Archive for febbraio, 2013

…e Fabio ride.

Posted by massimolegnani on febbraio 23, 2013
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Foto di MV

Foto di MV

Scaraventato giù dal letto sono lì che mi arrabatto contro rantoli a pioggia e parametri da schifo, cercando di farmi venire in mente qualche idea che sia buona ma non troppo devastante e lui dal letto mi guarda e ride. È una risata senza voce ma inequivocabile: sta ridendo di me, non c’è dubbio. Forse è la mia faccia da vecchio gufo (saggio? rincitrullito?), forse il mio affanno attorno a strumenti e tubi, a divertirlo. Gli allarmi strepitano ma lui agita nella mano destra, l’unica abile, una spada fatta con i palloncini, e tenta di darmela in testa. Non so che fare, sfodero anch’io una risata, però mi esce amara, in linea con la situazione poco allegra.

Fabio è qui da una settimana, l’ennesimo ricovero, questa volta per una brutta polmonite che l’ha sfiancato, lui già così debilitato. Potrei snocciolare come un rosario tutte le sfighe di questa sua corsa ad handicap per restare in vita, più lui resiste e più gli arriva una mazzata, un nuovo grano di rosario che si aggiunge alla sua corona di spine.

Per una settimana non ha guardato nessuno in faccia, se n’è rimasto lì tutto rattrappito e cupo a lasciarsi sforacchiare, rigirare, nutrire, massaggiare, come se quel corpo non gli appartenesse, forse aspettando il peggio. E adesso che il peggio sembra essere arrivato, eccolo di umore splendido come per magia. Già questa mattina era più partecipe, aveva accennato dei sorrisi, e in effetti le cose sembravano mettersi al meglio. Ma stanotte che tutto sta di nuovo precipitando perché ride?

Non c’è niente da ridere mi viene voglia di dirgli. Ma non è lui che si è ammattito, sono io che sto sbagliando approccio. Dimentico sempre di che pasta sono fatti, lui e la sua famiglia, gente tosta, che sa ridere e combattere. La mamma quando un’ora fa mi ha visto tornare in reparto per suo figlio, mi ha accolto con una battuta allegra, come fossi lì in visita di cortesia, salvo poi opporsi, con tatto e fermezza, alla terapia d’urgenza che volevo intraprendere; mi spiega come nella cardiomiopatia ipertrofica i diuretici siano un azzardo. Già, perché ha pure l’ipertrofia del cuore, non me ne ricordavo, aggiungo mentalmente quest’altro grano al suo rosario. Dovrei chiamare il rianimatore e affidarlo alle sue cure, ma qualcosa mi frena, temo che una volta attaccato al respiratore non lo si svezzerà più. E poi intubazione significa trasferimento, relegarlo in luoghi anonimi, a chi potrà più dare in testa la sua spada?

Smetto di guardare radiografie e monitor, torno alla sua faccia come a un punto di partenza: non ha cambiato espressione e se Fabio ride significa che possiede ancora risorse da cui attingere. E allora aiutiamole queste risorse, mi dico, ma usando il minimo di intervento possibile. Così decido per l’aerosol di adrenalina e per la vecchia maschera di Venturi al posto dell’apparecchio d’ossigeno a pressione positiva che in teoria doveva essere più efficace.

Nel giro di poco il respiro si fa più regolare, gli allarmi finalmente tacciono. La crisi è superata, di qualunque crisi si trattasse, che ancora non ho capito se erano i polmoni, il cuore o il circolo a non fare il proprio dovere.

Ora che dovrebbe ridere, Fabio si è acquietato. Riposa tranquillo, ancora sveglio, un vago sorriso sulle labbra e un’aria soddisfatta da “missione compiuta”. È spossato, d’altronde glie n’è costata di fatica farmi capire come dovevo comportarmi.

massimolegnani

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L’uomo in blu

Posted by massimolegnani on febbraio 16, 2013
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Foto di MV

Foto di MV

È il colore a volte che fa la differenza, nel mio caso una differenza abissale.

