Archive for novembre, 2008

semplici gesti

Posted by il guardiano on novembre 28, 2008
racconti / 1 Commento

La signora del letto 9 era inquietata dal soffitto. Aveva riconosciuto un rosone bianco e nero che per lungo tempo aveva visto in un incubo ricorrente e terribile (durante lo stato di incoscienza). Rivederlo era la prova che l’incubo aveva qualcosa a che fare con quel posto. Sentiva molti segnali acustici, ma non vedeva nessun macchinario preoccupante. Impiegò un po’ di tempo a capire che anche lei veniva curata, e che questo accadeva alle sue spalle. Quando realizzò questo, iniziò a guardare meglio le persone che le stavano intorno. Intanto lei era coricata ed immobile, mentre tutti quelli che le stavano intorno erano in piedi ed in continuo movimento. Si chiese se queste persone avessero chiara la sua situazione, se sapessero bene cosa stavano facendo, se fossero in grado di curarla oppure no. Ma di nuovo la situazione di totale dipendenza e la sua inferiorità comunicativa rendevano queste domande più preoccupanti che altro. Cercò la risposta in quei comportamenti che lei riteneva rassicuranti. Chi le sorrideva la rassicurava, chi la toccava la rassicurava, chi le chiedeva di lei e della sua vita fuori dall’ospedale la rassicura, e sentiva che se mai qualcuno avesse preso una seggiola e si fosse seduto per un po’ vicino a lei, sarebbe impazzita dalla gioia. Così si ritrovò di nuovo di fronte a questioni per lei di fondamentale importanza ma che viste dall’esterno potevano sembrare piuttosto patetiche. Eppure l’unico modo che aveva per giudicare le qualità dei suoi custodi, era quello di valutare il rapporto che riuscivano ad instaurare con lei.C’era una giovane infermiera, che a lei sembrò inesperta perché veniva rimproverata in continuazione da una sua collega altrettanto giovane ma arcigna con cui lavorava in coppia. La signora del letto 9 temeva il loro arrivo la mattina perché l’avrebbero lavata dalla testa ai piedi e avrebbe preso un freddo terribile. L’avrebbero girata sui fianchi e questo le avrebbe fatto un gran male. Ma l’infermiera inesperta era una gran maestra di comunicazione, si avvicinava molto e apriva una bocca larghissima piena di denti bianchissimi in un sorriso incredibile, la chiamava per nome e le diceva con grande attenzione tutto ciò che stava per fare. La collega arcigna procedeva invece in silenzio senza mai guardarla.

Quando iniziarono a lavarla, la signora del letto 9 si accorse dell’importanza di tutta una serie di semplici gesti (cose che si fanno senza neppure rendersi conto, cose che sembrano scontate, naturali, addirittura prive di originalità), pensò a che cosa sarebbe stata quella terribile operazione senza il premio, prima o poi, dell’infermiera sorridente.

il guardiano

era la solita triste storia

Posted by tartaruga on novembre 21, 2008
testimonianze / 1 Commento

Io Babette l’ho vista arrivare in PS e l’ho aspettata… l’ho aspettata due lunghe ore in triage con il marito, a cercare di rassicurare chi non può e non vuole essere rassicurato perchè Babette ha poco più di 30 anni e perchè Babette ha un fagottino di 20 giorni che la aspetta a casa… Poi Babette arriva e scende dall’ambulanza e basta uno sguardo… basta uno sguardo per pensare che questa è una delle solite tristi storie di pronto soccorso, basta uno sguardo per riuscire solo a vedere una strada senza ritorno in quel corpo in cui l’aria circola spinta da chi preme il pallone, basta uno sguardo per non riuscire più a guardare negli occhi il marito, mentre lo consigli per organizzarsi per il latte della bimba… quello sguardo, che per due ore mi ha consumata cercando di capire cosa io sapessi più di lui e non volessi dirgli, l’ho rivisto alcune settimane fa mentre ero nell’atrio dell’ospedale, in una giornata delle più nere, in cui non ti rendi conto che al mondo non esisti solo tu e i tuoi problemi… ma in quello sguardo non c’era più la disperazione rassegnata che ricordavo, c’era una luce di speranza che in pochi occhi ho visto così intensa… ed è scattato qualcosa mentre cercavo nella memoria dove avessi già visto quello sguardo… ODDIO BABETTE! Ed è un attimo in cui inizio a cercare tra i volti nell’atrio, un attimo in cui cerco, cerco, cerco e… vedo un capannello di persone, che piano piano si apre davanti ai miei occhi come un fiore che sboccia ed al centro… Babette con il suo fagottino in braccio!! Ed è un attimo scrosciare in un pianto liberatorio ed è un attimo abbracciarla fin quasi a schiacciare il fagottino, anche se Babette non mi conosce e non ci siamo mai parlate… il marito le dice che sono l’infermiera di cui le ha parlato e che ha aspettato con lui, stringo la mano alla mamma di Babette con le guance rigate di lacrime… e questo mi basta, posso andare a lavorare con un sorriso che da qualche giorno avevo perso, perchè è il lieto fine di cui avevo estremamente bisogno…
(riferito a “il sonno di Babette” del 25/08/08)

