Archive for maggio, 2013

La Solitudine delle Ombre

Posted by Gavino on maggio 31, 2013
emozioni / Nessun commento

foto di GP

foto di GP

Entrare in reparto e chiudersi la porta alle spalle. Pensare che la sofferenza è racchiusa in quell’ambiente asettico e denso di odore che sa di dolore e sofferenza. Ma non è cosi…

 

La notte i pensieri incalzano e speri che arrivi un’urgenza per rifugiarti tra adrenalina e contropulsatore… ma non e’ cosi… la notte guardi fuori dalla finestra del reparto, se sei fortunato ad averne una, e rimani in questa sorta di “indifferenza”. Il mondo là fuori con le sue luci, che continua imperterrito la sua corsa e tu in questo reparto così lontano da questo mondo. Quanta gente, ognuna con la propria storia da vivere e raccontare… quanta gente… che ti sembra completamente indifferente quando fa parte del mondo fuori, ma che diventa parte di te stesso, della tua vita quando diventano pazienti e sono lì… sedati… intubati; ognuno con la propria storia da vivere, raccontare.

La notte strappa i ricordi e ti fa pensare… riflettere… i rumori degli allarmi al monitor sono i tuoi compagni di viaggio. La malinconia che traspare da quelle ombre ti ingloba ed allora pensi… pensi ai tuoi sbagli, alle tue paure, ai tormenti della tua coscienza che non devono trasparire dai tuoi gesti, dal tuo viso. Ma le ombre ci sono, ti accompagnano fino alla fine del turno e quando vedi la luce della notte schiarirsi dalla finestra pensi che sei quasi alla fine del tuo turno e che forse il sonno riuscirà a darti un po’ di pace e di riposo per affrontare un’altra notte in un luogo che non può essere diviso tra quello che sei e quello che fai….

 

Gavino                      

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Lettera a Gi

Posted by Picu on maggio 20, 2013
testimonianze / 5 Commenti

Foto di AC

 

Ho conosciuto una ragazza motivata e seria, che inspiegabilmente vuole fare il mio mestiere, con determinazione proprio il mio. Proprio come dire la mia sottospecialità. E vuole pure venire da me, ad imparare (??) (sì, ho colleghi molto bravi). Insomma, io che sono quasi commossa da tanta determinazione e volontà, dovrei metterla in guardia, perchè lei ancora non sa bene cosa la aspetti.

Cara Gi, dovrei dirti che è un mestiere pericoloso, e stancante. Che starai in piedi sempre, e la sera avrai le caviglie a puntaspilli nonostante le calze supercompressive che imparerai a mettere immediatamente. Che quindi ti verranno delle venazze. Che non avrai orari regolari, e mangerai quando capita, e vivrai di caffè se va bene, e quindi avrai la gastrite cronica e ingrasserai perché quando poi arrivi sul cibo ti ingozzerai famelica di tutto quel che ti passa sott’occhio. Scordati di andare in mensa a mangiare verdurine cotte e risino in bianco. Che farai milioni di notti e sarai sfasata, e stanca, ma così stanca da non riuscire a dormire mai per la troppa adrenalina. Quindi sarai incazzosa, e chi ti sta accanto, se non fa proprio proprio il tuo stesso mestiere, non capirà questa tua stanchezza, e alla fine si stuferà di te, dei tuoi orari, delle tue lune, della tua mente impegnata altrove, e se ne andrà, probabilmente, o resterà ma non ti capirà. Sì, perché solo chi fa la stessa cosa può capire che la tua mente non si allontani mai dall’ospedale, dai pazienti. Che tu ripensi ansiosamente a cosa hai probabilmente sbagliato, sperando non sia troppo grave. Che ripensi a quel che si sarebbe potuto fare in più e meglio.

Dovrei dirti che dovrai imparare a tirar fuori le unghie, e litigare spesso con colleghi di altre specialità, specie quelli che stanno dall’altra parte del telino, finchè almeno non avrai conquistato la loro fiducia assoluta e si fideranno di te anche se gli rimandi un intervento. Ma passeranno anni prima di allora. E fino ad allora, dovrai essere inflessibile, non cedere a lusinghe o ricatti, e ti tratteranno male, sai, ma molto, e ti verrà la tentazione a volte di piangere umiliata, ma non lo dovrai mai e poi mai fare, o avrai perso in partenza. Dovrai fingere coraggio e spavalderia anche quando sarai pietrificata dalla paura, dentro di te, e controllare il tremito alle mani, e agire in fretta, mentre tutti ti osservano, perchè tanto, non tocca a loro quel lavoro di merda. Perchè non si può non aver paura, ad avere in mano la vita degli altri.