Avrei voluto essere arancione, mi sono ritrovato blu.

Pensare che una dozzina d’anni fa al corso teorico-pratico organizzato dall’ASL per selezionare chi fra i propri autisti avrebbe guidato le ambulanze del 118, ero stato tra i migliori, alzavo la mano come a scuola e snocciolavo senza errori la successione delle manovre del log-roll, sapevo dire quando e come si doveva usare il cucchiaio e quando la spinale, conoscevo a memoria procedure d’intervento e protocolli di chiamata. Quello era stato un periodo esaltante, di giorno il solito lavoro, alla sera uno studio accanito, di notte il sogno sempre uguale e sempre bello, sfrecciavo per le strade a sirene spiegate, fendevo il traffico come Mosè le acque del MarRosso, portavo l’equipaggio sul luogo del disastro, collaboravo nel soccorso dei feriti, l’arancione fluorescente del giaccone d’ordinanza un lasciapassare tra la folla dei curiosi. Tutto faceva pensare che sarebbe andata proprio così, ma poi all’esame mi ha fregato l’emozione.

L’istruttore mostrandomi il manichino riverso sul pavimento mi disse Guglielmetti fai conto che sia un ragazzino di dodici anni coinvolto in un incidente: apparentemente non è cosciente, forse non respira, datti da fare. A sentire quelle parole non ho più visto davanti a me un bambolotto di plastica ma un volto insanguinato e ho perso la testa, Cristosanto è poco più di un bambino. Mi sono chinato su di lui e anziché iniziare le manovre di soccorso che pure sapevo a menadito l’ho preso tra le braccia, un bambino vero, irrimediabilmente morto, tra le mie braccia, un bambino da lavargli il viso con le lacrime, piangevo sì, e lo cullavo mentre l’istruttore sbraitava Guglielmetti ma che fai? Sbrigati, sta per morire, Guglielmetti dacci dentro con la rianimazione, forza! No, è inutile, non ce la può fare, non ce la posso fare, è morto, povero ragazzino, morto senza nemmeno un nome. L’unica cosa che m’importava era tenerlo stretto, lì inginocchiato su un pavimento che credevo asfalto tra rottami e resti umani, essergli vicino nel passaggio, accompagnarlo dove…non lo so dove vanno a morire i morti. Avevo un dolore mai provato.

Mi dovettero staccare a forza dal manichino e del mio passaggio al 118 non se ne parlò mai più.

Mi assegnarono un furgoncino, che di recente hanno sostituito con uno appena più moderno, ma niente lampeggianti nè sirene, e una divisa orrenda, giubbino blu con stampigliata una croce rossa subito sbiadita e pantaloni della stessa tinta con al fondo una striscia catarifrangente bianca. Ai piedi non gli scarponcini in goretex di cui sono forniti gli “arancioni”, no, per le scarpe arrangiati, così una volta mettevo mocassini marroni o sandali d’estate, ora delle vecchie Superga che ho ritrovato in casa.

Così conciato, che sembro una caricatura del soccorso, batto la provincia in lungo e in largo a portare campioni di piscio e sangue da un laboratorio all’altro ed anziani dalle case di riposo all’ospedale per esami, ma solo se non stanno male, sai Gu non vorremmo che ti emozionassi un’altra volta se li dovessi rianimare, e una risata cattiva a chiudere il discorso.

Dodici anni che faccio ‘sto mestiere, una dozzina d’anni lunga come un giorno solo, talmente è sempre uguale quel che faccio. E quel che è peggio non è il lavoro ma la pausa in mensa dove vorrei mangiar da solo e invece c’è sempre qualcuno degli equipaggi del pronto intervento che si siede e sfotte, e anche se non sfotte mi basta vederlo tutto in ghingheri, lo zaino rosso delle emergenze accanto alla sedia, il cellulare collegato alla centrale, la chiamata a inizio pasto e lui che scatta, bello e sicuro come un guerriero, lascia il vassoio quasi intatto, beato te che puoi mangiare tranquillo dice con aria superiore e subito corre a salvar la gente, mi basta questo per sentirmi la mezza merda che sono diventato.

