L’altro ieri ho fatto la mia seconda guardia in UCIC. A differenza della prima guardia, questa volta i pazienti erano, come se fosse possibile, ancora più critici. C’erano due intubati, tre avevano un contropulsatore aortico. Gente più di là che di qua, tutti giovani o giovanissimi.
Prima di andare a dormire, sulle 2, faccio un giro per vedere come stanno i pazienti. Finché entro nel Box 2, dov’è ricoverato un uomo di cinquantotto anni (l’età di mio padre), che poco più di ventiquattro ore prima stava tranquillamente guidando la sua auto in un paesotto di provincia, quando di punto in bianco il suo cuore si ferma. Passano i minuti, arriva l’ambulanza medicalizzata, quella per i casi più gravi. Il paziente è in fibrillazione ventricolare: una scossa, niente, due, niente; adrenalina, atropina, amiodarone, dopamina, intubazione orotracheale; tre, quattro, cinque, sei, sette, otto scosse… C’è un ritmo! In tutto sarà stato morto una mezz’ora. Lo portano all’ospedale. Là perde il polso, si sospetta una dissociazione elettromeccanica, altro massaggio cardiaco, adrenalina e noradrenalina. C’è polso.
Nell’ECG un blocco di branca sinistro non conosciuto. All’ecocardiogramma un cuore ridotto a una poltiglia, stordito dall’ischemia, incapace di contrarsi bene. Il paziente è in un ospedale di provincia, Catalogna profonda: emodinamica? figuriamoci! Si fa fibrinolisi e trasferimento urgente al mio ospedale, nella capitale.
Arriva il paziente, è già notte fonda. L’emodinamista reperibile è già arrivato. Nel bel mezzo dell’ordinato caos della preparazione all’angioplastica primaria, trova il tempo, con la fredda professionalità di chi ha compiuto quei gesti migliaia di volte, di includere il paziente in un grande trial che verrà prossimamente pubblicato in un’importante rivista.
All’angiografia si nota che sia la discendente anteriore che la coronaria destra sono severamente ostruite, per cui vengono messi tre stents nella prima e uno nella seconda. Siccome il paziente è in shock cardiogenico, si mette anche un contropulsatore aortico.
Il paziente arriva in UCIC, dove viene ricoverato e stabilizzato. Come complicazione (come se non bastassero già la morte improvvisa e l’infarto massivo con shock cardiogeno), un’emorragia digestiva alta.
Tornando a noi, entro nel Box 2, e mi trovo di fronte una di quelle scene a cui mi dovrò presto abituare: paziente sedato e intubato, nudo, impotente e incosciente della sua condizione, migliaia di lucine lampeggianti, e bip-bip dei vari monitor, pompe di infusione, respiratore e contropulsatore aortico. Sembrava un albero di natale, con tutte quelle pompe appese ai pali. Otto pompe che gli infondevano, con metodica regolarità, la dobutamina, adrenalina, noradrenalina, eparina, pantoprazolo, insulina rapida, soluzione glucosata e midazolam che lo facevano rimanere aggrappato alla vita. Una vita che aveva cercato di sbarazzarsene, ma grazie all’impegno, al sudore e all’incrollabile dedizione di medici e infermieri era stato strappato alla morte e riportato nel mondo dei vivi.
A quel punto, nella mia inesperienza di neo-specializzando del secondo anno, mi sono detto: “ma se succede qualcosa, cosa posso fare io per questa persona?”. Sono andato a dormire, inquieto.
Avevo freddo, così mi sono rifugiato sotto il lenzuolo e la coperta sintetica del letto del medico di guardia, come se potessero difendermi da quella situazione così critica che avevo appena visto.
E mi sono sentito piccolo piccolo, insignificante, di fronte al duro e spietato mondo che c’era là fuori…
il Catalano