E a fronte di tutto questo, non verrai mica pagata tanto, sai? Non è come nel romanzo “la casa di Dio”, in cui negli svantaggi dell’anestesista si dice “noia inframmezzata da panico” ma nei vantaggi ci sono “soldi soldi soldi”. Qui non siamo in America, e i soldi non si fanno. Ne farai uguali ad un medico di base che ha lo studio tre ore al giorno, e a tutti quegli altri che hanno un decimo delle tue responsabilità. Ma l’assicurazione, quella ti costerà uno sproposito, invece. E ti gireranno i coglioni, oh se ti gireranno.

Dovrei anche dirti che non è vero, come forse pensi ora entusiasticamente, che se studi come una bestia poi saprai sempre cosa fare. Non è vero, e poi, non si studia mai abbastanza in questo lavoro. Non è nemmeno vero, come speri, che poi ad un certo punto interverrà l’esperienza, il senso animale del problema, ad aiutarti: succederà, un pochino, ma non sarà mai abbastanza.

 

Però poi, cara Gi, dovrei anche essere onesta, e dirti che ci sono momenti che non potrai mai dimenticare nella vita, alla stessa stregua della nascita di un figlio. Ci saranno, raramente, momenti in cui capisci che il paziente ha virato, e da lì in avanti migliorerà, e avrete schivato la fine ad un pelo dallo schianto. Sono momenti che non ti dicono i numeri scritti sul monitor o sulla carta, ma te lo dice il fiuto. Ci sono momenti in cui chiamerai dentro i genitori e gli farai vedere che stubi il bambino e lui dirà mamma, per la prima volta da troppi giorni, e piangerete tutti di gioia. Ci saranno le albe viste da una rianimazione, che sono diverse, perché sono quando tu stai per cedere e ti viene in soccorso la luce, finalmente, e il caffè, ultimo di una lunga serie ma primo del nuovo vero giorno, e ti torna la forza di tirare altre due ore, e sei soddisfatta, perchè siete ancora tutti lì. Ci saranno momenti in cui i bambini che hai visto su un letto pieni di tubi e sul filo del rasoio torneranno a salutare, anni dopo, perfetti. Ci saranno le mamme con cui ti darai del tu e scambierai i  numeri di cellulare e vi scriverete messaggini. Ci saranno tutti i momenti in cui sarai di guardia e i tuoi colleghi ti scriveranno sms negli orari più impensati per sapere come va quel tal bambino lì. Ci saranno le volte in cui incontrerai al mercato qualche persona che ti farà le feste e tu non ricorderai forse chi sia, ma il viso un po’ sì, e ti si rischiarerà la giornata.

Insomma, cara Gi, non sarei onesta a tacerti tutto questo: perché poi, è quel che fa andare avanti, altrimenti, no, non ne varrebbe proprio la pena.

Picu

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Primavera

Posted by Gavino on maggio 16, 2013
emozioni / Nessun commento

 

foto di GP

foto di GP

Essere presenti… empatia, assertività, quante parole così difficili da capire e così facili da poter essere dimenticate dopo tanti anni passati tra sofferenza, dolore, malattia. Ma non è vero… sono sempre presenti, nascoste; puntualmente saltano fuori e si materializzano ogni volta che mi ritrovo a pensare alla tragedia dei familiari dei miei pazienti deceduti. Il colloquio con i parenti per dire che il loro caro è deceduto o che non c’è più nulla da fare.

 

 

Lo so… non vorrei essere lì… è troppo alta l’emozione e cosi anche l’imbarazzo, perchè vedere altre persone straziate dal dolore ti fa abbassare gli occhi a volte… Ma prendi un bel respiro e ti fai forza mentre li accompagni dal loro caro e allora ti assale la paura. La paura di vedere scene di dolore che non vorresti.

“la rappresentazione del dolore e’ personale” mi dico, ma mi sento in imbarazzo nel vederla, viverla nel mio contesto professionale, soprattutto quando a morire è un ragazzo di sedici anni.

Finito il turno esco e mi accendo una sigaretta, faccio un tiro profondo… alzo gli occhi al cielo e mi dico: “che bella stellata stasera… è quasi primavera”.