E poi magari anche a me interrompono il pasto, Guglielmetti vai a prendere il signor Lacchia di Caluso e portalo alla dialisi. Provo a obbiettare che c’è tutto il tempo, senti, finisco di mangiare e vado; No! gracchia il mio severo dio nella ricetrasmittente, ci vai immediatamente che questo già una volta si è lamentato di te, sei arrivato all’ultimo momento e dopo andavi troppo forte in macchina e lo sballottavi di qui e di là. Ok, vado, non discuto, vado.

Lacchia è una serpe d’uomo. D’accordo ha i suoi malanni, la dialisi non è una passeggiata ma lui ce l’ha col mondo intero e con me in particolare perché lo porto dove non vorrebbe andare. Lo carico, lui e la carrozzina (potrebbe camminare, certo, ma il viaggio verso l’ospedale pretende di farlo sulla sedia a rotella) utilizzando l’elevatore elettrico del mio CuboFiat e da quel momento il signor Lacchia troneggia sul pianale posteriore, diventa il mio tiranno grigio, mi rimbrotta per ogni cosa, la guida, il traffico, il riscaldamento eccessivo o troppo basso, mi tiene il fiato sul collo, sbraita e sputacchia saliva, certe volte mi minaccia pure con l’inseparabile bastone, e diventa un calvario il viaggio. Ci vuole tutta la mia pazienza a sopportarlo e quell’ora che passo con lui mi segna la giornata. Dopo non c’è sorriso di altri miei clienti che compensi l’umore rovinato.

Questo mestiere mi regala poche soddisfazioni e allora retrocedo a minime ambizioni, divento consapevole del poco margine possibile di miglioramento, cerco di lavorare in fretta per ritagliarmi piccoli momenti di consolazione tra un servizio e l’altro, una sosta al bar, qualche sguardo rubato in giro, due parole con la Piera mentre le consegno le provette per le analisi e lei mi firma la ricevuta, il seno che straripa nel camice attillato e quel sorriso un po’ sciupato che invita all’ammicco e alla battuta sconcia alla quale non rinuncio (eh Piera, sempre col vento in poppa e le poppe al vento).

E quando mi capita di andare verso sud a consegnare materiale alla Sorim mi fermo tra le risaie a osservare il bianco degli aironi. Li guardo curvi a nettarsi con il becco le piume al sottocoda e immagino le mondine ancora chine sulle erbacce. Ascolto il loro canto e vedo i corpi curvi che dovevano a quel tempo essere belli.

massimolegnani

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Dolore

Posted by Marion on febbraio 09, 2013
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Foto di MV

Foto di MV

Prima bimba cha vedo nella mattinata: Yasmin, nome da fiaba, origine straniera, slava mi sembra, 5 anni, mamma giovane, bella e molto antipatica, arrogante nell’approccio e nelle richieste, senza lavoro e con gravi problemi economici (a quanto dice. Ho imparato a diffidare di tutto e di tutti).

Yasmin ha vomitato più volte e accusa un pò di mal di pancia e un forte mal di testa: entra nell’ambulatorio camminando da sola, ma strofinando la fronte con le manine e piangendo piano, si siede subito e rimane lì ferma, sempre lamentandosi, mentre la mamma mi racconta i fatti

“E’ da ieri pomeriggio all’uscita da scuola che non sta bene, ha vomitato tutta notte, ho dato questo e quello, non ha febbre nè diarrea, da 24 h non mangia …”

“Vieni Yasmin , sali sul lettino e riposati mentre ti visito”.

Buona buona Yasmin mi obbedisce e si alza, la mamma la prende in braccio e la deposita sul lettino, la bimba si sdraia e aspetta la visita: il pianto si è fermato, il faccino è sempre sofferente.

Il viso è rigato di lacrime, la bimba non appare disidratata, le tocco il pancino piano piano, le strappo un sorriso, poi un pò più a fondo, senza evocare dolore. Termino la visita senza trovare nulla di particolare.

