Archive for febbraio, 2011

Anna e Giorgio

Posted by Meri on febbraio 15, 2011
testimonianze / 6 Commenti

All’Asilo dei Vecchi si lavora per difendere la vita. Ma non come in una rianimazione e men che meno come in una neonatologia, perchè è la vita di vecchi, è già vissuta. Si aspetta solo che finisca in qualche modo, non si può fare altro che togliere un po’ di dolore, ma non si riesce mai farli star bene. Facciamo attenzione che non gli vengano le piaghe, che riescano a mantenere i movimenti che hanno ancora, che siano puliti, dignitosi insomma.
Una volta la settimana si proietta un film o qualcuno suona una fisarmonica cercando di mantenere vivo un minimo interesse per la vita, ma solo ed esclusivamente la propria, quella degli altri non esiste più. Il mondo di ogni anziano che abbia ancora un minimo di lucidità e molti acciacchi, inizia e finisce con lui.
Lavorare all’Asilo dei Vecchi significa difendere la dignità della persona al di là del suo stato, per quello che è, se è ancora qualcosa in un involucro sofferente, o per quello che è stato.
All’inizio sembra tutto inutile, perchè sono anziani, perchè non sono più consapevoli, perchè sono aggressivi, perchè hanno un rivolo costante di saliva che gli riga il mento, perchè qualcuno ogni notte fa a pezzi il pannolone e sparge e spalma ovunque il contenuto…
Tuttavia col passare degli anni (per quanto mi riguarda, almeno dieci) scopri e capisci che ciascuno di loro è un personaggio, sia nella lucidità che nella demenza.
Raccontano una storia, la loro certo, ma tutte simili tra di loro. Sembrano brandelli della stessa storia universale, il che mi fa venire il dubbio che possa essere un’anteprima della mia possibile storia, ma anche della tua o di ciascuno di noi.

Allora lo sguardo, il punto di vista cambia e si fa più attento, le orecchie più tese.

Cerco di andare oltre e di immaginarmi quella persona quarant’anni fa, nel pieno delle sue forze quando lavorava in miniera o in fabbrica.
Così mi lascio dare un bacio sulla guancia, per quanto mi faccia un po’ senso. Talvolta afferro una mano che vaga nell’aria anche se è scambiata per quella di una figlia, ma più spesso per quella di una mamma.

Al secondo piano dell’Asilo dei Vecchi c’è Anna, con i suoi 94 anni, una postura perfettamente eretta, lo schema del cammino sciolto e ancora agile senza bastone nè girello. Può salire più volte al giorno quattro piani di scale, ma il suo sguardo è opaco, guarda con sospetto ogni persona che le passa accanto perchè pensa che voglia ucciderla, non parla con nessuno, non partecipa a nessuna attività e, di tanto in tanto, preleva alcuni abiti dall’armadio, li ripone in una borsa di nylon e si siede sulle scale aspettando, a volte anche per intere giornate, un nipote inesistente che la riporti “a la sua casa”.
Al primo piano c’è Giorgio di 68 anni che cinque anni fa ha attraversato la strada ubriaco ed è stato investito da un’auto riportando delle lesioni cerebrali gravissime con gravi conseguenze motorie e cerebro-cognitive. Dopo un lungo ricovero in ospedale, senza figli nè moglie è finito da noi, all’inizio qualche visita sporadica di qualche lontano parente e poi via via sempre più rade. Solo un fratello di tanto in tanto gli fa visita, ma lui sembra non accorgersene, le voci che sente più di frequente sono quelle del personale che si prende cura di lui.
Chissà se pensa, chissa che cosa pensa Giorgio, rannicchiato in posizione fetale, con gli arti raggomitolati e le mani serrate a pugno. Può fare solo delle smorfie quando il dolore, mentre lo mobilizzi o mentre lo lavi, è troppo forte. E’ nutrito con la Peg ed è ovviamente disfagico per cui si dà solo acquagel.

L’altro ieri passando davanti alla stanza di Giorgio, vedo accanto al suo letto Anna.

Mi fermo un po’ stupita e incuriosita mentre Anna cerca di stare sulla punta dei piedi per poter rimboccare le coperte a Giorgio. Ma il letto è di quelli elettrici, alto, con le sponde. Le sue mani artrosiche fanno fatica a passare sotto il materasso e tra le sbarrre.