Mi incammino verso la macchina e non posso fare a meno di pensare a come sarà la vita delle persone alle quali il destino ha portato via i propri cari.

Questo lo sto già vivendo mi dico… perchè io sono unico ma non diverso da tutte le persone che incontro e che incontrerò nel cammino della mia vita.

 

Gavino

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Primi giorni di lavoro!

Posted by Mama Killa on maggio 12, 2013
cronache / 1 Commento
foto di MFR

foto di MFR

Primi giorni alla struttura. Sono già a conoscenza del movimento rutinario del lavoro e cerco di concentrarmi sulle cose da fare. Sto facendo il mattino e dopo la terapia restano cinquemila cose in sospeso, ma… ma ho lasciato il bimbo con la tosse…

Mio marito valutava se portarlo all’asilo, ma quella tosse la conosco. Mannaggia, avrà fatto bene a mandarlo all’asilo? Lui diceva che non ne aveva tanta quando l’aveva portato… speriamo.

10 e 30 del mattino, squilla il telefono. La maestra:

-Signora il piccolo ha la febbre, lo venite a prendere?-

Nooo, mi è crollato tutto. Come ha potuto lasciarlo senza accorgersi della temperatura del bimbo? (i mariti ….) Quanto può darmi lo stipendio in confronto alla salute del mio piccolo? Tutte queste domande mi circolavano per la testa e nel frattempo avevo già telefonato a mio marito dicendogli di andare a prenderlo. Ad un tratto, ero in infermieria e sento:

-permesso, signorina posso chiederle una informazione?-

I miei pensieri non mi lasciavano tranquilla e mentre l’orecchio destro ascoltava l’ospite, il sinistro ascoltava la mia testa che mi bombardava di reclami. Ad un certo punto però sentii solo una cosa (udito selettivo)

-Ma io ho il cancro?? Me lo dica lei per piacere…”-

Fu l’orecchio sinistro a prevalere perché i miei occhi si riempirono di lacrime e iniziai a piangere davanti a lui.

Col cuore in mano era venuto a chiedermi quello che ne ai suoi ne al medico aveva avuto il coraggio di chiedere. Io gli risposi

-Mio figlio ha la febbre ed io sono qui!-.

Con questa risposta alla sua domanda lui mi prese la mano e disse

-Ma non si preoccupi, c’è qualcuno con lui ? Suo marito, sua suocera?-.

Dissi di si, con la testa bassa senza il coraggio di guardarlo, perché in fondo sapevo che non era professionale e che non lo stavo aiutando. Avevo perso il controllo, ma in quel momento era venuta prima la mamma che l’infermiera. Lui continuò e mi disse:

-si vede che è la prima volta che lo lascia a casa ammalato, andrà tutto bene. Manca poco per la fine del turno, stia tranquilla che il suo bimbo non è da solo.- Dopo poco si girò con la carrozzina e si allontanò.

Un’ora dopo la terapia di mezzogiorno, era in sala pranzo col viso sorridente che chiaccherava con la moglie. Non mi chiese più niente ed io neanche, mi guardò solo con uno sguardo dolcissimo, uno sguardo di nonno…

Fu la prima volta: “Lavoro- bimbo malato”… ormai sono già una mamma che cura l’influenza anche per telefono…

Mama Killa

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Fluttuando a mezz’aria

Posted by Osyride on maggio 07, 2013
cronache / 1 Commento

foto di MFR

La Centrale 118 ci invia in codice rosso in una via poco distante dalla nostra sede per un problema di tipo cardiocircolatorio, è in arrivo anche l’automedica.

Guardo sulla mappa qual è la via, esco ad avviso il mio autista che dobbiamo uscire per un codice rosso.

Sinceramente non ho pensato al peggio, credevo che fosse la classica perdita di coscienza – magari già risolta al nostro arrivo.

Neanche il tempo di accendere le sirene e siamo sul posto.

Portiamo giù tutto il materiale: zaino, ossigeno e DAE; entriamo nella casa, saliamo le anguste scale ed arriviamo nell’appartamento. Troviamo un signore seduto su una sedia, in evidente arresto cardiaco. I parenti presenti ci riferiscono che si è accasciato da pochi minuti, non è cardiopatico e non aveva lamentato dolori o malesseri particolari.

