Archive for giugno, 2012

Il signor P.

Posted by Nuur on giugno 26, 2012
cronache / 2 Commenti

foto di DB

foto di DB

Un enorme mostro sibilante, simile a una nuvola nera, stava per ghermirla.
“Sofia, scappa!”, urlai con tutte le mie forze.
Sofia invece si girò, nel suo camice immacolato, brandendo uno stetoscopio dorato come una fionda. La nuvola di oscurità si avvicinava, con un rumore di unghie sulla lavagna. Sofia caricò le gambe e prese a roteare la sua unica arma. Iniziò ad alzarsi polvere da terra.
“Oggi vinco io”, si lasciò sfuggire, tra i denti digrignati.
Quand’ecco, la nuvola accelerò improvvisamente, si alzò turbinando, si aprì e si richiuse su di lei come la bocca di un lupo.
“No!”, urlai, e caddi dal letto.

Ore? 4:35 della mattina. Emicrania? Presente.

Ottimo.

Mi rannicchiai un po’ scossa cercando di riprendere sonno tra le lenzuola. Ovviamente mi riaddormentai tardi e mi svegliai quando avrei dovuto essere già lavata e vestita da un pezzo.
Arrivai catapultata in ospedale, con ancora su le scarpe normali, quattro chili di cose inutili nelle tasche del camice e una faccia da culo inenarrabile. Sofia stava già attraversando i corridoi, con il passo nervoso e balzellante di un capriolo. Faceva le scale a due a due. Rampe e rampe. Ogni giorno.
Inutile dire che noi tirocinanti arrancavamo dopo cinque minuti, supplicandola di rallentare, con ogni improbabile scusa: “Vado a prenderti le cartelle”, “Guardo se il 15 si è svegliato”, “Aspetta, mi metto l’amuchina che mi ero dimenticata”.
Lei era già trenta metri più in là, a spiegare gli esami e i farmaci alla caposala. Aveva fatto la notte di guardia, e non aveva chiuso occhio. Dolori, coliche, dializzati. Un signore aveva pure pensato bene di iniziare a sanguinare dal colon come se fosse stato il Gange, così diceva. Fuggì in sala cucina, ingoiò un cioccolatino (l’unico cibo che l’avessi mai vista ingerire) e si annegò nel caffè. Mi batté un dito sulla spalla e senza dire niente si lanciò giù nel reparto chirurgico.

“Dai, dottoressa. Esame obiettivo ”, fece a me.

Il signor P. era un pinco pallino. Il prototipo del pinco pallino. Un ometto piccoletto, spelacchiato, con un po’ di baffi, delle grandi orecchie e degli occhi terrorizzati. Non esattamente il paziente ideale. Bombardava Sofia di domande. Era riuscito a recuperare tutti i suoi dati clinici da quando aveva 15 anni a ora. Quarant’anni di fascicoli troneggiavano come una torre sul suo comodino. Sofia deglutì sonoramente, poi andò a cercare il chirurgo, con me al seguito.

Nessuno riusciva a capire quando sarebbe stato operato.
Il signor P. inizialmente era stato un paziente oncologico, ma nel corso delle analisi dell’anestesista pre-intervento, gli avevano trovato un vizio vascolare troppo serio per essere messo sotto i ferri. La presa di posizione era categorica: niente rimozione di tumore, se prima quel difetto non fosse stata sistemato. Venne allora sparato in chirurgia, sennonché gli venne trovato pure un altro problema ancora e lo appiopparono agli interni di medicina.
Il signor P. era parcheggiato nel limbo da quasi due settimane. La situazione non si sbloccava. Non saliva nelle liste chirurgiche perché c’era quell’organo che non andava, non veniva operato al tumore perché quel vizio vascolare non era apposto.
E quel povero pinco pallino, da quando era stato affidato ad Sofia, cioè circa tre giorni, si aggrappava al bordo del suo camice, le stringeva le mani, dicendo sempre le stesse parole: “Dottoressa, il mio cancro…”, e sgranava gli occhi neri pieni zeppi di paura.

Effettivamente il suo tumore non era una cosa serissima: era trattabile, poco metastatico, a crescita lenta. Ma vai a spiegarlo te a uno che rimane nella stessa stanza, senza informazioni, per due settimane.

