Archive for luglio, 2009

l’uomo dalle otto pompe

Posted by il Catalano on luglio 23, 2009
cronache / 4 Commenti

L’altro ieri ho fatto la mia seconda guardia in UCIC. A differenza della prima guardia, questa volta i pazienti erano, come se fosse possibile, ancora più critici. C’erano due intubati, tre avevano un contropulsatore aortico. Gente più di là che di qua, tutti giovani o giovanissimi.
Prima di andare a dormire, sulle 2, faccio un giro per vedere come stanno i pazienti. Finché entro nel Box 2, dov’è ricoverato un uomo di cinquantotto anni (l’età di mio padre), che poco più di ventiquattro ore prima stava tranquillamente guidando la sua auto in un paesotto di provincia, quando di punto in bianco il suo cuore si ferma. Passano i minuti, arriva l’ambulanza medicalizzata, quella per i casi più gravi. Il paziente è in fibrillazione ventricolare: una scossa, niente, due, niente; adrenalina, atropina, amiodarone, dopamina, intubazione orotracheale; tre, quattro, cinque, sei, sette, otto scosse… C’è un ritmo! In tutto sarà stato morto una mezz’ora. Lo portano all’ospedale. Là perde il polso, si sospetta una dissociazione elettromeccanica, altro massaggio cardiaco, adrenalina e noradrenalina. C’è polso.
Nell’ECG un blocco di branca sinistro non conosciuto. All’ecocardiogramma un cuore ridotto a una poltiglia, stordito dall’ischemia, incapace di contrarsi bene. Il paziente è in un ospedale di provincia, Catalogna profonda: emodinamica? figuriamoci! Si fa fibrinolisi e trasferimento urgente al mio ospedale, nella capitale.
Arriva il paziente, è già notte fonda. L’emodinamista reperibile è già arrivato. Nel bel mezzo dell’ordinato caos della preparazione all’angioplastica primaria, trova il tempo, con la fredda professionalità di chi ha compiuto quei gesti migliaia di volte, di includere il paziente in un grande trial che verrà prossimamente pubblicato in un’importante rivista.
All’angiografia si nota che sia la discendente anteriore che la coronaria destra sono severamente ostruite, per cui vengono messi tre stents nella prima e uno nella seconda. Siccome il paziente è in shock cardiogenico, si mette anche un contropulsatore aortico.
Il paziente arriva in UCIC, dove viene ricoverato e stabilizzato. Come complicazione (come se non bastassero già la morte improvvisa e l’infarto massivo con shock cardiogeno), un’emorragia digestiva alta.
Tornando a noi, entro nel Box 2, e mi trovo di fronte una di quelle scene a cui mi dovrò presto abituare: paziente sedato e intubato, nudo, impotente e incosciente della sua condizione, migliaia di lucine lampeggianti, e bip-bip dei vari monitor, pompe di infusione, respiratore e contropulsatore aortico. Sembrava un albero di natale, con tutte quelle pompe appese ai pali. Otto pompe che gli infondevano, con metodica regolarità, la dobutamina, adrenalina, noradrenalina, eparina, pantoprazolo, insulina rapida, soluzione glucosata e midazolam che lo facevano rimanere aggrappato alla vita. Una vita che aveva cercato di sbarazzarsene, ma grazie all’impegno, al sudore e all’incrollabile dedizione di medici e infermieri era stato strappato alla morte e riportato nel mondo dei vivi.
A quel punto, nella mia inesperienza di neo-specializzando del secondo anno, mi sono detto: “ma se succede qualcosa, cosa posso fare io per questa persona?”. Sono andato a dormire, inquieto.
Avevo freddo, così mi sono rifugiato sotto il lenzuolo e la coperta sintetica del letto del medico di guardia, come se potessero difendermi da quella situazione così critica che avevo appena visto.
E mi sono sentito piccolo piccolo, insignificante, di fronte al duro e spietato mondo che c’era là fuori…

il Catalano


storie importanti (3)