Intanto gli parla dolcemente, gli racconta di castagne da raccogliere, di mucche all’alpeggio, del dover tornare a casa. E lo accarezza, e Giorgio ha un’espressione beata con gli occhi stranamente aperti. La guarda con una certa espressività che io non gli ho mai visto, addiritttura sembra muovere le labbra e persino gli arti sono un po’ più distesi.
Allora mi avvicino e Anna mi spiega che quello è suo figlio, che lei è lì per curarlo e per riportarselo a casa, ma lui è molto malato.

E’ come se un lampo mi avesse attraversato la mente: ma certo! Quale soluzione migliore per entrambi? e mentre rimprovero tutta la mia razionalità e la mia capacità di pianificare l’assistenza e l’esistenza altrui, capisco che in ciascuno può esserci una soluzione…

A che cosa?

a quello che a noi sembra “IL NULLA”.

Così prendo una poltroncina per Anna, abbasso il letto di Giorgio e tiro un po’ giù le sponde.

Meri

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dualità

Posted by Magamagò on febbraio 09, 2011
cronache / 3 Commenti

Una serata sola in casa: sola? Non proprio: mi fanno compagnia una cagnetta di nome Lulù stravaccata sul divano (si sa, i volpini sono cani da salotto!) e una bimba piccolissima, tanto piccola che è ancora in me, poco più di una speranza, anzi molto più di una certezza, enorme, coinvolgente tutto e tutti nel mio microcosmo. E’ piccola, ma crescerà.
In lontananza una sirena d’ambulanza: non potrebbe essere la Polizia, o i Vigili del Fuoco, o vattelappesca? O, figurarsi, il mio sesto senso (o perchè sono una streghetta come mia nonna bonanima) mi dice di no, e che forse fra poco qualcuno avrà bisogno di me, del mio amore per il prossimo, della mia professionalità, del fatto che in questo piccolo paese, in quel piccolo Ospedale oggi ci sono solo io come Anestesista. Eh sì, bimba mia, hai scelto una mamma con un lavoro un po’ burrascoso e tosto, una mamma che ama l’imprevisto anche se non lo cerca… Suona il telefono: lo dicevo io! Mentre nelle mie vene scorre a fiumi l’adrenalina rispondo, con in mano i vestiti ed il guinzaglio, già pronta per uscire. Poche parole, un romanzo non detto a cui manca il finale. “Un incidente… un ragazzo in coma, c’è bisogno di te… lo conosci”. Volo per le scale, corro in ospedale col cane in macchina che mi segue ovunque fin dove può e poi mi aspetta paziente. E naturalmente porto dentro di me la mia bimba. Scusa Chicca, non vorrei strapazzarti ma laggiù c’è un bimbo cresciuto che sta male e una mamma che dopo tanta fatica rischia di vederlo andar via in un attimo. Scusami non è colpa tua se sono un’anestesista, è casomai colpa mia, ma è il mio lavoro, quello che ho scelto lottando duramente e voglio svolgerlo con impegno e poi fino a un attimo fa tu non c’eri. Al Pronto Soccorso bastano pochi minuti, decisioni rapide prese coi colleghi, alcuni gesti essenziali e l’ immediato colo sembra scongiurato, o almeno rimandato. Ma non basta: bisogna trasferire il ragazzo in un Ospedale più grande, più attrezzato; lo si “carica” sull’ambulanza. E’ così tranquillo ora, sembra che dorma, e invece è in coma e vive solo perchè è aiutato da noi, dai farmaci e da Dio soprattutto. Di nuovo la sirena che lacera l’aria e nella notte buia si ingigantisce di più. Reggiti forte, bimba mia, dentro la tua mamma, anche se ti senti sballottata, anche se sei piccolissima e fragile. Ti abbiamo cercata per anni il tuo papà ed io; non siamo genitori cattivi, nè il tuo papà in camice bianco che al PS ha fatto quello che ha potuto e poi ci ha lasciate salire sull’ambulanza, nè io stessa che mi affanno attorno a questo ragazzo in fin di vita. Vedrai piccolina, non ti succederà niente, Dio non baratta una vita con un’altra e noi lo salveremo anche grazie alla forza tua, la forza della Vita nascente!

Però ti prometto che da domani farò la casalinga e niente più ambulanze, niente stress… e niente strizze!

Magamagò

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