cartoline dall’orlo del vulcano

Posted by Morris on luglio 02, 2011
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Tutti nella vita hanno quello che cercano. Io cercavo una missione. E per i miei peccati me ne hanno dato una“.
Cap. Benjamin Willard (Martin Sheen) in “Apocalypse Now”, F.F. Coppola, 1979.

Oddio, forse come inizio è un po’ pomposo, ma è quello che mi è venuto in mente il mio primo giorno da Dirigente Responsabile del Servizio “Medicina Post-acuti” (si, vabbè, la Lungodegenza) entrando in Reparto.
Dopo anni passati a cercare in qualche modo di ritagliarmi uno spazio mio e di smarcarmi in modo da avere il meno gente possibile sopra la testa, finalmente posso mettere il mio nome sulla tabella in testata al corridoio.
E ora che sono qui, che faccio? Come devo comportarmi per destreggiarmi al meglio in questa sequenza di stanze occupate, sostanzialmente, da poveri vecchi con le 3D (disidratazione, denutrizione, demenza)?
Garantirgli un adeguato apporto di liquidi e di calorie, certo. Evitare che si ulcerino. Cercare di mobilizzarli il prima possibile. Prevenire le infezioni opportunistiche (anche se di tanto in tanto ti tocca di raccogliere un bel fiore di campo come un Clostridio, un Acinetobacter, uno Stafilococco resistente anche alle martellate, in genere gentili omaggi inviati alla zitta dagli altri reparti).
E poi? I posti in RSA dove eventualmente girare quelli che non sono in condizioni di tornare a casa sono sempre meno, e i servizi sociali sono un’entità inafferrabile ed incorporea come la Pace nel Mondo (quando telefoni per cercare un’assistente sociale che ha in carico un determinato caso, la risposta standard di solito è : “E’ in ferie/ è a un corso di aggiornamento/ è in malattia.”).
Quando si avvicina la data della dimissione, pardon, del “reinserimento al domicilio”, di solito ti tocca affrontare parenti che di fronte alla prospettiva di doversi prendere di nuovo carico del cambio pannolini/padella diventano più incazzati dell’orsa a cui hanno toccato i cuccioli; e anche durante la degenza ti tocca affrontare surreali colloqui coi congiunti di poveretti ormai con un piede nella fossa che ti chiedono conto del perché non si fa una TAC o una risonanza “per vedere come sta”.
Senza contare che di tanto in tanto ti capitano situazioni kafkiane come quella della signora trasferitaci dalla Geriatria con una etichetta di “demenza di grado severo”, nonostante conosca persone molto più decerebrate di lei in giro a piede libero per il mondo, cosa che fa sì che a norma di legge non possa essere dimessa perché vive da sola. E siccome i parenti, tutti fuori città , non ne vogliono sapere mezza, ci tocca tenercela finchè il tribunale non delibererà il nome di un tutore legale che potrà occuparsi delle pratiche per trasferirla ad una struttura protetta. E nel frattempo lei ciabatta, sempre più sarcastica, per il corridoio: “Ueh, dottore, allora, me la danno l’amnistia, o mi devo mettere in politica per averla?”
E’ che la lungodegenza è una specie di osservatorio privilegiato di quella specie di Fort Apache che sta diventando il nostro Welfare, assediato dalla crescente pressione di una popolazione di anziani via via sempre più numerosa, con età sempre più alte, con problemi di autosufficienza conseguentemente maggiori, e con famiglie sempre più in difficoltà a farsene carico. Una volta era un punto di onore prendersi cura dei propri vecchi, e quando arrivava il momento, non farli morire in ospedale. Ma erano famiglie con più figli, in cui le donne spesso non lavoravano, e in cui la vecchiaia forse era vista come un traguardo, e non come un disonore come accade invece adesso.
Stiamo in piedi sul bordo del cratere di un vulcano, e facciamo foto da mandare agli amici, pensando che, certo, il vulcano fa paura, ma non si metterà mica ad eruttare adesso. Eppure l’eruzione non tarderà molto, e minaccia di spazzare via il nostro sistema sanitario.
Lo diciamo ai ragazzi che iniziano adesso una professione sanitaria, alcuni dei quali si affacciano a questo blog pieni di belle speranze e di buona volontà, che saranno chiamati a fare, prima ancora che i medici, i “gestori di risorse” e i misuratori della cost/efficacy? Che saranno chiamati a scegliere a chi dare le cure più costose e a chi no, e che fra i “chi no” ci saranno sicuramente i vecchi?
Certo, è una sfida grossa quella che ci aspetta, e bisognerebbe che, nei ritagli di tempo fra le loro mene private i nostri dirigenti cominciassero a farlo capire anche all’ opinione pubblica; sempre che l’opinione pubblica sia ancora in grado di recepire.
L’altro giorno arrivando in corsia mi sono fermato a prendere le consegne dal medico che aveva fatto la guardia di notte, la Grigorieva.
La Grigorieva è una collega di origini russe che viene da noi a coprire dei turni di guardia a libera professione. E’ giovane, carina, molto precisa. E, ahimè, piuttosto carente di malizia. Di ritorno da una vacanza ai tropici, ha portato le sue foto ricordo con una chiavetta e le ha salvate sul computer della medicheria; solo che in quelle foto compare con fidanzato palestrato d’ordinanza, e uno strepitoso microbikini rosso. Così le immagini sono diventate di pubblico dominio presso tutti i bipedi maschi dell’ospedale (in prevalenza in ragione del microbikini, per una minoranza in ragione del fidanzato palestrato), e qualche bello spirito ha perfino suggerito di usarle per il calendario di reparto.
Quindi da allora parlare con lei considerandola solo professionalmente ed in maniera asessuata è diventata una specie di esercizio zen. A me viene più facile se la chiamo per cognome: se socchiudo gli occhi mi viene in mente una robusta ed affidabile badante slava, con grosso modo lo stesso girovita di uno scaldabagno.
La Grigorieva, puntigliosamente, mi espone tutti gli interventi che ha fatto sui nostri pazienti, e arriva infine al caso di una paziente che, ipotesa ed anurica da ieri sera, è stata messa sotto Revivan, con un lieve miglioramento del quadro. Pensando di non aver capito bene, apro la cartella in questione e l’occhio mi cade subito sulla data di nascita sul frontespizio: 1909. Paziente con, lei sì, grave demenza vascolare e un avanzato marasma senile. Praticamente uno scheletro ricoperto di pelle diafana ripiegato in triplice flessione.
“Scusami, Grigorieva, fammi capire, vuoi dire che stiamo tenendo a galla per i capelli con la Dopa una donna di 102 anni?”
Lei mi guarda un po’ sulla difensiva , e fa spallucce.
“E che ci devo fare io ? Quando mi hanno chiamata a vederla ieri sera, e mi sono resa conto che la signora ne aveva per poco, l’ho fatto presente alla figlia. Lei mi ha guardata sconvolta e ha gridato: Ma come, così, tutto all’improvviso?”