Posted by il guardiano on luglio 14, 2009
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[…] Partendo dal postulato che causa diretta dell’arresto temporaneo o permanete della vita fosse la coagulazione di taluni elementi e composti del protoplasma, aveva isolato le varie sostanze sottoponendole a numerosi esperimenti. Siccome l’arresto temporaneo dell’energia vitale in un organismo porta al coma, e un arresto permanente alla morte, lui riteneva che con mezzi artificiali tale coagulazione del protoplasma si potesse ritardare, prevenire e addirittura vincere nei casi finali della solidificazione. Insomma, accantonando la terminologia tecnica, sosteneva che la morte, qualora non violenta e laddove nessun organo vitale risulti leso, è soltanto energia vitale interrotta; in un caso del genere, adottando i metodi appropriati, si poteva indurre la vita a riprendere le sue funzioni. Questa dunque la sua idea: scoprire il metodo – e verificarne sperimentalmente la possibilità – di restituire l’energia vitale a un organismo che la vita sembrava aver abbandonato.
[…] Una volta che fu tutto pronto, venni ucciso da una massiccia dose di stricnina e lasciato morto per una ventina di ore. Per tutto quel lasso di tempo il mio corpo rimase morto, assolutamente morto. Respirazione e circolazione cessarono del tutto; ma la cosa spaventosa fu che, mentre era in atto la coagulazione protoplasmatica, io ero cosciente, e in grado di studiarla in tutti i suoi raccapriccianti particolari.
L’apparecchio usato per riportarmi in vita era una camera a tenuta d’aria, fatta in modo da contenere il mio corpo. Il meccanismo era semplice: qualche valvola, un albero rotante, una manovella e un motore elettrico. Quando era in funzione, l’atmosfera all’interno era condensata e rarefatta a fasi alterne, consentendo così una respirazione artificiale ai polmoni senza dover ricorrere ai tubi usati in precedenza. Pur con il corpo inerte e, per quel che ne sapevo, ai primi stadi della decomposizione, non mi sfuggiva niente di quanto succedeva. Mi resi conto di quando mi misero nella camera e, pur con i sensi sopiti mi accorsi delle iniezioni ipodermiche a base di un composto fatto per reagire al processo di coagulazione. Poi chiusero la camera e il meccanismo si mise in funzione. Ero in preda all’angoscia: ma la circolazione tornò pian piano normale, i vari organi ripresero a svolgere le rispettive funzioni, e nel giro di un’ora consumavo un lauto pasto.
(da “Le mille e una morte” di Jack London).

il guardiano

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come l’acqua del fiume d’estate