Lo sdraiamo sul pavimento, scopro il torace e, finché avviso la Centrale 118 dell’arresto cardiaco, il mio autista inizia il massaggio cardiaco. Appena rientro, gli do il cambio alle compressioni toraciche, mentre lui posiziona le piastre del DAE. L’analisi parte subito “Scarica consigliata! Allontanarsi dal paziente!” Defibrilliamo e ricominciamo con la rianimazione, “30 compressioni:2 ventilazioni” per 2 minuti. Si avvia di nuovo il DAE e defibrilliamo nuovamente.

Finalmente arriva l’automedica, continuiamo con la rianimazione, l’infermiere prende un accesso venoso, il medico intuba. Dopo poco iniziano a comparire segni di circolo e un respiro spontaneo!

Con l’autista dell’automedica vado a preparare la barella, apro l’ossigeno in ambulanza e ci prepariamo per il trasporto.

Quando ritorniamo in casa il signore va però nuovamente in arresto cardiaco. Ricominciamo quindi nuovamente con la rianimazione, medico e infermiere somministrano i farmaci del caso e dopo 2-3 minuti compaiono nuovamente i segni vitali.

Lo posizioniamo velocemente sul telo portaferiti e ci prepariamo per scendere le terribili scale che ci aspettano: ripide, strette e scivolose…

Lo carichiamo in ambulanza. Oggi tocca a me guidare, sto finendo il corso per diventare autista, e questa è l’occasione per guidare in emergenza. Il mio autista mi chiede se voglio far guidare lui, ma io mi sento sicura e gli dico che me la sento.

Accendo i lampeggianti, percorro tutto il vicolo in retromarcia perché non c’è posto per girarsi e, appena mi immetto sulla strada principale accendo le sirene e seguo l’automedica che mi fa strada.

Ancora una volta nessuna emozione, solo concentrazione, penso solo al traffico ed a guidare il più fluidamente possibile per non scuotere troppo chi è nel vano sanitario con il paziente. In 2 minuti siamo in ospedale; il personale della rianimazione e gli infermieri del pronto soccorso ci aspettano direttamente in shock-room.

Spostiamo il signore sulla barella del pronto soccorso e sistemiamo il materiale prima di allontanarci.

 

Ancora una volta quella sensazione – indescrivibile – di quando ti trovi davanti ad una persona “tecnicamente” morta e poi la vedi riprende i segni vitali sotto i tuoi occhi o tra le tue mani. Solo provandolo di persona si può capire quanto forte sia l’emozione!

 

Certo, dopo anni che salgo in ambulanza, sono diventata abbastanza fatalista: se quella persona sopravviverà è perché non era il suo momento e non per la nostra particolare bravura; ma noi siamo stati le persone giuste al momento giusto, gli strumenti attraverso cui Dio, il fato o il destino ha fatto sì che quella persona non morisse.

Questo vale anche al contrario, quando, per quanto tempestivamente arriviamo sul posto e per quanto corrette siano le manovre che compiamo, la persona muore. Sono convinta che in questo caso anche il medico rianimatore più bravo di questo mondo non potrebbe fare nulla. Semplicemente era la sua ora…

 

Forse solo il sorriso che avevo quando sono uscita dalla sede per tornare a casa, riusciva ad esprimere quanto grande fosse comunque la mia soddisfazione!

 

 

osyride

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Valentina

Posted by Labile on maggio 01, 2013
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“Ohi, Valentina, gambe lunghe per ballare, oh, Valentina, ogni ballo un grande amore, cocca, polpa di albicocca, che ti da’ con tutto il cuore, oh, Valentina, che prima gioca e poi ci muore”.

Questo mi viene in mente appena vedo arrivare in sala rossa la ragazzina in coma che velocissimi i colleghi del 118 ci portano avendola raccolta, ci dicono, da una festa. Si, proprio Valentina, quella di Crepax prima, poi cantata dalla Vanoni all’inizio degli anni ’80. Sembra quella Valentina, stesso taglio di capelli neri, età approssimativa 16 anni, vestita di jeans e magliettina, scalza. Un po’ poco in questo freddissimo 31 dicembre in cui il capodanno viene anticipato da brevi scoppi e isolati fuochi d’artificio, che un po’ dovunque intorno a noi anticipano l’attesa.

