Archive for dicembre, 2011

Notte di Natale in pediatria

Posted by massimolegnani on dicembre 25, 2011
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Ho scelto io questo turno di lavoro poco ambito. Ero convinto che mi avrebbe fatto bene starmene occupato. Ora sono pentito. Il reparto è diventato troppo tranquillo, inanimato, l’ambulatorio s’è svuotato ed anche il telefono ha cessato di squillare. È come se per Natale la gente avesse firmato con noi una tregua, così mi sento una sentinella inutile e temo che l’inazione mi costringa a guardarmi dentro.

Mentre sono lì a rimuginare, vedo di sfuggita una figura entrare in ambulatorio. La raggiungo un po’ svogliato. Ma non mi trovo di fronte una mamma in ansia per il suo piccolo, è una donna anziana, in vestaglia. Mi guarda intimorita, come l’avessi colta in fallo:- Vado via subito- si affretta a dire. Alta, dritta, emaciata, il volto scolpito dalla malattia, gli occhi scavati ma ancora vivaci, la signora non parla. Si muove per la stanza come in un museo e osserva con stupore i grandi dinosauri malati disegnati sulle pareti. Ogni figura viene studiata minuziosamente ed io temo che la donna non ci sia con la testa. – La Medicina ha fatto passi da gigante!- afferma con convinzione. Accenno un sorriso ebete, ma lei prosegue:- finalmente incominciate a capire che dovete prendervi cura delle persone, prima che delle malattie. Queste pareti mi confortano, anche se non sono più una bambina. In queste figure leggo il desiderio di esorcizzare paura e dolore. Ed anche la disponibilità a mettersi in gioco- aggiunge, indicando il vecchio dinosauro con il camice che stranamente mi somiglia.

La signora emana una dignità austera che il turbante di velluto blu, con cui cela la nudità del cranio, non sminuisce certo, anzi accentua, come se quel simbolo inconfutabile di malattia le conferisse un’aura speciale. Non so cosa risponderle, ma mi accorgo che le sue parole mi fanno bene. Desidero che riprenda a parlare. E lei parla, serena, della battaglia che sta per perdere, mi tiene una mano tra le sue, asciutte e calde, come fossi io il malato da confortare.

Poi tace. Si toglie il turbante e lascia che il mio sguardo si posi sul suo cranio lucido. Non abbiamo più pudore. Ci fissiamo muti e sorridiamo senza sapere perché.

La donna si alza in piedi con qualche fatica e mi dà il braccio. Sono le cinque del mattino quando l’accompagno al suo reparto.

Ci lasciamo come due vecchi amici. Un breve cenno della mano che vale più dei tanti insulsi auguri che scambieremo in questi giorni.

