Archive for giugno, 2009

il maestro

Posted by Sun-Tzu on giugno 26, 2009
pensieri / 6 Commenti

Se hai fortuna quando cominci questo mestiere hai davanti a te un maestro. E io questa fortuna l’ho avuta.
Un maestro lo riconosci subito. Ti insegna senza clamore. Ti insegna l’etica e l’onestà intellettuale prima di insegnarti la medicina. Ti insegna il rispetto per i pazienti ed i loro cari. Ti insegna un metodo. Ti insegna ad amare questo lavoro, anche quando sei stanco.
Un maestro lo riconosci subito. Sta a te seguirlo. Lui ti insegna con l’esempio.
Un maestro c’è sempre. Anche quando non è in reparto. Un maestro non lo disturbi mai, anche in piena notte. Un maestro non ti lascia mai solo in situazioni difficili. Un maestro accolla su di sé le grane più grosse. Un maestro pretende molto dai suoi allievi. E sa essere severo e giusto.
Un maestro sa molte cose, ma non lo hai mai sentito dire che sa tutto. Ma le volte che non aveva ragione tu non te le ricordi proprio.
Un maestro sa che ci sono altri maestri e lascia che i suoi allievi vadano ad imparare in altre scuole, se lo desiderano. I maestri non sono gelosi della conoscenza.
Un maestro concede all’allievo una progressiva indipendenza, pur rimanendo sempre disponibile al confronto e, se necessario, all’aiuto concreto. Anche quando sei ormai cresciuto.
E in questo mestiere anche quando sei convinto di averne viste tante e di aver maturato una grande esperienza un maestro sa ancora stupirti.
Sfortunatamente i maestri sono pochi. Se non ti riconosci in questo breve racconto, mi dispiace, ma significa che non hai mai incontrato un maestro.

Sun-Tzu

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il cellulare

Posted by Giro Batol on giugno 18, 2009
racconti / Nessun commento

Radiologia, 20.15: il turno è iniziato da poco e abbiamo appena terminato la diagnostica per immagini di un giovane signore caduto dal balcone di un secondo piano. La sua vicina uscendo aveva dimenticato le chiavi dentro casa e lui aveva cercato di entrare dal balcone per aprirle la porta, ma la ringhiera aveva ceduto. Era caduto in piedi, non aveva battuto la testa, si era rotto i calcagni, un femore ed una vertebra lombare, ma senza lesioni midollari:
“Tutto sommato gli è ancora andata bene pensavo tra me e me”
Ti-ta-ti-ta-ti, ti-ta-ti-ta-ti,
Ti-ta-ti-ta-ti, ti-ta-ti-ta-ti,
non è il mio cellulare sarà quello di Laura, l’infermiera del Pronto Soccorso che mi accompagna, ma anche lei mi guarda con aria interrogativa.
Ti-ta-ti-ta-ti, ti-ta-ti-ta-ti,
Ti-ta-ti-ta-ti, ti-ta-ti-ta-ti,
Il suono proviene dal fagotto posto sotto la barella dove raccogliamo generalmente quel che resta degli indumenti personali dei pazienti spesso sbrindellati nelle convulse fasi iniziali di assistenza. Mi chino, vedo il bagliore di un display con una scritta: CASA
Ho quasi una scossa al braccio proteso verso il cellulare e lo sguardo si fa vuoto…

“Tango zero da Tango 85, Tango zero da tango 85″
“Avanti per Tango zero”
“Tango 85 ha scaricato il paziente in Pronto Soccorso a Chivasso ed è di nuovo operativa”
“Mi confermi Tango 85 che siete operativi?”
“Confermo Tango Zero”
“Bene perché abbiamo un nuovo servizio per voi, si tratta di un codice Rosso Uno Sierra, ripeto Rosso Uno Sierra, sull’autostrada Torino-Milano, uscita Chivasso Ovest, direzione Torino. I testimoni parlano di due ragazzi incastrati apparentemente incoscienti, ma vivi. Orario di apertura del servizio ore 03.15″.
“Ricevuto Tango Zero, abbiamo uno stimato di arrivo sul posto di 4 primi, chiudo. Cazzo, Doc, ma quando ci sei tu non si dorme mai!”
Chi aveva tenuto la conversazione con la Centrale Operativa era Luca, 16 anni, volontario della Rossa da due; un armadio di 185 centimetri con due spalle belle larghe; era un ragazzo difficile, senza padre e con amicizie pericolose, aveva appena abbandonato la scuola e iniziato a lavorare come muratore. Preso nel modo giusto era buono come il pane, ma se gli saltava la mosca al naso, come mi raccontava orgoglioso nei pomeriggi in cui cercava disperatamente di insegnarmi a giocare a ping-pong in attesa di un servizio, era capace di scatenare risse furibonde con i malcapitati di turno.
“Dai Luca, capita con tutti…”
“Di andare alle 03.00 di notte, sotto una pioggia della Madonna, in autostrada, su un Rosso Uno Sierra, con due ragazzi incastrati? No, può capitare a tutti, ma poi capita a te porco dinci porco, e io lo so, è per quello che mi faccio mettere in turno con te”.