Yasmin torna sulla seggiola e il viso si rabbuia, il pianto riprende, le mani che vanno sopra lo stomaco, qualche strano colpo di tosse preannunciano un conato; suggerisco di portarla in bagno e assisterla nel caso di vomito, raccogliendo poi se possibile un goccio di pipì nel contenitore che porgo. Io intanto compilo la cartella e … penso.

Il dolore di un bambino: qualche settimana fa ho sofferto di un’infezione stagionale gastrointestinale e ricordo bene quanto ho patito! Io però sapevo che era in realtà cosa da poco, che in qualche ora tutto sarebbe passato e in breve avrei quasi anche scordato quel dolore (anzi mi sarei dovuta sforzare di non farlo, per cercare di capire meglio poi la sofferenza dei miei piccoli pazienti senza minimizzarla con superficialità frettolosa). Il bambino ha davanti solo il dolore di quel momento, senza un perchè, senza una fine, se noi adulti non gli stiamo vicini a rassicurarlo, ad offrirgli un rimedio, a distrarlo…

E allora accolgo Yasmin di ritorno, immergo lo stick nel bicchierino, e osservo di lì a poco il bel viola scuro del quadratino che indica presenza di chetoni.

E spiego, alla mamma – e a Yasmin – che i chetoni, una sorta di leggero veleno che autoproduciamo in determinate situazioni, possono essere causa di vomito e mal di testa, che nascono dal digiuno o da errori alimentari , che possono aggravare un’infezione da virus ( “ un ’influenzetta di pancia”) come quella che in questi giorni hanno tanti altri bimbi o essere invece da soli la causa dei sintomi di Yasmin. In ogni caso, la cura sono CARAMELLINE di ZUCCHERO (il mio papà me le comprava a forma di carotina, con una bella carta arancio e il ciuffetto verde sopra a far da foglie!) e da tè zuccherato fresco, offerto a cucchiaini ripetuti dalla mamma che dovrà perciò trascorrere le prossime ore a fianco di Yasmin, ingannando il tempo col racconto di qualche bella storia.

Adesso sì che Yasmin non solo sorride, ma ride beata! E anche il saluto di congedo della mamma è un pò più sereno del solito…

Marion

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Mi hanno detto di prepararmi

Posted by the intensivist on febbraio 05, 2013
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Foto di MV

Foto di MV

Mi hanno detto di prepararmi, ma non pensavo così presto… e ho seguito la marea.

Chiuso nel mio sottomarino agganciato alla nave-madre, avevo capito che c’era qualcosa che andava storto… era nell’aria questa sensazione, già da alcuni giorni.

Infatti la “nave-madre”, usciva più volte dal suo golfo e andava a trovare l’equipe di tecnici che , con una sonda ad ultrasuoni, scandagliava l’abisso nel quale ero immerso e navigavo da ormai 190 giorni: e cominciava allora la verifica della pompa propulsiva, delle paratie stagne e delle condutture idrauliche per verificare il mio stato di salute e la mia reattività.

E’ vero, mi avevano detto al corso PNFL (Pre Natal Fetal Life) che ad un certo punto, dopo circa 290 giorni di addestramento, avrei dovuto lasciare il mio ambiente e cercarmi nuovi lidi di approdo; ma adesso il contagiri mi diceva che ero giunto al count-down con largo anticipo… La mia nave-madre mi portava spesso da giorni, in un bacino di carenaggio, dove per effetto della sonda ad ultrasuoni, sentivo rumori e intravedevo luci attraverso il coperchio del piccolo sommergibile under-water, nel quale mi avevano introdotto, dopo avermi assemblato con cura e dovizia nel corso di lunghe settimane di navigazione.

Non ho grandi ricordi dell’inizio, ma nel manuale di istruzioni del corso PNFL, attraverso delle bellissime immagini, avevo “intravisto”, giorno per giorno, mese per mese, quello che era già capitato a milioni di altri cadetti prima di me.