Morris

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se non c’è urgenza

Posted by Morris on novembre 13, 2010
racconti / 2 Commenti

Dunque, mi chiamo, diciamo, Priscilla, e vi scrivo tramite quell’individuo inaffidabile di Morris perché è lui quello che ha fatto il classico, e in qualche modo dovrà rendersi utile, visto che l’ho sposato.
Sono anch’io medico (si, è un classico, i medici si sposano fra di loro perchè la loro è una vita di sacrifici, di turni impossibili ecc, ecc e chi meglio di un collega può capire ed esserti vicina, tanto per andare alla sagra dei luoghi comuni) e ormai da una vita faccio “provvisoriamente” la guardia medica sul territorio (o, come si dice adesso, “Continuità assistenziale”, che fa più figo).
Quando cominciai a fare guardie, tanto tempo fa, mi trovai una sera in turno con un collega non più di primo pelo e quando gli chiesi perché era ancora lì mi rispose: “Mah, vedi, questo può sembrare un lavoro da schifo, però quando al mattino smonto e mi incrocio con gli schiavi che entrano in ospedale con il capo chino e il pensiero del Primario, del Direttore sanitario, del Direttore amministrativo ecc. ecc. che gli alitano sul collo, mentre io sono libero di andare a pescare, ti dirò, mi sento quasi felice”. Allora mi sembrò un’eresia, ma con il tempo ho cominciato a capire un po’ di più il suo punto di vista.
Il fare prevalentemente turni notturni ti dà effettivamente la possibilità di avere tempo per la famiglia durante il giorno che gli altri lavori non ti danno. Lo svantaggio, intuitivo, è che se la notte stai sveglia e di giorno fai la mamma (e per di più una mamma di oggi, di quelle con l’horror vacui, che se non riescono ad occupare ogni istante libero loro e dei figli con qualche impegno le prende l’angoscia) prima o poi ti capita di stramazzare al suolo.
Ho trovato la quadratura del cerchio ottenendo, grazie all’anzianità acquisita, l’ambito posto presso una sede periferica con un tasso di chiamate decisamente più accettabile di quello dell’ area urbana. Si, possono capitare notti di tregenda con chiamate da poderi dispersi mentre fuori c’è un tempo da lupi, ma di tanto in tanto c’è un bel turno in cui il telefono sembra essersi dimenticato di te.
L’altra faccia della medaglia è che qui sei sola, completamente sola; sola con i tuoi dubbi, con la paura di sbagliare; non hai dietro di te laboratorio, radiologia, consulenti; nemmeno un collega di guardia con cui scambiarti un parere. La decisione è solo tua, e tutte le notti devi tirare la tua monetina mentale per decidere se quel dolore addominale giustifica un Buscopan o un invio in ospedale, e speri sempre che cada dal lato giusto, la monetina.
Ma oggi non ci sono monetine da lanciare, non ci sono alternative possibili. “Ci sarebbe da constatare un decesso”. Quante volte ho sentito questa frase. Solo che stavolta al telefono c’è il maresciallo dei carabinieri, e come indirizzo a cui recarmi ho solo un chilometro della strada statale. “Tanto quando arriva lì ci vede, ci siamo noi, i vigili, l’ambulanza….”
Lì è un punto in cui la statale costeggia il fiume che scorre diversi metri più in basso, c’è un parapetto, da cui si vede un sentiero lungo l’argine, asfaltato per fungere da passeggiata turistica. Solo che non sono turisti a percorrerlo oggi, ma solo figure in divisa. E in mezzo a loro, stesa sotto un lenzuolo macchiato di rosso, una sagoma.
C’è una scalinata che dalla strada porta al lungofiume, e la scendo con una sensazione di straniamento: guardo la scena come dall’ esterno, come se quello fosse CSI e io stessi guardando un episodio alla TV.
Il maresciallo mi deve vedere un po’ bianchina, e mi prende da parte. “E’ solo una formalità, dottoressa. Si è buttato da lassù, vede? E’ senz’altro morto sul colpo. Quelli del 118 gli hanno già fatto il tracciato e hanno preparato il certificato di morte, c’è solo da firmarlo, così possiamo spostare la salma.”