“Ma smettila, va; occhio che ci siamo quasi”
“Là c’è uno che segnala”, dice Grop, il nostro autista di tante missioni; 50 anni, ben piazzato, uno dei pochi in grado di tenere Luca sotto la propria ala protettrice.
La macchina, una Fiesta nera, è ferma contro il guard rail, ma si deve essere ribaltata un po’ di volte, è tutta accartocciata.
“Tango zero da Tango 85, Tango 85 sul posto” e poi ancora:
“Siamo i primi, metto l’ambulanza a protezione dell’auto, con questa pioggia non si vede niente”.
Grop sapeva il fatto suo: quando arrivi sull’incidente, recitano i manuali, valuta subito la scena, comprendi la dinamica e metti tutti in sicurezza.
Il servizio 118 era partito solo da sei mesi a Chivasso e non avevamo ancora l’infermiere a bordo per cui l’equipaggio era completato da una terza volontaria della Croce Rossa, Ingrid, studentessa in Medicina di origini francesi, brava e pacata, dai modi cortesi, ma risoluti.
“Grop, tu bada alle segnalazioni, io penso ai ragazzi con Luca ed Ingrid”.
La scena era raccapricciante scriverebbe un bravo giornalista, un miscuglio di sangue e lamiere, dolore e morte senza senso o come hanno cercato a lungo di insegnarmi “con un senso imperscrutabile”.
Veloce come un lampo, Luca, che con la freddezza di un veterano ha già esplorato le possibilità di accesso ai ragazzi feriti, estrae le Robin dallo zaino e con qualche colpo ben assestato sfonda il lunotto posteriore unica via praticabile per arrivare ai due ragazzi. Mi incuneo nell’abitacolo con due collari infilati nel braccio e l’immancabile marsupio in vita. Arrivo al quadro ancora acceso e lo spengo. Lui è con il capo riverso sul volante, immobile con lo sguardo vitreo di chi è già andato da un po’. Gli palpo il polso carotideo: assente. Lei ha il capo reclinato all’indietro sullo schienale ed un respiro russante: è viva. Le piazzo il collare, mi faccio passare da Ingrid il saturimetro portatile, la bombola di ossigeno e il kit per l’intubazione.
Nel frattempo è già arrivata la Polstrada ed arrivano anche i Vigili del Fuoco. “Doc, per tirarvi fuori dobbiamo segare il tetto, vi verranno addosso i vetri del parabrezza, usate questo lenzuolo per proteggervi”.
Ingrid si è fatta strada anche lei nell’auto per aiutarmi nel posizionare l’accesso venoso e nel tentativo di praticare l’intubazione orotracheale, che fallisce miseramente. Una decina di intubazioni in sala operatoria non bastano per preparare ad una situazione simile. Possibile che chi mi ha preparato ad affrontare queste situazioni solo con un corso di 300 ore, 150 teoriche e 150 pratiche, non se ne sia reso conto?
“Doc, stenda il lenzuolo sulla ragazza e si metta sotto, stiamo per asportare il tetto del veicolo, i vetri voleranno dappertutto”.
Ti-ta-ti-ta-ti, ti-ta-ti-ta-ti,
Ti-ta-ti-ta-ti, ti-ta-ti-ta-ti,
Ti-ta-ti-ta-ti, ti-ta-ti-ta-ti,
Ti-ta-ti-ta-ti, ti-ta-ti-ta-ti
mi guardo attorno e da sotto un sedile lampeggia il display di un cellulare,
Ti-ta-ti-ta-ti, ti-ta-ti-ta-ti,
Ti-ta-ti-ta-ti, ti-ta-ti-ta-ti
la scritta è chiara: CASA, mi si stringe il cuore, ma rimango immobile.
Ingrid mi guarda e poi con i suoi soliti modi decisi:
“Che fai, non rispondi?”
“Rispondo? E poi cosa dico, scusi lei è il padre di un ragazzo di circa vent’anni, alto, magro, bruno di capelli che giace qui accanto a me morto o è invece il genitore di una ragazza esile, bionda forse di 18 anni, forse meno, in coma, che ora stiamo cercando di estricare da una Fiesta nera accartocciata?”
Ti-ta-ti-ta-ti, ti-ta-ti-ta-ti,
Ti-ta-ti-ta-ti, ti-ta-ti-ta-ti
“No, Ingrid, non guardarmi così, non saprei davvero cosa dire; al corso di 300 ore non mi hanno parlato dei cellulari, non mi hanno detto che squillano e ti cercano insistenti e impietosi anche quando uno è morto o è in coma…”

Ti-ta-ti-ta-ti, ti-ta-ti-ta-ti,
Ti-ta-ti-ta-ti, ti-ta-ti-ta-ti
Il frastuono del gruppo elettrogeno dei pompieri ha infine il sopravvento sul cellulare e sulla mia coscienza…
“Che fai, non rispondi?”
“Sì, Laura, mi ero solo incantato un attimo, ora rispondo…” ora rispondo anche se ormai è troppo tardi!