Sofia uscì il terzo giorno da quella stanza sbattendo la porta malamente. Con un dito mi disse di seguirla in pausa cicca, dove il mio compito era per lo più vederla pensare in silenzio, mentre tirava grandi boccate nervose. Con i capelli raccolti alla meno peggio, due ricciolini da rabbino davanti alle orecchie e due occhi strizzati di stanchezza, ma acuti e furbi come quelli di un animale selvatico.
Infatti, mentre fumava, ebbe un lampo. Un lampo da faina o da lupo. Dilatò le narici, fissando sempre di più un punto, seguendo l’incalzare dei suoi pensieri, chiuse gli occhi, gettò la cicca e corremmo assieme di nuovo in reparto.

Attendemmo il pomeriggio, quando aveva dato appuntamento all’oncologo, dandogli a credere di un improvviso aggravamento della situazione, per scuoterlo del suo torpore. Vedendo il paziente in buona salute il medico rimase di sasso, mentre Sofia si limitava a sogghignare.
“Ma sta benissimo!”, esclamò lo smilzo dottore.
“Già. Per ora”, rispose lei. “Venga”.

In mezz’ora, parola mia, tra suppliche, critiche e problemi etici, lei riuscì a far vergare da quel dottore tali parole: “Ottima prognosi se operato, probabile repentino aggravarsi se non operato entro due mesi”. Non era vero. Pinco Pallino poteva resistere ancora sei mesi, forse più. Non capivo perché stesse aggravando così il quadro di un paziente che già a vederlo stava bene. Ma poi vidi l’occhiolino di Sofia e mi zittii.
Ci congedammo davanti a una panzona che preferiva la morte piuttosto che mangiare lo yogurt dell’ospedale, e mi disse stringendo la carta: “Adesso vedi come metto fuoco ai culi”.

L’indomani tutto il gran galà dei camici immacolati si era riunito in camera del Signor P., e tra salamelecchi vari, e supponenti domande verso la giovane dottoressa responsabile, venne portato trionfante su un’inutile, ma scenografica sedia a rotelle verso il reparto di anestesia. Nel pomeriggio venne operato in pompa magna, con chirurghi brizzolati e medici leccati che si vantavano con la caposala di averlo “salvato” da un’inesorabile sorte.

Sofia era rimasta nella stanza vuota del signor P., a compilare la grafica, nella penombra. Improvvisamente la pila d’inutili fascicoli medici franò giù dal comodino. Recuperandoli, presi molto coraggio e chiesi: “Sofia?”
“Mhm?”
“Perché hai truccato la consulenza, poteva farcela ancora un po’. Il suo tumore non è così grave”.
Lei mi guardò seria e nervosa, come sempre e poi mi disse: “Però la sua paura lo era. Hai visto che lo stava mangiando”, e tra le pratiche cadute a terra raccolse un piccolo coltellino svizzero, aperto, affilatissimo.

“Non ti eri accorta dei polsi al primo giorno?”, mi chiese senza guardarmi.

Io rimasi stupefatta, con una vaga voglia di piangere. Lei restò in silenzio, agganciò la grafica al letto e poi, guardando la finestra nera, disse: “Dai che è tardi, vai a casa. Hai tutta la vita davanti per stare qua dentro”.
Quella notte sognai di nuovo il mostro, ma stavolta lo stetoscopio diradava la polvere nera… e in mezzo c’era il Signor P., in pigiama, che tutto sorridente tornava a casa senza paura.

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Tra Me e T(h)e

Posted by Bellerophontes on giugno 26, 2012
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Ci sono momenti, camminando per il girone infernale che è il “logistico” del pronto soccorso di un grande ospedale in cui, uscendo per la tua meritata e nociva sigaretta delle tre del mattino, un attimo prima dell’alba, ma ancora troppo vicino alla notte, la scienza si arrende all’umanità, alla paura di chi soffre, segretamente intersecata alla tua di fallire.

C’era V.

Siriano, lineamenti nobili, antichi, gentile nel parlare, seguito dai servizi psichiatrici.

C’erano i rossi, la battaglia da vincere in cinque minuti (se va bene), ma c’erano anche verdi, come V.

La sua bottiglietta di the era caduta nel canale e lui a ruota per recuperarla, fa caldo hai sete e l’acqua serve due volte quando cammini in un paese che non conosci, di cui non conosci la lingua, e dove molte persone avranno approfittato della tua situazione per toglierti quella già poca fiducia, incarcerati dai buoni, sfruttati dagli stronzi.