tartaruga

via da qui

Posted by joyce on novembre 16, 2008
cronache / 1 Commento

Emanuele oggi esce dall’ospedale… dopo mesi passati tra un reparto e l’altro.
Ho incontrato la madre sulle scale mentre usciva, una giornata memorabile per lei il figlio finalmente lascia questo luogo anonimo e torna a dormire nel suo letto di quando era bambino, torna alla realtà.
una grossa vittoria per lei che in barba a notizie sempre più scoraggianti continuava a vedere il figlio come se da un momento all’atro dovesse alzarsi da quel letto in cui era legato a doppia mandata con tubi, cavi, drenaggi. Mi è sembrata più piccola come se un po’ alla volta si fosse consumata ad aspettare dietro le porte l’orario di visita, ad origliare ogni più piccolo gemito del figlio, a controllare l’integrità di una figura che un po’ alla volta si è trasformata davanti ai suoi occhi, i ineamenti alterati da gonfiori, la voce che per giorni non esce fino al vederlo scrivere con la mano sinistra per una paresi ormai quasi irreversibile.
Eppure sempre lì, ogni giorno, tranquilla, con lo sguardo perso intenta a pensare ai nipotini che avrebbe stretto tra le braccia o a quale pietanze mettere in tavola per la cena di Natale.
Incredula l’ho guardata per mesi accanto al letto del figlio, non capendo questa farsa della vita normale che tanto continuava a propugnare.
Come non accorgersi delle trasformazione in atto come non vedere tutto quel che accadeva attorno al letto del figlio come ignorare le assenze che ogni tanto lo colpiscono come non capire che già solo tornare ad una stazione eretta per Emanuele è quasi un miraggio come ignorare che dopo tanta sofferenza il tumore del figlio continua ad essere lì, racchiuso nella sua testa, fortezza inespugnabile, punto irraggiungibile.
Sembrava quasi di parlare con un automa quasi convinta che il figlio fosse lì per una gita istruttiva o per un suo capriccio e non per un reale problema, come se fosse uno scherzo.
L’ho vista invidiare le dimissioni dei vicini, l’ho vista guardarci con rancore come se fossimo responsabili dell’assenza del figlio da casa sua, dai suoi luoghi, dalla sua vita.
L’ho vista diventare più aggressiva, più rigida e tronfia come una matrona quando lui da solo è uscito dal suo letto per cambiare reparto.
Per i mesi successivi lo intravista trafelata, sulle scale tra un piano e l’altro a rincorrere le diverse degenze del figlio, oggi sulle scale mi ha fermata.Mi ha gridato la sua vittoria e poi tradita dalla stanchezza è scoppiata a piangere.

Quasi senza parole l’ho abbracciata e con voce calma le ho ricordato tutti i progetti che aveva in serbo per il figlio e che durante i colloqui continuava ad enumerare, mi ha guardato stupita e poi come se nulla fosse è riapparso il sorriso beffardo e la vita normale è ricominciata.

