Questo o quello… per me pari sono

Scritta da Magamagò su luglio 07, 2017
racconti
foto di AD

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Stanotte gliela voglio raccontare io una storia a quella dottoressa che scrive racconti nelle pause, brevi pause notturne, durante il suo lavoro in Rianimazione. Io lo so che a volte scrive al computer quello che le passa per la mente, quello che le passa per il cuore: ognuno di noi ha un suo modo di scacciare le paure, le ansie, i brutti pensieri; lei scrive.
Lo so, e poi me lo ha confidato lei stessa la prima notte, quando sono arrivato qui in reparto, più morto che vivo per colpa del cuore che sembrava un orologio impazzito; avevo però un barlume di coscienza e tanta voglia di non arrendermi.
Adesso sto molto meglio, presto mi trasferiranno in Cardiologia, ma prima voglio regalarle io lo spunto giusto, perchè lei sa usare belle parole, ha studiato tanto, è cresciuta in una casa piena di libri e di certificati di laurea appesi al muro insieme con le foto di famiglia.
Ma è ancora giovane e tante cose della vita non le sa.
Io no, non ho studiato, non c’erano i soldi, io sono emigrato da piccolo con la mia famiglia, sono stato un emigrante prima della guerra, la seconda guerra mondiale, tanto per distinguerla da tutte le centinaia di altre piccole sparse per il mondo.
Sono emigrato in America, come questi migranti di oggi, come quest’uomo nero del letto accanto, in coma per una pallottola nel cranio.
No, non proprio come lui, lui è un MIGRANTE, ed io ero un EMIGRANTE.
Forse è quella E, che non so quando e perchè sia caduta nel dimenticatoio, che fa la differenza.
Noi italiani siamo emigrati per sfuggire dalla miseria nera, dalla fame, con miriadi di figli, uno all’anno, che le nostre mogli sfornavano in campagna. E poi c’era il miraggio della ricchezza, del “sistemarsi “ aiutati da chi era emigrato prima di noi e aveva fatto fortuna, ed erano in tanti.
Ma la storia di questo africano è diversa: sa dottore’ me l’ha raccontata lui stesso notte dopo notte. Non con le parole, poverino non le pronuncerà mai più, nè nella sua lingua nè nella nostra.
Ma lo gridava la sua pelle nera che parlava di entroterra africano, lo spiegavano i calli sulle mani e sotto i piedi, che parlavano di lavoro duro nei campi, a dissodare terre arse avare di erba, lo sussurravano le cicatrici sulla schiena frutto di angherie dei padroni e di torture della sedicente polizia del suo paese. L’ho letto nei suoi occhi, senza lacrime, persi nel vuoto di ricordi lontani, e che non vedono nessun futuro, roseo o meno che sia.
I nostri emigranti tornavano spesso ricchi, almeno benestanti, con foto di belle case, belle macchine, con mazzette di denaro frusciante, che veniva voglia di seguirli anche oltre oceano.
I migranti che arrivano da noi hanno solo l’angoscia di essere fuggiti da fame, guerre, angherie e di aver trovato spesso il vuoto.
Sai dottore’, forse pensava di essere avvantaggiato, con la sua pelle nera, di non essere scoperto, quando è entrato di notte in quella villa: i suoi figli avevano fame e lui aveva visto la signora buttare nel secchio quella bistecca intera, che il bimbo non aveva voluto mangiare per capriccio. A forzare la serratura glielo aveva insegnato un italiano, a cui poteva poi portare la refurtiva in cambio di pochi euro.
Invece, maldestro, aveva incontrato il padrone di casa, con la pistola appena comprata, tanto aveva sentito in TV il nuovo disegno di legge sulla legittima difesa.
Così è finito qui, con una pallottola nel cervello, in coma irreversibile. Al padrone di casa non succederà nulla, era “ legittima difesa”!! ma accidenti! vorrei che almeno questo “salvatore della patria” fosse costretto a pagarti le spese di ospedale finchè il tuo cuore forte ti manterrà in vita, e fosse condannato a venirti a trovare tutti i giorni, all’orario di visita, col rischio di incontrare la tua famiglia.
Dottoressa, per lei la vita ha un solo valore, ed è uguale per tutti… ma per gli altri ?
Lo so, lei ha scelto di fare il medico per curare tutti e non dovere, anzi volere, scegliere.

Magamagò

2 commenti

  • Letto6 scrive:

    Dottorè, me l’hanno letto quello che le ha scritto il vecchietto, quello col cuore debole steso accanto al nero in coma. L’ho letto e mi sono detto che nulla più è giusto, e nulla più è sbagliato.
    Io non sono emigrato, né migrato. Son rimasto qua a cercare qualche modo per tirare a campare. Non sono stato frustato, né ho attraversato l’oceano.
    Ma ho paura. Ho paura di non vivere mai con dignità, e che i miei figli troveranno un mondo peggiore di quello che ho trovato io. Non vivo nella villa, bensì in un monolocale lontano dal centro. Non è proprio mio, ma pago la metà di quello che guadagno per viverci meno peggio che posso… e le bistecche non le butto via, nè le mangio spesso, per essere sincero. Qualche giorno fa ho perso il lavoro,non che fosse nulla di sicuro, ma era meglio di niente. E non sapevo come dirlo al mio amore che ancora lavora, nonostante stia per nascere il nostro bimbo.
    E sono saltato giù, senza pensare. E ora sono qui…peccato.

    Li guardo tutti e due, e mi sento più immobile del nero e più consumato del vecchietto col cuore debole.

  • Giancatia Aufieri scrive:

    Le mie storie non sono vere,ma verosimili; sono la somma di quello che provo o ho provato in tanti anni di lavoro.Nel tuo commento ho trovato la stessa musicalità,lo stesso dolore,la stessa spiegazione del perchè facciamo questo lavoro,questa vita coi malati.Sono in pensione dall’ASL,ma non dalla professione che ha riempito e riempie la mia vita.So che anche per te collega sconosciuto è così e ti ringrazio per aver condiviso con me il tuo cuore.

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