Mi faccio forza e mi avvicino alla salma. L’infermiere catafratto nelle sua bella tuta tattica arancione mi porge una risma di fogli e un ECG rigato da una serie di linee piatte parallele. Guardo i certificati e ,quando vedo il nome del morto posto in intestazione, ho un flash back.
Sono tornata ad una chiamata di circa quindici giorni fa: “Venga , dottoressa, faccia in fretta perché abbiamo un nonno un po’ fuori controllo.”
Fuori controllo, direi, era un eufemismo. Il nonno in questione, ospite di una delle tante case di riposo della vallata, era addossato spalle al muro e biascicava frasi scommesse con uno sguardo che non prometteva niente di buono. Soprattutto perché impugnava un paio di forbicioni lunghi una ventina di centimetri.
Va bene, voce calma, mantenere la distanza, non perderlo di vista. Per prima cosa bisogna avvisare i familiari (“Mah, dottoressa, che vuole, coi figli non va d’accordo, non si fanno vedere praticamente mai”).
OK, allora chiamate i vigili urbani e il 118, che cerchiamo di fare un ASO (per fare il TSO mi servirebbe un secondo medico in controfirma, e dove lo vado a trovare di domenica?). Chiamo il centralino dell’Ospedale provinciale, e chiedo di cercarmi lo psichiatra in turno in “Diagnosi & cura” per avvisarlo del bel personaggino che sto per inviargli. Mi risponde una collega che, alle mie spiegazioni, fatte sempre controllando con la coda dell’occhio che il potenziale accoltellatore non si sposti dal suo angolo, risponde, con tono scettico: “Mah, non potete dargli qualcosa per calmarlo un poco? Se non c’è urgenza, io giovedì sono in ambulatorio in consultorio lì da voi e così lo vedo e gli aggiusto la terapia….”
Come no, mi viene da dirle, gli procuriamo anche un cartamodello e una bella pezza di tessuto frescolana, così di qui a giovedì con i suoi forbicioni ti prepara un bel tailleurino pronto da indossare.
No guarda cara, sono arrivati il 118 ed i vigili, se ce la facciamo lo carichiamo e te lo spediamo. Adesso chiudo, ciao.
Ci vuole un po’ molta pazienza, poi il vigile del paese, che lo conosce, lo convince a posare le forbici. Con molta cautela, riusciamo a fargli un Serenase, e a convincerlo a salire sull’ambulanza. Quando è tutto finito sono stremata, e non so cosa darei per allungare le gambe sul mio divano sorseggiando un bel the. Invece mi aspettano ancora quindici ore di turno.
Tutto questo mi è tornato in mente perché quel povero mucchietto di ossa rotte sotto il lenzuolo è il mio vecchietto coi forbicioni. Quando lo ho inviato all’ ospedale, lo hanno visitato, lo hanno tenuto in osservazione per qualche ora, “visto che il paziente si mostrava tranquillo e collaborante”, lo hanno rispedito alla struttura di invio con una terapia neurolettica più forte che, con tutta probabilità, si è guardato bene dall’assumere. E per fortuna prima di buttarsi giù dal cavalcavia non ha avuto l’idea di impugnare di nuovo le forbici e di portarsi dietro compagnia nel suo ultimo viaggio.
Ecco, in quest’anno in cui cade il trentennale della morte di Basaglia si è fatta tanta retorica. Ci si dimentica purtroppo spesso che la pazzia e la demenza sono spesso una prigione peggiore di un ospedale psichiatrico, che finisce per rinchiudere non solo i malati ma anche chi deve vivere a loro vicino, e che le strutture che devono seguire questi malati sono terribilmente sottodimensionate e insufficienti.
Mah, cerchiamo di non pensarci. Finalmente sono sul mio divano; e questo bel the dolce e ben zuccherato penso proprio di essermelo meritato.

Morris

la soglia del dolore

Posted by Morris on maggio 31, 2010
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“Voi uomini avete una soglia di sopportazione del dolore così bassa che se sbattete il gomito contro uno spigolo non sentite la scossa, cadete fulminati. Poi si lamentano se noi facciamo l’epidurale per partorire e loro farebbero l’anestesia anche per farsi la barba. ” da: le più belle frasi di Luciana Littizzetto.

