Dieci di sera di una guardia qualunque, mezza stagione, calma piatta. Pronto, Dottore, venga giù, hanno telefonato che arriva un paziente grave!” Scendo le scale ed arrivo in Pronto Soccorso in pochi secondi; intanto si sta già annunciando una ambulanza alla porta, scendono poco convinti due militi ed una signora giovane. Sulla barella c’è una povera vecchietta incartapecorita, ormai con un respiro agonico, la “facies ippocratica”, affilata, eloquente segno di una fine incipiente ed ineluttabile. La signora viene introdotta nella stanza di emergenza, il pubblico esce, e rimaniamo nella stanza l’infermiera, la mia collega della Medicina ed io a guardarci negli occhi. Dal punto di vista clinico la situazione è palesemente senza alcuna speranza: è un coma profondo, con un respiro superficiale in una paziente molto anziana, defedata, anzi, per usare un termine poco tecnico, ma efficace, che è consunta, consumata.
“Devo fare qualcosa?” dice l’infermiera. “Cosa vuoi fare?” dico io. “Uno non ha neanche più il diritto di morire in pace…” osserva la collega.
Esco a chiedere qualche notizia in più, tanto per capire. Fuori c’è la responsabile del centro presso cui la signora era ospite, una casa di riposo delle vicinanze; è visibilmente scazzata, forse di essere dovuta venire ad accompagnare, chissà dov’era: tacchettini, camicetta e golfino, ampia gonna, niente di operativo. Magari era in giro ed è rientrata, magari è capace che si è cambiata per accompagnare l’urgenza; i parenti sono stati avvertiti e debbono arrivare.
“La signora prendeva delle medicine ?”. “Certo, gliele hanno date nel corso dell’ultimo ricovero presso l’Ospedale di *** (un piccolo, ma efficiente ospedale di Medicina Generale dei dintorni), ma poi l’hanno dimessa una settimana fa dicendo che non c’era più niente da fare, che le cure non sarebbero più servite a granché”. Il tutto pronunciato con l’aria di dire: non potevano tenersela lì.
Arriva intanto una parente un po’affannata, con gli occhi rossi di pianto: “Sono la figlia!… è …?” “No signora, non è ancora morta, ma non ci vorrà molto… – e qui non so tenermi glie lo chiedo, anche se “cun bel deuit”, educatamente, senza aver l’aria di cazziare “…ma come mai ce l’avete portata qui se vi avevano detto che non c’era più niente da fare?” “Ah, come possiamo sapere noi… siamo mica dottori” sbotta la responsabile “magari qui potevate fare ancora qualcosa… non so… qui siete attrezzati, avete l’ossigeno, noi lì abbiamo mica niente!”
Lascio perdere e torno dentro.
I respiri si sono diradati, sono diventati delle contrazioni del torace; la bocca è aperta, rilasciata. Quante volte ho insegnato agli allievi infermieri o ai soccorritori a ricercare i segni della morte imminente, della cessazione del respiro, del battito del cuore, dello shock per poterli contrastare e per poterli supplire con le tecniche di rianimazione. E quante volte ho visto questa scena, talvolta lottando, per combattere la morte (nessuna retorica, ma sono Rianimatore, è il mio mestiere), talvolta assistendo impotente, quando si tratta di constatare il decesso di chi è vittima di gravi incidenti, talvolta inattivo, cercando solo di alleviare le sofferenze dei pazienti ormai incurabili. E tutte le volte, al di là degli atti tecnici, che vengono compiuti ormai quasi automaticamente, ho sentito un senso di sacralità incombente, quasi di intimità violata, di pudore estremo ad osservare una morte.
Sono diventato tutto ad un tratto come disgustato da quella che mi viene di definire oscenità di questa morte abbandonata così su una barella di ospedale, in un posto dove tante volte si è lottato, ed ora si assiste forse indifferenti e si attende un epilogo previsto.
Non si ha più il diritto di morire nel proprio letto?
Herbert Asch
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