colline.

I  primi di raggi di sole ancora freschi e dorati come lo sono in questo mese di Luglio in un anno così indefinito da sembrare eterno.

Giunge mentre osserviamo lo splendore dalla finestre e di spalle non ci accorgiamo del suo arrivo.

Passettini silenziosi senza fretta l’hanno portata qui con il desiderio di essere ascoltata, il  peso portato nel petto nella notte appena trascorsa che  l’ha spinta a venire.

“ Solo un consiglio …  poi torno a casa, alle mie cose”.

A vederla così all’improvviso alta e magra, esile figura di altri tempi, semplice e chiara come una forma apparsa dal nulla, vestita di cotonina fiorita,  mani forti e annerite,  torte nel grembo piatto mai partorito.

Contadina scesa da uno dei paesi del monte in cui fa giorno prima, specie d’estate che l’attesa fa presto a divenire fretta, sempre, quando qualcuno ha bisogno di noi.

“ Il cuore strabatte che lo sento nelle orecchie e nel petto un volo d’anatre indaffarate che mi stringono il collo”.

Ci parla con antiche e  sorpassate parole che nessuno, oggi,  più è disposto ad usare e tantomeno ad ascoltare.

Descrive così bene il suo disturbo che ha già fatto diagnosi ben prima dei consueti esami.

È come se scendendo dal monte potesse venire a bere un bicchierino d’acqua fresca e tornarsene semplicemente così alle sue cose, al suo orto e alle sue galline.

“Alle cose che anneriscono le mie mani,  ma schiariscono bene la mente” ci tiene a dire mentre pratichiamo qualche farmaco.

Prende così l’avvio una conversazione surreale che si mischia ben presto ai suoni degli uccelli di fuori , mentre lei racconta della sua voglia contadina di vivere, semplice e con poche cose, la sua passione di scrivere “a poeta” quello che gli canta da sempre in testa.

Frasi semplici e minute, recitate a bassa voce per non disturbare chi ha sonno,

“Ne ho giusto due qui in tasca e te le voglio lasciare ….

Qualche volta mi capita ancora di trovarli quei due fogli,  avuti in dono  in una mattina di un improbabile Luglio di molti anni fa.

“A brief, but patient illness / An hour to prepare
And one below, this morning / Is where the angels are ”

(Una breve, ma paziente malattia / Un’ora per prepararsi
E una quaggiù, stamane / È dove sono gli angeli)

Emily Dickinson 1858

 

 

Labile

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Ospedale di provincia

Posted by Herbert Asch on giugno 01, 2014
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foto di DB

foto di DB

“Nella veglia salvaci, Signore,

nel sonno non ci abbandonare,

il cuore vegli con Cristo

e il corpo riposi nella pace. ”    

(Compieta – antifona al Cantico di Simeone)

La radiosveglia segna le 0:03, coi suoi numeri luminosi un po’ fastidiosi, ma indispensabili, perchè voglio sapere che ora è quando mi sveglio di notte. Come stanotte, che potrei dormire tranquillo.

E invece giro.

Di qui.

Di lì.

Macché! tanto vale alzarsi, tanto non riprendo sonno. Mia moglie dorme tranquilla, un respiro regolare, lento, appena un po’accentuato. Mi sfilo la CPAP, silenziosa compagna della notte. Non ho mai faticato a tenerla, anzi, spesso concilia un sonno profondo e senza sogni, di buon riposo. Ma stasera non ce n’è; e pure mi è venuta un po’ di fame: magari scendo a sgranocchiare qualcosa, anche se in frigo c’è poco.

Il frigo più attrezzato è a casa di mia figlia, che sta per conto suo: da lei c’è un ripiano solo per le bibite, un pacco di lattine di coca e uno di fanta; nei rimanenti spazi, tubetti di maionese, wurstel, patè, budini, pancarrè, sottilette e un sacco di altre porcate che fanno male al fegato, ma scaldano il cuore delle notti insonni.  Il nostro frigo è più salutista, verdure cotte e crude in tutte le salse, bistecche, uova. Al massimo può capitare di trovare una cartina di dietetica e triste bresaola, ormai rattrappita, di rappresentanza, perchè crudo, salame e mortadella sono svanite al primo serio assalto; la bresaola non se la fila nessuno e rimane a muta testimonianza di una volontà salutista ed imbelle.

Mi siedo al tavolo con un cubetto di parmigiano ed una fetta di pane di segale.

E mi vengono in mente le notti di tanti anni fa, primo lavoro da anestesista, in un ospedale di provincia, anni ottanta…

Allora il Pronto soccorso era in mezzo all’ospedale, che si alzava sopra di esso per cinque piani. Le sei stanze di cui si componeva si aprivano tutte sul corridoio, tre di qua e tre di là: cucina, studio medico, sala emergenze, deposito barelle e una grossa sala a due postazioni.  E bon.

Ti sedevi in corridoio e le tenevi d’occhio tutte. Con uno degli internisti, che spesso faceva la notte, ci si intendeva bene. Di buona favella, grande e grosso era di una simpatia immediata, e schietta. Molto colto, aveva fatto già un po’ di tutto in ospedale: l’internista, il neurologo, il trasfusionista, il gastroenterologo, a seconda di dove c’era bisogno. Verso le undici, quando non c’era casino, andavamo a sederci in portineria di fronte alla bollatrice. Si salutava un po’ chi andava e veniva, essendo l’ora del cambio, e intanto ci si faceva un idea della geografia interna dei reparti. A seconda di chi montava capivi se si poteva andar a fare due chiacchiere o era meglio girare alla larga, se c’era accesso al frigo, oppure se si sarebbero barricati dentro.

Erano tempi in cui si cominciava a parlare di BLS, e un mattino, era sceso in Pronto il nuovo primario, fresco di studi dall’America e da lui avevamo visto, per la prima volta, con meraviglia, applicata la tecnica del massaggio cardiaco, che fino al giorno prima ci eravamo immaginati un po’ così a modo nostro, con i gomiti piegati e a livello del letto, qualche colpo e via… ci abbiamo provato, ma… il cuore non ha retto…

Vedemmo il nostro capo pompare come un forsennato su una panchetta rialzata per venti minuti, braccia tese e spalle perpendicolari, dopo avere intubato il paziente, sparando fiale di adrenalina nel tubo, senza stare a perder tempo a mettere flebo impossibili da mettere; e il cuore del paziente era, miracolosamente (a nostra impressione) ripartito…

Degli stessi anni, ricordo un ragazzo con una ferita penetrante sino al pericardio; oggi l’avremmo portato in cardiochirurgia (se ci arrivava) ma allora per lui toccò cercare il chirurgo bravo, ma che non si trovava, niente telefonini ancora.

Poi a qualcuno era venuto in mente di andarlo a stanare nella garçonniere che aveva nel condominio di fronte. E lì l’aveva effettivamente trovato, con la nuova infermiera appena entrata in servizio (ma quello era un altro tipo di servizio…). Lui venne, ricucì gli strati con una calma ed una perizia impareggiabile, e alle tre di mattina si ritirò a finire i discorsi iniziati.

C’erano, a volte, notti tranquille.

Herbert Asch

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