Ho riletto già un paio di volte questa frase che campeggia nel mezzo della mia pagina di Facebook e mentre la guardo ancora sento che mi monta dentro un’ ondata di rabbia.
Mi ha mandato questa riflessione una povera di spirito che per disgrazia ho accettato fra i miei amici: già non la sopportavo al liceo, e risentendola tanti anni dopo ho avuto un’ ulteriore conferma del fatto che le persone non migliorano col tempo come il vino: possono solo peggiorare. Figurarsi, ha messo come foto iniziale del profilo un’ immagine in bikini palesemente di almeno dieci anni fa in posa da strafiga, e continua a postare come perle di saggezza aforismi che scarterebbero anche per i Baci Perugina.
Ma questa qui no, non la reggo proprio. Non è perché anche oggi ho visitato l’ ennesima fibromialgica che, quando le ho appoggiato un dito sotto la scapola, si è contorta ed ha urlato come se l’ avessi trafitta con un kriss malese. Poverette, oramai le capisco, le mie fibromialgiche, e le tratto anche abbastanza bene, con adeguate parole di conforto. Non è colpa loro, è che le disegnano così, come Jessica Rabbit.
No, quello che mi rende insopportabili queste parole è che oggi sono andato in camera mortuaria a dare l’ ultimo saluto a Roberto.

Roberto era un collega con cui ho percorso praticamente tutti questi anni di lavoro, anzi, uno dei pochi che oltre che collega potevo definire anche un amico. Abbiamo iniziato insieme con le prime guardie mediche sul territorio, siamo stati assunti praticamente insieme in questo ospedale, per un po’ abbiamo lavorato insieme nello stesso reparto.
Quindi una riorganizzazione interna lo ha “convinto” a passare ad un rapporto di collaborazione libero-professionale, a cui si è adattato inizialmente con un po’ di frustrazione, poi con un impegno ed una professionalità che lo hanno portato ad essere uno dei più stimati e richiesti specialisti del circondario.
Era uno di quei medici che teneva a darsi un tono e ad avere un’ immagine consona al suo ruolo, sempre in cravatta ton-su-ton con la camicia, d’inverno con il panama leggermente inclinato, e la sua naturale eleganza strideva un po’ con i miei pantaloni stazzonati e le mie magliette da 7 euro al supermercato. Ma si capiva che il suo atteggiamento non era un volersela tirare, ma una forma di rispetto verso i suoi pazienti che “volevano” vederlo così.
Poi, alcuni anni fa, le prime avvisaglie; difficoltà a respirare in certi momenti, alla sera sempre più spesso un po’ di febbricola.
L’iniziale atteggiamento da struzzo di tutti noi che lavoriamo in sanità (cosa vuoi che sia, passerà da solo); quindi i primi accertamenti, con risultati interlocutori. Si sa, curare un collega non è mai semplice, così di fronte ad un esame negativo o dubbio di solito il consiglio è spesso di rivolgersi ad un altro specialista “sicuramente più pertinente al tuo caso”.
Così di controllo in controllo, lo vedevo sempre più stanco e preoccupato. Mi aveva confessato che per tenere sotto controllo la febbre e attenuare la sensazione di spossatezza aveva cominciato ad assumere regolarmente del cortisone. Poi, finalmente, all’ ennesimo controllo la diagnosi : una forma leucemica rara, “una di quelle classiche cose da una su un milione che capitano solo ai medici”, disse l’ ematologo con grande tatto e sensibilità.
Iniziò così il solito calvario; i cicli di chemio, accertamenti sempre più serrati ed invasivi, la nausea, i capelli persi, la faccia gonfia per i farmaci, il colorito sempre più pallido.
Ciò nonostante continuava sempre il suo lavoro, con l’ attenzione e la cura di sempre: la mattina andava a fare la chemioterapia, il pomeriggio veniva da noi a svolgere il suo ambulatorio , non prima di essersi fatto sparare in vena uno Zofran ed un desametazone.
In ultimo portava un busto , perché le vertebre rese sempre più fragili dai cortisonici avevano cominciato a cedere. Vedevo il dolore che gli costava ogni movimento, ed era una sofferenza anche per me. Una volta, capendo quello che stavo pensando, mi disse:” Ho dei figli piccoli, è importante che non pensino che mi sto arrendendo”.
In questi anni mi è capitato di perdere diversi colleghi. Alcuni, dopo essersi ammalati, sono semplicemente spariti, come i vecchi eschimesi, che quando sentono prossima la fine si allontanano dal villaggio e si perdono nel bianco.
Roberto no, quando non ce l’ha più fatta si è ricoverato da noi, anche perché i luminari che l’ avevano assistito e che fino a poco tempo prima gli avevano garantito che era sulla soglia della remissione vedendo la situazione precipitare si erano improvvisamente tirati indietro.
Così siamo stati costretti a seguire il suo declino, e abbiamo potuto ammirare la dignità con cui lo sopportava.
Quando infine lo abbiamo trasferito ad una struttura “sicuramente più pertinente al suo caso”, lo sono andato a salutare mentre gli ambulanzieri lo portavano via.
“Cerca di tornare presto”, gli dissi, e sapevo che non sarebbe tornato.
“Vedrò di non deluderti”, rispose con un debole sorriso, e dal suo sguardo capii che lo sapeva anche lui.
Ecco, stamattina lo sono andato a salutare per l’ ultima volta alla camera mortuaria. Ai familiari non ho potuto dire altro che in casi come questo mi sento inadeguato come medico e come uomo.
Inadeguato. Non mi viene nessuna altra parola.
“Voi uomini avete una soglia di sopportazione del dolore così bassa…”
Sotto alla scritta occhieggia, invitante, il link “commenta”.
Che dite, se la mando affanculo e la cancello dai miei amici di Facebook sono troppo cattivo?