“Ehi, voi del corso di 300 ore! non mi avevate detto che anche dopo molti anni quando leggi CASA sul display di un cellulare ti potranno tornare in mente lo sguardo vitreo di un ragazzo morto ed il respiro russante di una ragazza in coma…!”

Giro Batol

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la morte dei vecchi

Posted by Goldencharlie on giugno 08, 2009
pensieri / 30 Commenti

Pur essendo assolutamente contrario filosoficamente, umanamente ed eticamente alla pena di morte, ci sono altre morti che mi colpiscono e mi addolorano maggiormente.
Penso alla morte delle persone anziane. Come muoiono oggi i vecchi? Muoiono in OSPEDALE. Perché quando la nonna di 92 anni è un po’ pallida ed affaticata deve essere ricoverata. Una volta dentro poi, l’ospedale mette in atto ciecamente tutte le sue armi di tortura umanitaria. Iniziano i prelievi di sangue, le inevitabili fleboclisi, le radiografie.
“Come va la nonna, dottore?”. “E’ molto debole, è anemica!”.
Il giorno dopo della nonna ai nipoti già non gliene frega più niente!
“Come va l’anemia, dottore?”. “Che vi devo dire? Se non scopriamo la causa è difficile dire come potrà evolvere la situazione”.
“Ma voi cosa pensate?”. “Beh, potrebbe essere un’ ulcera o un tumore… dovremmo fare un’ endoscopia”. Io faccio il chirurgo e lavoro da venti anni in ospedale. Mi sono trovato moltissime volte in situazioni di questo tipo. Che senso ha sottoporre una vecchia di 92 anni ad una gastroscopia? Che mi frega sapere se ha l’ulcera o il cancro? Perché deve morire con una diagnosi precisa? Ed inevitabilmente la gastroscopia viene fatta perché i nipoti vogliono poter dire a se stessi e a chiunque chieda notizie, di aver fatto di tutto per la nonna.
Dopo la gastroscopia finalmente sappiamo che la vecchia ha solamente una piccola ulcera duodenale ed i familiari confessano che la settimana prima aveva mangiato fagioli con le cotiche e broccoli fritti, “…sa, è tanto golosa”.
A questo punto ormai l’ ospedale sta facendo la sua opera di devastazione. La vecchia perde il ritmo del giorno e della notte perché non è abituata a dormire in una camera con altre tre persone, non è abituata a vedere attorno a sé facce sempre diverse visto che ogni sei ore cambia il turno degli infermieri, non è abituata ad essere svegliata alle sei del mattino con una puntura sul sedere. Le notti diventano un incubo. La vecchietta che era entrata in ospedale soltanto un po’ pallida ed affaticata, rinvigorita dalle trasfusioni e rincoglionita dall’ambiente, la notte è sveglia come un cocainomane. Parla alla vicina di letto chiamandola col nome della figlia, si rifà il letto dodici volte, chiede di parlare col direttore dell’albergo, chiede un avvocato perché detenuta senza motivo.
All’inizio le compagne di stanza ridono, ma alla terza notte minacciano il medico di guardia “…o le fate qualcosa per calmarla o noi la ammazziamo!”. Comincia quindi la somministrazione dei sedativi e la nonna viene finalmente messa a dormire.
“Come va la nonna, dottore? La vediamo molto giù, dorme sempre”.
Tutto questo continua fino a quando una notte (chissà perché in ospedale i vecchi muoiono quasi sempre di notte) la nonna dorme senza la puntura di Talofen.
“Dottore, la vecchina del 12 non respira più”.
Inizia la scena finale di una triste commedia che si recita tutte le notti in tanti nostri ospedali: un medico spettinato e sbadigliante scrive in cartella la consueta litania “assenza di attività cardiaca e respiratoria spontanea, si constata il decesso”. La cartella clinica viene chiusa, gli esami del sangue però sono ottimi. L’ospedale ha fatto fino in fondo il suo dovere, la paziente è morta con ottimi valori di emocromo, azotemia ed elettroliti.
Cerco spesso di far capire ai familiari di questi poveri vecchi che il ricovero in ospedale non serve e anzi è spesso causa di disagio e dolore per il paziente, che non ha senso voler curare una persona che è solamente arrivata alla fine della vita. Vengo preso per cinico, per un medico che non vuole “curare” una persona solo perché è anziana. “E poi sa dottore, a casa abbiamo due bambini che fanno ancora le elementari non abbiamo piacere che vedano morire la nonna!”.
Ma perché? Perché i bambini possono vedere in tv ammazzamenti, stupri, “carrambe” e non possono vedere morire la nonna? Io penso che la nonna vorrebbe tanto starsene nel lettone di casa sua, senza aghi nelle vene, senza sedativi che le bombardano il cervello, e chiudere gli occhi portando con sé per l’ultimo viaggio una lacrima dei figli, un sorriso dei nipoti e non il fragore di una scorreggia della vicina di letto.
Regaliamo ai nostri vecchi un atto di amore, non cacciamoli di casa quando devono morire.

Glodencharlie

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