La mia nave-madre negli ultimi giorni, non filava più liscia come prima: si scuoteva di frequente, riducendo virtualmente le pareti del mio sommergibile e dando delle variazioni di portata del “cordone” attraverso il quale passavano le derrate alimentari e le scorte idriche, creando spesso una accelerazione reattiva del mio contagiri .

Mi guardavo allo specchio, appeso alla paratia stagna e sembravo smagrito, un po’ provato…forse era giunta veramente l’ora di iniziare l’ultimo grande viaggio.

Ho fatto mente locale e ho raccolto le mie cose… anzi solo le mie idee, perché in realtà di bagaglio i cadetti-diplomati ne devono avere solo poco con sé, per essere più agili nello scatto e nell’avanzamento in zona nemica… o comunque straniera.

Speravo almeno di lasciare il sommergibile indossando la bellissima uniforme bianca di “vernice” che avevo invidiato ai miei colleghi di corso più anziani che erano riusciti ad arrivare al “termine” del PNFL… ma la divisa la consegnano solo dopo almeno 270-280 giorni di studio e tirocinio, prima delle ultime 2 settimane, in cui.. ogni momento è buono per uscire allo “scoperto”.

Credo proprio che dobbiamo abbandonare il nostro mezzo “under-water”: le scosse sono sempre più frequenti e prolungate, le pareti della nave-madre tendono minacciosamente a pressarmi, tanto che ora non riesco più a fare la mia quotidiana oretta di reazione fisica a base di capriole e flessioni su mani e braccia; faccio fatica anche a controllare il mio “cordone” che mi hanno spiegato non devo mai attorcigliare e devo cercare di tenere dietro di me e non davanti a me, per evitare di rimanere senza rifornimenti. Anche il mare nel quale ho navigato, ha cambiato aspetto: è meno limpido e soprattutto è meno profondo… forse si è aperta l’insenatura stretta del golfo avanti a me.

È l’imbocco del canale, quello da cui mi hanno spiegato al corso, io partirò per l’ultimo grande viaggio verso il “nuovo mondo”.

Ho un po’ paura… non ero ancora pronto, sono piccolo… e un po’ smagrito: ce la farò ? So che non tutti gli allievi arrivano alla fine del corso e qualcuno non ce la fa a vedere il nuovo mondo o qualcuno lo intravede solo per un po’, ma poi… torna il buio e non so se sia dolce o amaro questo buio.

Nessuno è tornato indietro a raccontarlo. Forse il PNFL, tra le sue lezioni, dovrebbe anche annoverare qualche ora da dedicare a quelli che non superano l’esame alla fine della sessione.

Ragazzi, è proprio l’ora… il livello del mare scende, le pareti della nave-madre vibrando con forza si avvicinano e allontanano tra di loro in maniera ormai ritmica (ne conto almeno 10-15 all’ora di vibrazioni).

L’acqua del mare è anche più calda… trasmette calore al mio sommergibile… mi sento la febbre. Mi hanno detto di preparami… Saluto con fretta la stanza che mi ha accolto lungo questi mesi, sistemo il cordone dietro di me, assumo la posizione “fetale” con la testa in avanti e… anche se non pensavo così presto… seguo la marea.

Comincio a nuotare e grazie al cielo che sono piccolo (ma allora è una fortuna !!), passo attraverso il “canale” e sempre spinto in avanti dalle vibrazioni prodotte dalla nave (che si comporta sempre da nave-madre, è premurosa con me!) finisco per intravedere l’uscita, anche se con gli occhi e la bocca serrati, come gli istruttori PNFL mi avevano ripetuto sino alla noia nei giorni passati, prima di approdare, una volta fuori dagli abissi.