joyce

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la signora del letto 9

Posted by il guardiano on novembre 10, 2008
racconti / Nessun commento

Sicuramente la signora del letto 9 non aveva scelto di finire in rianimazione. Ci si ritrovò suo malgrado, senza neppure sapere perché. La prima impressione che ebbe quando si percepì cosciente, fu di grande smarrimento. Cercò di capire che cosa fosse successo tra gli ultimi momenti dei quali aveva ancora memoria e quello che gli stava intorno. Per prima cosa capì di essere in un altro ospedale rispetto a quello di partenza. Decisamente diverso da tutti quelli che potevano essere gli ospedali che aveva visto fino ad allora. Pensò di trovarsi all’estero. Ma tutti parlavano italiano. Pensò allora di essere in un ospedale italiano all’estero. Uno di quelli all’avanguardia gestito da équipe internazionali. Da una porta sul fondo che era rimasta aperta, vide uno scorcio di cortile o balcone in cui vi erano vasi di gerani; ad un certo punto arrivò un ragazzo allegro, che portò del cibo, e lo lasciò proprio nella zona dei gerani. Proprio di fronte a lei erano appese due meravigliose, grandi fotografie di paesaggi. Pensò a tutti i quadri che aveva visto in passato, appesi ai muri degli ospedali, e si chiese chi mai potesse aver scelto tante immagini brutte, e insignificanti, e perché mai nessuno era mai andato a toglierle. Ma quelle foto erano un’altra cosa. Quelle foto indicavano che qualcuno ci teneva molto a quel posto.

Quando smise di guardarsi intorno, la signora del letto 9 si accorse di essere in una situazione di grande svantaggio. Non riusciva a muoversi, provava dolore, aveva molto freddo, e soprattutto non poteva parlare, senza sapere perché, non poteva parlare. Nessuna delle cose che aveva visto fino ad allora riuscì a dare conforto al suo smarrimento. Si accorse che quante più risposte trovava tanto maggiori sarebbero state le domande senza risposta. E questo la stancò enormemente. Decise di rinunciare a qualsiasi indagine. Si scelse una posizione comoda – doveva riconoscere che quei letti erano favolosi – sprofondò quanto più possibile nel materasso, inclinò la testa da un lato e, chiusa nella sua tana privata, si mise a piangere. Pianse perché si faceva pena, pianse di sé, per sé. Era lei l’unica referente del suo pianto.

il guardiano

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la mamma di Deborah

Posted by il guardiano on novembre 05, 2008
racconti / Nessun commento

La mamma di Deborah (con l’h), entrò traballante, sulle gambe corte e arcuate, e con un movimento rapido ma quasi impercettibile, si sedette sul divano di fronte al giovane dottore. Impercettibile perché non c’era molta differenza tra la mamma di Deborah seduta e la mamma di Deborah in piedi. Entrando, non aveva salutato, ma aveva accompagnato il suo ingresso con una serie di parole e frasi, e gemiti, che sembravano parte di un liturgia. Il giovane dottore aspettò una pausa un po’ più lunga fra una litania e l’altra e poi iniziò a parlare di Deborah. Ma aveva appena pronunciato il suo nome che la mamma riattaccò. Sempre più drammatica, e con crescente intensità. Allora, sperando di calmarla il giovane dottore le prese la mano, e le disse che Deborah andava meglio, che si stava svegliando, e che presto avrebbe respirato da sola. La mamma di Deborah rimase per qualche minuto in silenzio e forse in ascolto, ma subito dopo, come se non avesse mai smesso, ricominciò il suo lamento.Loro, i dottori, magari erano bravi e magari no, ma lei sapeva che Deborah non sarebbe mai più stata quella di prima. Gliel’avevano ammazzata. Due volte, e questa faceva tre. Ed era tutta colpa di suo padre, quel bastardo che le aveva fatto fare quattro figlie, e Deborah faceva cinque, senza che mai lei potesse capire che cosa era l’amore. E quando le altre figlie se ne erano andate – puttane pure loro che volevano rubarci tutti i soldi – lei aveva dovuto occuparsi di questa figlia qui che, per fortuna era brava e non faceva male a nessuno. Ma, prima suo padre – che l’aveva mandata a lavorare diosolosadove e le era tornata a casa mezza morta – e poi quel pazzo con il motorino che le era passato addosso, gliel’avevano ammazzata. Due volte, e questa faceva tre. E cosa se ne faceva mai lei adesso di questa figlia morta, e pure risorta, che però non parlava nemmeno più?

Il giovane dottore provò a spiegarle che per la parola era solo questione di tempo, che per il momento Deborah aveva ancora il tubo in bocca che le impediva comunque di parlare. Ma la mamma era già in piedi, pronta ad andare. Aveva sentito abbastanza. Si diresse verso la porta sempre cantilenando, e prima di uscire sorrise al giovane dottore, con quella sua bocca sdentata e storta, gli diede un buffetto sulla guancia e invocò la benedizione del signoreiddio per tutti quanti: per i dottori che le avevano salvato la figlia, e anche per gli anestesisti, che gliel’avevano salvata pure loro, e a posto così.

il guardiano