V. voleva solo la sua bottiglietta di the; quando i pompieri lo hanno estratto dal canale la brandiva come un trofeo.

ANAMNESI/EO: pz pallido, ipotermico, rispescato dopo mezz’ora dalle gloriose acque del B. Temperatura rettale 35, iperteso (ok non morirà qui) e…

ma questo non lo trovi sui libri di semeiotica, uno sguardo di chi nel dolore e nella malattia, lascia trasparire solo il bisogno di aiuto.

Si alza, barcolla e non è il Diazepam, è la vergogna. La vergogna di chi è caduto in un fiume che francamente puzza di merda. Pare un quadro, un erede di una tradizione millenaria di fughe e persecuzioni, di violenze inaudite a tre ore di comoda business class da questo ospedale.

Torno.

V. non è più sul suo lettino, è stato spostato, sapete c’è chi ha la Porsche fuori ed è piuttosto seccato perché i suoi bizzarri compagni di sala d’attesa non sono proprio il tipo di personaggi con cui si accompagna. (anche se forse alcuni li incontra ogni sera per essere più bravo, più attivo e produttivo la mattina, mah…)

Mi avvicino e vedo che ordinatamente, con garbo appoggia i suoi luridi vestiti sul termosifone -spento- nella speranza che si asciughino.

“V, ma perché li metti ad asciugare li!?”

“Non ne ho altri dottore, domani lavoro e non posso permettermi di perdere il lavoro”

“E perché perdi il lavoro V.?”

“Perché fa freddo e mi ammalo, non possiedo altri vestiti né una casa”

Io e te, V. condividiamo più del 99,5 % dei nostri geni, delle nostre vie biochimiche, della nostra fisiopatologia.

Lo condividiamo anche con il povero vecchio dall’ospizio col suo bel tappeto di batteri nelle urine, con il professore con la colica renale, con il tossico che ha bisogno di un po’ di metadone, morfina, contramal, tachidol, che comunque non gli daremo.

Ma tu non hai bisogno di questo: una coperta di lana, i vestiti in sala lavaggio e, meglio del diazepam, qualcuno che si siede al tuo letto ed è disposto ad ascoltarti, instaurare un rapporto umano semplicemente dandoti di che coprirti ed un the caldo, come solo le infermiere dolci e bellissime di certi ps sanno fare. Dormi V., io sto smontando dalla notte, un tuo ultimo sguardo, lungo, silenzioso, il tuo sorriso ha il sapore della gratitudine, il mio…beh il mio non lo so, dimmelo tu.

Bellerophontes

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Flash nel buio

Posted by Raven on giugno 11, 2012
emozioni / 4 Commenti

Te lo sei chiesto. Te lo chiedi di volta in volta, ad ogni turno, ad ogni paziente, ad ogni paio di occhi che incroci sulla tua via.

Eppure, dopo anni tra corsie ed ambulanze ancora non lo vuoi capire, o più semplicemente, non ti arrendi.

-Respira?-

No, ovviamente. E cosa diamine vuoi che respiri uno che è in arresto da almeno sette minuti, dottore?

Quel torace che speri si sollevi spontaneo all’improvviso, lo stesso che tu, per assurdo, in quel momento stai comprimendo verso il basso, con così tanta forza da sembrare quasi di volerlo schiacciare sotto la tua mano, così grande su un petto che ti sembra troppo piccolo per poterla contenere.

Gli ossimori di questo lavoro, gli ossimori della vita stessa.

Un attimo prima stai scherzando con i tuoi cari, un attimo dopo è il destino che fa uno scherzo a te.

L’ambulanza che arriva a sirene spiegate in quella folle lotta contro il tempo e contro il buio, noi che lottiamo insieme a te e ti chiediamo di non arrenderti proprio adesso.

Tu mi guardi per un attimo, il medico ti infonde l’ennesima adrenalina, il monitor bippa, tutti che si muovono frenetici intorno a te, io che non mi fermo e continuo a lasciarti i segni delle mie mani così grandi.

Non posso fermarmi adesso che ci stai guardando, non posso permettere al buio di prenderti ora che la luce è tornata nei tuoi occhi.

Abbiamo vinto insieme questa dannata corsa, oggi?

Cerchi di alzare un braccio, poi ci ripensi: rimane sospeso a mezz’aria per qualche attimo in silenzio, finchè non ricade abbandonata sul letto.

Il medico urla che vuole altra adrenalina, altra elettrolitica e altro di altro di tutto, ma è passata più di un’ora e il braccio è rimasto sempre così, immobile nella posizione in cui l’hai lasciato tu.

È calata la notte anche stavolta.

Raven

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