Morris

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Haiti, oh cara

Posted by Morris on aprile 20, 2010
pensieri / 1 Commento

I turni di guardia notturna sono spesso un occasione per portare avanti un po’ di lavoro che altrimenti durante il giorno non ci sarebbe tempo o voglia di affrontare. Ci sarebbe quella procedura interna da aggiornare, ci sono da preparare le statistiche semestrali sulle infezioni ospedaliere, ci sarebbero… E in genere ti dici sempre, beh, ci penserò la prossima sera che sono di guardia se il reparto è tranquillo.
Questa è una di quelle sere, e sto smaltendo con una certa rapidità le mie scartoffie.
Bene, mi sono meritato un caffè, la macchinetta è qui vicina, e anche se emette una broda ignobile ormai ci sono assuefatto.
Con il bicchierino fumante in mano, torno al computer e vado a cercare su Internet le ultime notizie.
Sono passati pochi giorni dal terremoto ad Haiti, e, smaltita la sbornia iniziale dei media, le notizie sul dopo-sisma sono ormai diventate più scarne. Vado sul sito On-line di un noto quotidiano e la notizia di punta, a tutto schermo è: “Brad e Angelina si lasciano! Tutti i particolari!!”.
Un po’ più sotto, con grande rilievo: ” Perché il Tal dei Tali è stato eliminato da “Amici”: tutti i retroscena segreti!!”.
E quindi, con ampio rimando nei servizi sportivi, il sobrio commento sulla vittoria di un gruppi di strapagati signori in braghette su un altro gruppo di strapagati signori in braghette (” EROICI!!!!”).
Le notizie da Haiti sono su un link piccolino a fondo pagina (“Incertezza sul numero delle vittime: 75000? 100000?150000?”, e chi se ne frega, sembra di capire dal tono); un’altra notizia, è data con più risalto: “Scandalo! Medici ad Haiti mettono su Facebook foto choccanti!” (eh, signora mia, dove andremo finire).
Seguono alcune delle foto scandalo, in cui si vedono alcuni dei medici in questione, inviati da Portorico per contribuire ai soccorsi, che bevono birra, si producono in atteggiamenti goliardici, impugnano fucili a pompa.
Certo, sono foto che viste così non fanno un bell’effetto, ma poi mi chiedo: se noialtri, abituati alle nostre corsie asettiche, ai nostri ritmi costanti, alle nostre belle flow chart decisionali si/no, ai nostri “Mhhh… prima di operare voglio il via libera dell’anestesista-voglio il via libera del cardiologo-voglio un’altra Tac-voglio 5 sacche di O negativo”, ci trovassimo catapultati dall’oggi al domani lì, in un Inferno che fa sembrare al confronto una linda clinica svizzera l’ospedale da campo della Wehrmacht a Stalingrado, come reagiremmo? Non capiterebbe anche a noi di avere atteggiamenti cinici, o di fare cose stupide per allentare la tensione, per non impazzire?
Ma no, queste cose non si fanno: ormai siamo talmente convinti che la realtà virtuale che ci siamo costruiti sia il mondo vero da pensare i medici e gli infermieri devono per forza essere come quelli di E.R., i poliziotti come Montalbano, i professori come Mr. Chips e che la vita è un enorme villaggio vacanze in cui gli altri sono animatori o camerieri al nostro servizio.
L’invecchiare, l’ammalarsi, il morire, non sono entità contemplate, almeno per noi. Gli altri… beh, gli altri sono gli altri (e a loro penserà qualcun altro).
Giusto in tempo per interrompere le mie riflessioni prima che vadano troppo in là, entra nello studio uno dei nostri infermieri, uno in gamba, con una cartella in mano.
“E’ della 306A, una signora di 93 anni con neoplasia gastrica e carcinosi peritoneale. I familiari vogliono parlare con un medico perché non la vedono bene e sono preoccupati”. C’è un attimo di silenzio. Mi guarda in faccia, e capisce parola per parola quello che sto pensando.
“Faccia con calma, dottore, quando ha un attimo…”
“Cinque minuti, Marco. Cinque minuti e sono da loro”.