Valentina non dà segni di risposta, respira sufficientemente con un lieve sibilo e ci appare totalmente indifesa mentre procediamo nelle manovre solite. I colleghi del 118 ci sanno solo dire di aver ricevuto la chiamata da una festa di Capodanno in una villa poco lontana dal centro, non hanno raccolto notizie certe e sufficienti a capire l’accaduto. Il solito scenario di una festa: musica ad alto volume, tanto fumo ed alcool, tanta gente indaffarata in occupazioni varie e Valentina stesa all’esterno in mezzo al prato. Nessuno l’ha notata, nessuno sa esattamente da dove arriva. È lì inerme e sola in mezzo al prato appena gelato dalla brina notturna del Capodanno 2011.

Tirando via i jeans e la maglietta, ci guardiamo e facciamo tutti lo stesso pensiero, qualcosa di strano ci appare indecifrabile e senza risposta. La ragazza, sotto i jeans, indossa un paio di hotpans neri satinati, sflilata la maglietta indossa un toppino traslucido di strass. Ci diciamo che le stranezze viste in un Pronto Soccorso non sono mai troppe e che Valentina resterà sicuramente nell’annuario dei tipi insoliti.

Però Valentina oltre al coma non risvegliabile e ai suoi abiti minimali, mostra una serie di ecchimosi disseminate un po’ ovunque, soprattutto su gambe e braccia e dal colore sembrano essere recentissime. Parametri vitali stabili ci fanno pensare con calma all’accaduto e consideriamo in successione una aggressione, una violenza, l’assunzione di qualche sostanza d’abuso, insomma a tutte quelle ipotesi tipiche che necessitano di ulteriori azioni.

Qualcuno ci vuole parlare e si affaccia timida una ragazza bellissima e impellicciata, tacchi stratosferici e un viso truccatissimo di quelli da struccare in una settimana, in mano un paio di scarpe dai tacchi esagerati. Ci dice che sono di lei, Roberta, una sua amica invitata alla festa di Capodanno che si sta tenendo nella sua villa in campagna. Roberta è minorenne ci dice e quando gli chiediamo un telefono dei genitori risponde di non saperlo. Solita storia, genitori separati, lei che vive con la madre, padre assente. Tanto tempo libero passato con le amiche sedicenni, scuola maltrattata dalle seghe ma tanta irrefrenabile voglia di vivere.

Intanto ci arrivano gli esami di laboratorio, tutto normale, niente droghe ma tantissimo alcool, ad un livello tossico tale che spiega così il coma, che ora possiamo finalmente definire etilico. Allora da brave lavandaie cominciamo ad infondere liquidi e dopo qualche litro si fisiologica. Valentina/Roberta comincia a rispondere, apre gli occhi, si guarda intorno con uno sguardo interrogativo. “Che ci faccio qui?” ripete in continuazione. Pian piano iniziamo a parlare, la sua amica rassicurata se ne è tornata alla sua festa. Il Capodanno nel frattempo è scoppiato intorno a noi nel fragore generale, immaginiamo che fra un po’ ci arriverà tutta la casistica solita di questa occasione.

Roberta riacquista velocemente la parola e ci dice in successione che la madre con cui non ha un buon rapporto non sa esattamente dove si trova, non sa nulla della festa e quella sera di litigio casalingo l’ha vista andare a dormire nella sua stanza. Invece Valentina/Roberta esce dalla sua stanza, quindici anni e mezzo saltati dalla finestra e via con la sua amica ad una festa fuoriporta. Lo scavalco non è stato dei più semplici e tutte le ecchimosi provengono da lì. Alla festa, ci dice, ci sarà il ragazzo che, inconsapevole, lei ama. Ha immaginato decine di volte lo scenario festaiolo, capodanno e lei che esce dai jeans. Il ragazzo che la guarda e sguardi giocati silenziosamente. Invece Roberta si incazza sempre più per sguardi mai ricambiati e beve, beve in continuazione in questa festa che si avvia alla mezzanotte, senza trovare quell’amore per cui si trova qui. Infine si scola anche una intera bottiglia di spumante quando il ragazzo indifferente si apparta con un’altra. Niente violenza, niente assunzione di droghe, niente amore. “Niente di niente”, dice Valentina piangendo sommessamente mentre il rimmel cola sulle sue guance di ragazzina.

 

“E allora corri, corri come un sogno, fuori strada e fuori sintonia
corri, corri come corre il tempo che ti da’ un minuto e dopo va via….”.

(testo della canzone di Ornella Vanoni/Sergio Bardotti, immagine di Guido Crepax)

Labile

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