Ecco la sommità del mare… sono accecato dalla luce che fino allora avevo intravisto filtrata dalle pareti della mia stanza… che freddo che fa…

– ehi, piano, voi della NICU (Neonatal Intensive Care Unit) anche se siete notoriamente bravi e famosi, non tirate così e… ohi, mettetemi giù, soffro le vertigini ! –

Dove è il mio cordone ?… sento che me lo tirano e…

– ragazzi qui non arriva più flusso! –

Improvvisamente sento la necessità di aprire la bocca e di urlare al nuovo mondo che ci sono anche io… urlo, urlo, sempre più forte… con dolore, perché nel mio petto è entrata una folata di aria fredda che non conoscevo e che, quasi mi fa male…

però se dapprima mi era estranea e fastidiosa, lentamente diventa una brezza sempre più calda e gradevole… mi sembra di respirare una nuova vita.

Uno del team della NICU mi friziona il corpo e un altro con una maschera gigante , mi aiuta a fare entrare il vento (sembra il Ghibli) della vita , lungo le mie condutture aeree… funziona! eh sì che funziona, perché il mio contagiri, inizialmente impazzito, ora ritmicamente batte ad una velocità oraria di 150-170 al minuto.

Mi controllano il peso: sono 1250 grammi… 1250 ho capito bene ? Ma mi avevano detto che di solito si è oltre i 3000 grammi alla fine del corso ? Ah, è vero, sono dovuto uscire prima, perché non era più cosa per me stare under-water… dovevo diventare un terrestre…

Lasciano delle belle pezze calde e morbide sul mio piccolo corpicino e , sempre con una mascherina che mi aiuta a portare il vento nei miei stantuffi, mi sostituiscono il cordone, ormai ridotto ad un piccolo spago, con delle tubature nuove di materiale “sintetico” che gli specialisti della NICU fanno passare attraverso il mio sportellino/ombelico, per far scorrere carburante per tutte le mie turbine.

Comincio proprio a sentirmi bene… non è poi così male questo posto pieno di luce, rumori e esseri terrestri , enormi che mi assomigliano, ma che sono di un tonnellaggio 20-30 volte il mio.

Adesso gli specialisti della NICU, con cappellini, guanti e mascherine (sono proprio come me li avevano descritti), mi adagiano in una nuova navicella, che anche se faccio fatica a vedere bene, ha delle pareti trasparenti, calde e umide con un rumore di fondo… sempre con una sorta di boccaglio-respiratore che tengono vicino al mio naso per darmi una miscela gassosa che comincia proprio a piacermi.

E’ passata solo una mezz’oretta, ma quelli che mi aspettavano sulla riva, sono proprio stati bravi… Guardo o meglio cerco di aprire un po’ i miei occhietti e , fuori dalle pareti della mia nuova casa, vedo un essere, senza mascherina e guanti, che mi è familiare: la faccia non la conosco, ma i suoni che provengono da lei e anche il calore e il profumo della pelle delle sue mani, non mi sono estranee… perchè mi ricordano gli odori, i sapori e le sensazioni del mare in cui mi cullavo… ma sì!: è la mia nave-scuola , ma come potevo dimenticarmi di lei o meglio come potevo pensare che “lei” potesse dimenticarsi di me, anche se l’avevano messa per un po’ di tempo in un bacino di carenaggio !!

La nave-madre… ci tiene proprio al suo incursore sottomarino… o meglio gli vuole proprio bene… si dice così anche tra compagni di corso o meglio tra insegnati e allievi, come me.

Ora rassicurato che il nuovo mondo non è poi così male e la nave-scuola è ancora con me, anche se le paure restano, provo a schiacciare un pisolino , perché, ora ricordo bene ripensando alle pagine del testo PNFL che, se l’avventura inizia prima… è lunga, tanto lunga e per affrontarla bene, c’è bisogno di tanto riposo e energie.

– Oh, voi lì fuori, spegnete la luce, ma continuate a controllare il mio contagiri e che tutto funzioni bene! –

Per ora va bene così, domani è un altro giorno; i ricordi dei tempi passati con gli altri compagni di corso affollano i miei pensieri, ma ora è tempo di concentrarsi per crescere e, con l’aiuto della mia nave-scuola, e dei tecnici della nuova mia navicella, so che ce la posso fare… o almeno provare a farcela!

the intensivist

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