Morris

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lost in translation

Posted by Morris on gennaio 09, 2010
racconti / 3 Commenti

Mio nonno Mario era un marinaio; o meglio, lo era stato negli anni della guerra. Faceva il macchinista sui sommergibili, e non parlava volentieri di quella esperienza.
Ma in quegli anni aveva maturato un amore per il mare che era durato per tutta la vita e una refrattarietà ai lunghi discorsi. Certi anni durante l’estate ospitava noi nipoti a un capanno da pesca che aveva in riva all’Adriatico, e anche noi bambini eravamo sottoposti alla disciplina marinaresca; non ci toccavano l’alzabandiera ed i comandi col fischietto, ma quasi. Era un uomo molto burbero ed incazzereccio, scettico a priori sul genere umano (l’aggettivo con cui più spesso lo sentivo definire una persona era “cl’imbazel”, quell’imbecille), ma talora capace di slanci sorprendenti.
Come quel giorno di fine estate in cui stavamo aiutandolo a portare le sue cose lontano da riva, perché si stava preparando una burrasca coi fiocchi.
Avevamo già tolto dalla barchetta con cui stendeva le reti “da imbrocco” i remi e tutte le parti rimovibili, portandole al capanno, e così alleggerita ci preparavamo a tirarla in secca quando notammo un assembrarsi di gente sulla riva che vociava e indicava al largo. Guardai nella direzione indicata e mi si drizzarono i capelli in testa; in lontananza, in mezzo a un mare teso dal vento di terra e ormai del colore del piombo, un uomo nuotava affannosamente rincorrendo un materassino rosso e blu, in volo sul pelo dell’acqua venti metri davanti a lui.
” E’ un tedesco, il vento gli ha portato al largo il materassino e quel patacca, anziché lasciarlo andare si è intestardito a riprenderlo”.
A quel tempo non c’erano, come adesso, bagnini tecnologici con l’acquascooter. Si poteva contare solo sul moscone rosso, e tornare indietro a forza di braccia con quel vento contrario sarebbe stato una bella rogna .
Mario non ci pensò su due volte. Avevamo smontato il fuoribordo dalla sua barchetta, ma non lo avevamo ancora portato al capanno. Lo rimise a posto avvitando i morsetti con due giri secchi e svitò il tappo del serbatoio, leggero in maniera inquietante. In fondo al contenitore sciacquettava un misero residuo di miscela.
“Nonno, devo andare al capanno a prenderti la tanica della benzina e i remi?”, chiesi.
” Si, così intanto cl’imbazel us’ anega” fu la risposta. Senza dire altro, Mario girò la barca, avviò il vecchio Mercury con uno strappo e si diresse verso il bagnante, ormai un puntino al largo. Raggiuntolo, lo fece salire a bordo e affrontò il ritorno con il povero 4 cavalli che ansimava per vincere il mare contrario.
Per fortuna la miscela bastò.
Giunsero a riva assieme con le prime gocce di pioggia. Il tedesco, stremato, fu abbracciato dalla moglie; nello scambio di parole con lei, mi parve però dall’intonazione di capire che fosse arrabbiato. Con un evidente imbarazzo il bagnino ci tradusse: ” E’ incavolato perché non è riuscito a recuperare il materassino….”.
Mio nonno alzò gli occhi al cielo e commentò lapidario: “A certa gente è più facile mettere qualcosa “int’e cul che non in testa”, e con questo chiuse la faccenda senza ulteriore superfluo uso di parole.
Una cosa che mi è sempre piaciuto del mestiere del medico è spiegare le cose; il chiarire le dinamiche del nostro corpo, il come “si guasta”, come dovrebbe funzionare una terapia è per me sempre un piacere, e nel farlo, soprattutto con i nostri anziani, mi giovo spesso del dialetto che grazie a tutor di madrelingua come Mario padroneggio bene.
Ciò nonostante talvolta ho la sensazione di parlare una lingua straniera, e quando dopo un bel discorso fatto evitando il più possibile tecnicismi, sigle e i termini anglosassoni tanto di moda mi sento rispondere “Eh?” da uno che mi guarda come un marziano appena sbarcato dal disco volante, mi prende lo sconforto.
Alcune notti fa mi capitò di essere chiamato in Reparto al capezzale di un’ anziana signora con una demenza vascolare, ricoverata per un focolaio broncopneumonico; la paziente, nonostante la terapia in corso, respirava con grande difficoltà, con uno spiccato broncospasmo. A rendere più difficoltoso il tutto, lì a fianco si trovava la figlia, agitatissima, che “esigeva” che si facesse subito qualcosa per la mamma. Scorrendo la cartella, alla voce allergie farmacologiche, trovai, orrore , un “allergica al cortisone”, che il collega redattore del documento aveva comunque cercato di mitigare con un punto interrogativo fra parentesi. Che lui per primo non fosse convinto dell’allergia lo testimoniava il fatto che la signora si stesse facendo da alcuni giorni uno steroide inalatorio. Interrogata su questa presunta intolleranza, la figlia fu categorica: “Ah, no, non lo può proprio fare, è allergica: una volta che lo ha fatto è diventata tutta rossa in faccia e le è salita la pressione!”
Indossando la mia miglior faccia tipo “maestro-elementare-che-spiega-le-divisioni-all’alunno-zuccone”, partii a spiegarle che quella non era un’allergia, erano effetti collaterali dipendenti dalla dose somministrata, dal tipo di cortisonico, perfettamente controllabili e comunque sicuramente quasi irrilevanti in una situazione grave come quella attuale. E poi , scusi , se la signora fosse veramente allergica, il cortisone non potrebbe farlo neanche per aerosol…
“Ah – mi sentii rispondere – ma quello lì non è mica cortisone sul serio!”
Sospirai, e con calma risposi che in ogni caso eravamo in un ospedale, che avremmo potuto gestire l’eventuale rialzo di pressione (in quel momento la paziente era anzi ipotesa), e che in definitiva mi prendevo io la responsabilità. La figlia brontolò qualcosa, ma finalmente diede il via libera; e così, dopo un oretta di attenzioni e cure fra le quali era compreso anche un bel boletto di idrocortisone, finalmente potei lasciare la signora con una obiettività e dei parametri decisamente migliorati.
Forse non saremmo andati molto in là, ma sicuramente avremmo passato la notte, che poi in fondo è l’inconfessato obiettivo di quasi tutti i medici di guardia.
La mattina, prima di smontare, mi andai a rivalutare la paziente: i parametri, riferitimi dall’infermiere erano soddisfacenti. Quando però entrai in stanza, dove la signora dormiva tranquilla con un respiro abbastanza regolare, ebbi un sobbalzo. La figlia, dopo aver passato la notte a fare assistenza, era tornata a casa a riposare. Non prima però di aver lasciato, a testimonianza che per quanto potessi aver detto o fatto non ero riuscito a convincerla, un post-it giallo attaccato alla testata del letto su cui era scritto, a lettere tutte maiuscole: “ALLERGICA AL CORTISONE! NON SOMMINISTRARE!!!”.
Oh, Mario, vecchio marinaio, quanto avevi ragione!