massimolegnani

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Cambiamenti

Posted by zarianto on dicembre 15, 2011
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E’ una notte estremamente afosa, come sempre più di frequente se ne verificano negli ultimi anni. Gli inverni miti e le estati fresche riportati dai sussidiari delle scuole elementari, contrapposti agli inverni rigidi e alle estati torride di altri Paesi meno fortunati del nostro, per ubicazione geografica, sono ormai un lontano ricordo. Da tempo l’Italia viene regolarmente presa nella morsa del freddo e del caldo, come annunciano ad effetto, i mezzi stampa, ogni anno. E’ la tropicalizzazione del clima. In questa notte di un caldo e umidità insopportabili, che tagliano il fiato, che per ogni respiro ottenuto affannosamente, cagionano indicibili profluvi sudoripari, capita anche di dover lavorare, di trovarsi a guardia della salute altrui, pronti a intervenire, in caso di necessità, benchè…non ci si regga nemmeno in piedi! Fiaccati da un clima inumano che si appropria dei sonni, di notte, quando, a occhi sbarrati e tra lenzuola madide, si cerca e non si trova la posizione migliore per dormire e che ostacola l’incidere diurno, sempre più sonnolento e rallentato, si reperiscono, dentro e fuori di sè, le risorse da opporre. Così, si spalancano tutte le finestre della stanza, a rischio di essere divorati dalle zanzare e si spingono a manetta le pale del ventilatore: fonda pure!
La città sottostante -il destino beffardo ti colloca anche all’ultimo piano dell’ospedale, dove si accumula l’aria più calda- dorme. Ma dorme davvero, poichè gli abitanti non osano nemmeno uscire di casa. I lampioni illuminano a giorno strade deserte da cui proviene l’eco della voce di pochi ardimentosi che discutono… all’aperto! Quei suoni sono l’unico parametro vitale apprezzabile di un centro urbano in narcosi.
Immancabile giunge una chiamata, che scatena nella mente un’orda di maledizioni, anche in lingue diverse, alcune addirittura morte, poichè si sperava, in tutta franchezza, di averla scampata. Soprattutto perchè si sa bene di essere assai lontani dalla forma, come dire, clinica ottimale, al pieno delle proprie capacità. Ma, con estrema sorpresa, la voce del ricevitore non appartiene a un collega, a un’ infermiere o a un centralinista, bensì… a un amico.
Un amico in grave difficoltà, non di salute, al momento, ma… economica! Trattenendo a stento il pianto e la vergogna, egli racconta di non disporre dei mezzi minimi di sussistenza, del pane, insomma e, di lì a poco, nemmeno più della casa. E’ disoccupato, nonostante trascorra le giornate in file interminabili per un colloquio di lavoro…qualunque, difficile, però, da ottenere a quarant’anni. Emarginato dalla famiglia, lasciato dalla fidanzata che, probabilmente, non hanno energie sufficienti a sostenere altre persone, poichè, a quanto pare, a stento sopravvivono e anche perchè ho l’impressione che alcuni possano considerare la disoccupazione una specie di patologia contagiosa da rifuggire assolutamente e forse non sbagliano di molto, se non perlomeno nell’identificazione del paziente, che in tal caso non dovrebbe essere la persona, ma la società in cui vive, se i tassi di incidenza e
prevalenza -la popolazione colpita, sostanzialmente- sono effettivamenti quelli di una feroce malattia infettiva, ignorato dall’assistenza sociale in quanto single, cioè privo, a questo punto fortunatamente, di altre bocche da sfamare, il malcapitato non sa più a chi rivolgersi.
E allora chiama in tarda serata, furtivamente, come un ladro, col favore delle tenebre, per non essere riconosciuto, evitando anche di esporsi all’attenzione e al giudizio dei famigliari dell’amico che forse lo potrà aiutare, rimettendo nelle mani altrui, l’intera sua dignità! Percependo l’immane difficoltà di chi non ha via d’uscita, lo invito a raggiungermi, nel tentativo di confortarlo. Egli viene in ospedale, all’ultimo piano, provato e non solo per il caldo e si apre. Tornerà poco dopo ai suoi problemi con qualche soldo in tasca, un effimero palliativo.
E poi?
Da almeno vent’anni volano parole come “Lacrime e sangue”, “Sacrifici”, “Tempo di vacche magre” e mi chiedo come si possa essere ancora privi di cura contro la crisi economica mondiale che imperversa da decenni. Si procede tra provvedimenti tampone e misure correttive, ma di eradicazione, nemmeno a parlarne! Il confronto con la medicina è argomento troppo ovvio per essere discusso.
Sortiscono inarrestabili dai meandri della memoria le antiche narrazioni di una nonna a un bimbo che voleva fare il dottore, relative al medico condotto di un tempo, che, dopo la visita domiciliare, non visto, lasciava del denaro sul tavolo della cucina, prima di abbandonare l’abitazione del paziente. Sprofondo nuovamente nella poltrona del medico di guardia e torno a fissare le pale del ventilatore che roteano vorticosamente, allontanando un po’ di quell’arsura irrespirabile dal mio volto e ad ascoltare il silenzio innaturale della città che irrompe nella stanza dalle finestre spalancate, augurandomi che non venga più interrotto dal lamento stridulo e fastidioso del cicalino. Il malessere fisico attutisce il senso d’impotenza e la disperazione solidale che tentano di erompere, ma non vi riusciranno, sopraffatte, anch’esse…dal
caldo!
Fa caldo.  Fa freddo.  C’è crisi.

Zarianto

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Pronto…?