Posted by Morris on luglio 04, 2009
cronache / 2 Commenti

E’ giunto quel momento della notte in cui ci si può chiudere in stanza e pensare di stendersi sul letto a cercare di dormire un poco.
L’attività nei reparti è come congelata, e si sente solo il borbottio dei gorgogliatori dell’ ossigeno, lontano e sommesso. Lontano, forse due piani più sotto, un anziano allettato ripete il suo lamento, ormai, più che disperato, stanco e poco convinto.
Sì, sarebbe bello stendersi, chiudere gli occhi, e dormire di quel sonno profondo che riuscivi a ritagliarti anche nelle notti peggiori quando eri un poco più giovane. Adesso è diventato più difficile. I pensieri si sovrappongono, si intrecciano, idee che magari durante il giorno ricacci in seconda linea nel silenzio della notte affiorano e ti legano a loro, allontanandoti dal sonno.
Allora accendi la televisione, con il volume azzerato, e cominci a scorrere i canali: vecchi film, televendite, una ragazza in body trasparente che risponde a un telefono erotico; ha uno sguardo assonnato e pieno di disincanto, e mi viene da pensare che anche lei in fondo indossa una divisa e sta svolgendo un turno di guardia di notte.
Il telefono che suona, con quel suono che di notte ti sembra ancora più odioso. Medicina, stanza 312, il paziente del letto A è peggiorato.
Una volta in reparto, tardo poco ad accorgermi che la situazione lascia ormai poco spazio di manovra. Carcinoma polmonare con impegno mediastinico e metastasi ossee. Saturazione e pressione in calo. La Medicina tecnologica, con le sue sale operatorie lucenti, i suoi apparati di radioterapia, i suoi chemioterapici da migliaia di euro a fiala ha perso la guerra, e ora si sta ritirando in buon ordine, lasciando il compito delle ultime azioni di retroguardia al nostro piccolo reparto di Medicina geriatrica.
Guardando i suoi dati, mi accorgo che il paziente proviene da un paesino dell’Appennino dove da bambino passavo spesso l’estate.
Probabilmente l’ho anche incrociato allora, in quel piccolo borgo ci si finisce per conoscere tutti. Difficile però riconoscerlo ora in questo volto emaciato e contratto.
Chiedo agli infermieri se ci sono familiari da contattare per informarli del peggioramento. Mi rispondono che Bandini, il nostro paziente, è vedovo e senza figli. Il parente più prossimo è un nipote, che però è “sceso a valle” dall’altro lato dell’ Appennino, e se anche gli telefoniamo, certo non si mette in macchina a quest’ora di notte.
Bene, Bandini, sei venuto qui da noi per combattere, e perdere , la tua ultima battaglia tutto da solo.
Mentre gli appoggio lo stetoscopio sul torace, apre gli occhi e mi guarda, e nel suo sguardo si intuisce, più ancora della sofferenza, la paura. E quella paura lo congela, lo ancora alla sua condizione di agonico, gli impedisce di lasciarsi andare: andare verso un ignoto che gli appare più terrorizzante di quella stretta che lo soffoca, di quel dolore che gli scava le ossa.
Chissà come, in quel momento, mi torna in mente il ricordo di una estate assolata passata nel suo paese.
Di una corsa di bambini lungo un sentiero sterrato, verso il fiume; a un certo punto la strada si perde in mezzo al verde, e precipita giù nel rivale, in una pendenza che ai miei occhi di bambino appare un ostacolo insormontabile. Ci blocchiamo, finché uno di noi non prende la rincorsa e si getta lungo la discesa. Pochi secondi , e poi occhieggiando fra i rami, lo vediamo in fondo al pendio, che si sbraccia per invitarci a seguirlo: “Forza, la discesa non è poi così ripida, e l’acqua qui è freschissima”.
Socchiudo gli occhi, mi lancio anch’io lungo il pendio, trattenendo il fiato, e in un attimo sono alla riva del fiume, e il brivido delizioso dell’acqua ancora fresca di sorgente è il premio del coraggio.
A quel pensiero sorrido.
Lui vede il mio sorriso, senza capirlo, e in quel momento mi viene da pensare :”Lasciati andare, Bandini, non è poi così ripida la discesa, e l’acqua del fiume in fondo è fresca”.
Chissà, forse nel silenzio della notte , in cui un sussurro sembra un grido, un pensiero può essere percepito come un sussurro.
Si, certo, è senz’altro l’effetto della morfina che ha cominciato ad infondere, eppure, quando vedo il suo volto distendersi, e il respiro farsi meno affannoso, mi viene da pensare che Bandini mi abbia sentito, e che ora, chiudendo gli occhi, non più spaventati, sogni di correre verso il fiume della sua e della mia infanzia.
Un ora dopo la solita routine. Tanatogramma, ISTAT, chiusura della cartella, la telefonata al nipote, che mi risponde con una voce assonnata e assai poco coinvolta, le frasi di rito, sempre quelle: “Ha finito di soffrire, è stata una cosa rapida, cosa dice, vuol sapere se se ne è reso conto?” Ma certo , coglione, che se ne è reso conto; ma come, sempre, faremo finta di no, la solita negazione dell’evidenza che mettiamo in scena a beneficio dei pazienti terminali e, soprattutto, dei loro congiunti.
Esco sulla terrazza all’ ultimo piano, per respirare un po’ di aria fresca. Fuori, comincia a trasparire una luce rossastra, in direzione del mare. I monti, all’estremità opposta dell’ orizzonte, rimangono ancora una massa scura, avvolta nell’ombra.

Morris

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