Morris

diversamente felice

Posted by Morris on ottobre 20, 2009
cronache / 1 Commento

Ci sono giornate in cui ti senti in guerra col mondo intero, e in cui purtroppo il mondo sembra a un passo dalla vittoria finale.
Le nuove linee guida dell’ASL, la governance, la prossima settimana abbiamo la verifica per la qualità, oddio, saranno a posto tutti i documenti. “Dottore, ci sarebbe da adeguare il massimale dell’assicurazione professionale, perché sa, al giorno d’oggi…” “Dottore, sono la Benedetta, sto facendo i turni delle guardie per il prossimo mese e ho un bel po’ di fine settimana scoperti, mi dà una mano?”
Poi, lavorando in un ospedale, ti capita occasione di scoprire che in fondo molte cose di cui ti preoccupi sono futili, e che l’essere perennemente incazzato come il Dottor House non è un obbligo, ma una scelta, probabilmente la più facile e anche la meno coraggiosa.
Ieri l’ altro ci è arrivata in reparto, inviata dal Pronto Soccorso una paziente di quelle che contraddicono l’Harrison. Se si va a leggere l’illustre tomo alla voce “Sindrome di Down” si scopre che difficilmente i portatori di questa condizione raggiungono età avanzate, per il più rapido instaurarsi di patologie cardiovascolari e per l’accresciuta incidenza di malattie tumorali. La nostra paziente però, Down, sessantaseienne, non ha mai letto quel capitolo, e probabilmente nessun altro capitolo in vita sua, e, come il calabrone del famoso aforisma, a cui nessuno ha detto che con quelle alucce e quel corpaccione è impossibile che possa volare, ha svolazzato più o meno bene fino a questa età.
Fino all’incontro con una malaugurata “polmonite acquisita in comunità”, e adesso giace in un letto di ospedale, con un respiro superficiale e rantolante, e l’abbandono di una marionetta a cui qualcuno ha tagliato i fili. La visito scettico, guardo la parsimonia con cui il numero sale sul display del saturimetro e mi viene da pensare che questa paziente probabilmente non la ritroverò al giro di domani pomeriggio. Imposto ossigeno in maschera, antibioticoterapia ad ampio spettro, broncodilatatore, un po’ di cortisone che non fa mai male.
Fuori dalla stanza trovo un paio di signore non più giovani neanche loro. Mi dicono che sono le cugine “della mongolina”, e curiosamente in quell’appellativo non colgo scherno o disprezzo, ma solo affetto. Sono le uniche parenti ancora in vita, le uniche persone che si preoccupano di lei e la vanno a trovare nella RSA dove è ospitata. Spiego loro che la situazione è grave, che le prime ventiquattr’ore dopo il ricovero sono le più critiche, che purtroppo questi sono pazienti fragili, con risorse più deboli. Le solite menate, insomma. Capiscono, mi ringraziano, sono addolorate e preoccupate, ma fiduciose in noi e in qualche modo anche preparate al peggio. Trovarne, di parenti così.
Il giorno dopo quando entro in turno alle 14 noto qualcosa di strano in Reparto. Lì per lì non riesco a capire che cosa sia: sembrerebbe quasi…
No, è impossibile. Sembra proprio buonumore.
La caposala, che è sempre sull’orlo della crisi di nervi, ha un sorriso sulle labbra. Persino l’aiuto anziano, che da quando c’è il nuovo primario ha sempre l’aria di uno che viene a fare il giro con le scarpe di due numeri più piccole, sta canticchiando qualcosa a mezza bocca.
Già comincio a fare ipotesi sul possibile malfunzionamento dell’impianto di condizionamento che probabilmente mette in circolo un qualche anestetico, quando un infermiere mi fa: “Ehi, Doc, vuol farsi due risate? Perchè non va a dare un occhiata alla 320?”
La 320? Ma è la stanza della mia “mongolina”! Entro e non riesco a credere ai miei occhi.
La moribonda di ieri è sveglia e vispa come un grillo, e, abbracciata ad un enorme coniglio rosa di peluche, ride, ride di una risata limpida e contagiosa, puntandomi contro una sguardo pieno di gioia, della felicità di essere qui, di esserci adesso, più forte dell’Harrison, dei dottori presuntuosi e pessimisti, delle nostre idee preconcette.
E, diamine, è più forte di me, ma scoppio a ridere anch’io.