Posted by Bellerophontes on dicembre 05, 2011
emozioni / 1 Commento

Quasi finita.
Esco.
Sigaretta.
Fa caldo oggi, quel caldo afoso che contrasta con il fisiologico bisogno di assumere al più presto il clinostatismo e lasciare calare l’adrenalina.
Non cala, sono le otto del mattino in questa caotica città: i bambini vanno a scuola, il bar dell’ospedale serve i pochi cornetti avanzati dall’orda dei “ragazzi del pronto” che, puntualmente alle sei mezza cercano coccole in un cappuccino forse troppo tiepido, mai così buono eppure necessario.
Occhi gonfi… ok sta scendendo, il parasimpatico riprende con prepotenza il suo ruolo evolutivo e spinge l’uomo al letto e la donna -toste le donne del pronto- a casa,dai bambini o dai mariti, che forse a volte non capiscono perché cazzo la loro compagna di vita abbia scelto quel lavoro.
Jeans, Converse rosse e maglia di qualche festival reggae di chissà dove, sigaretta in bocca e come uno zombie vengo travolto dalla miriade di impegni quotidiani altrui…
-ecchecazzo scansati,non vedi che sei in mezzo alla strada? ma sei fatto?-
-magari-
-vaffanculo-

Vai in edicola
E chiedi il tuo Corriere, non altro.
Sembri solo uno mediamente sfatto che compra un giornale, abbastanza invisibile per i più, riconoscibile appena per il fonendo che tracima dalla borsa col suo plumcake spiaccicato in fondo.
Forse solo per quello in edicola non controllano se i soldi sono buoni.
Stai pensando a cosa avresti sbagliato al posto dei tuoi strutturati e dei tuoi specializzandi, chè rappresenti il fondo della catena alimentare dell’AZIENDA-oddio-ospedaliera e sparare a te non è come sparare alla Croce Rossa, non buchi nemmeno la gomma, al limite, nell’ “area calda” rantoli nel tuo emotorace, questione di dieci minuti, del tutto fisiologica.
Quando esco conto trentadue passi.
Il parcheggio bici delle aule.
Questa sigaretta non è per me, è per festeggiare chi vedo uscire sulle proprie gambe e persino io lo immaginavo sin da subito, ma a volte non ci speravo, quelli che invece riempiranno con gioia le consegne delle cliniche d’accoglimento e quelli che vengono presi mezz’ora prima, sul retro da quell’anonimo furgone bianco senza scritte, interni in nichel, ragazzi 9,30 autopsia….
Pensavo all’inizio che ognuno di quei camioncini rappresentasse un nostro errore, il classico momento in cui ti penti di non aver scelto l’avvocatura, in cui ti chiedi se forse non era quello l’unico caso in cui andava applicato ciò che stai studiando su tomi da duemila e passa pagine, e per gli altri hai avuto solo culo.
Invece ho capito che rappresenta la vita come le auto in coda, il caffè schifoso delle macchinette alle tre del mattino, i maghrebini ammanettati alle barelle da sbirri che portano una bandiera in cui credo e che a volte -poche- meriterebbero che qualcuno gliela facesse mangiare in corsia, la gente che litiga in fila alle poste, quell’ EPA che EPA magari boh…, mah… forse proprio EPA non è fino a che il valore del D-Dimero non sembrava un jackpot dell’enalotto.
O per quel sogno, quel cucciolo con i capelli d’oro che fissi come un ebete, e raccogliere l’anamnesi, da grande onore diventa una seccatura, perché devi scrivere al computer e non puoi perderti nei suoi occhi, e tutto ciò che vorresti dirle è solo: “andrà tutto bene perché io sono qui”, anche se tutto sommato non conti un cazzo.

È particolare.
È dura, ti serve un maestro.
Io l’ho trovata…

Ho ormai fumato la mia quarta sigaretta.
Questa è per voi che entrate distesi in area rossa, col fiato che si spezza nella gola con valori tennistici al saturimetro, forse la squallida lampada al neon sopra il vostro letto sarà l’ultima immagine impressa nelle vostre rètine .
Combatteranno con il cuore di chi non può permettersi di sbagliare ed insieme a volte sbaglia di proposito, perché ricorda che non si cura un cuore malato, ma una persona malata di cuore.

La quinta mi porta a casa e mi insegna che di strada ne manca e tanta…
Darò tutto per i miei pazienti, amore fraterno a tutti coloro che mi lavoreranno a fianco, il mio rispetto e l’obbedienza al mio maestro.

Grazie Pronto,
Sto diventando grande

Bellerophontes

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