Morris

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come l’acqua del fiume d’estate

Posted by Morris on luglio 04, 2009
cronache / 2 Commenti

E’ giunto quel momento della notte in cui ci si può chiudere in stanza e pensare di stendersi sul letto a cercare di dormire un poco.
L’attività nei reparti è come congelata, e si sente solo il borbottio dei gorgogliatori dell’ ossigeno, lontano e sommesso. Lontano, forse due piani più sotto, un anziano allettato ripete il suo lamento, ormai, più che disperato, stanco e poco convinto.
Sì, sarebbe bello stendersi, chiudere gli occhi, e dormire di quel sonno profondo che riuscivi a ritagliarti anche nelle notti peggiori quando eri un poco più giovane. Adesso è diventato più difficile. I pensieri si sovrappongono, si intrecciano, idee che magari durante il giorno ricacci in seconda linea nel silenzio della notte affiorano e ti legano a loro, allontanandoti dal sonno.
Allora accendi la televisione, con il volume azzerato, e cominci a scorrere i canali: vecchi film, televendite, una ragazza in body trasparente che risponde a un telefono erotico; ha uno sguardo assonnato e pieno di disincanto, e mi viene da pensare che anche lei in fondo indossa una divisa e sta svolgendo un turno di guardia di notte.
Il telefono che suona, con quel suono che di notte ti sembra ancora più odioso. Medicina, stanza 312, il paziente del letto A è peggiorato.
Una volta in reparto, tardo poco ad accorgermi che la situazione lascia ormai poco spazio di manovra. Carcinoma polmonare con impegno mediastinico e metastasi ossee. Saturazione e pressione in calo. La Medicina tecnologica, con le sue sale operatorie lucenti, i suoi apparati di radioterapia, i suoi chemioterapici da migliaia di euro a fiala ha perso la guerra, e ora si sta ritirando in buon ordine, lasciando il compito delle ultime azioni di retroguardia al nostro piccolo reparto di Medicina geriatrica.
Guardando i suoi dati, mi accorgo che il paziente proviene da un paesino dell’Appennino dove da bambino passavo spesso l’estate.
Probabilmente l’ho anche incrociato allora, in quel piccolo borgo ci si finisce per conoscere tutti. Difficile però riconoscerlo ora in questo volto emaciato e contratto.
Chiedo agli infermieri se ci sono familiari da contattare per informarli del peggioramento. Mi rispondono che Bandini, il nostro paziente, è vedovo e senza figli. Il parente più prossimo è un nipote, che però è “sceso a valle” dall’altro lato dell’ Appennino, e se anche gli telefoniamo, certo non si mette in macchina a quest’ora di notte.
Bene, Bandini, sei venuto qui da noi per combattere, e perdere , la tua ultima battaglia tutto da solo.
Mentre gli appoggio lo stetoscopio sul torace, apre gli occhi e mi guarda, e nel suo sguardo si intuisce, più ancora della sofferenza, la paura. E quella paura lo congela, lo ancora alla sua condizione di agonico, gli impedisce di lasciarsi andare: andare verso un ignoto che gli appare più terrorizzante di quella stretta che lo soffoca, di quel dolore che gli scava le ossa.
Chissà come, in quel momento, mi torna in mente il ricordo di una estate assolata passata nel suo paese.
Di una corsa di bambini lungo un sentiero sterrato, verso il fiume; a un certo punto la strada si perde in mezzo al verde, e precipita giù nel rivale, in una pendenza che ai miei occhi di bambino appare un ostacolo insormontabile. Ci blocchiamo, finché uno di noi non prende la rincorsa e si getta lungo la discesa. Pochi secondi , e poi occhieggiando fra i rami, lo vediamo in fondo al pendio, che si sbraccia per invitarci a seguirlo: “Forza, la discesa non è poi così ripida, e l’acqua qui è freschissima”.
Socchiudo gli occhi, mi lancio anch’io lungo il pendio, trattenendo il fiato, e in un attimo sono alla riva del fiume, e il brivido delizioso dell’acqua ancora fresca di sorgente è il premio del coraggio.
A quel pensiero sorrido.
Lui vede il mio sorriso, senza capirlo, e in quel momento mi viene da pensare :”Lasciati andare, Bandini, non è poi così ripida la discesa, e l’acqua del fiume in fondo è fresca”.
Chissà, forse nel silenzio della notte , in cui un sussurro sembra un grido, un pensiero può essere percepito come un sussurro.
Si, certo, è senz’altro l’effetto della morfina che ha cominciato ad infondere, eppure, quando vedo il suo volto distendersi, e il respiro farsi meno affannoso, mi viene da pensare che Bandini mi abbia sentito, e che ora, chiudendo gli occhi, non più spaventati, sogni di correre verso il fiume della sua e della mia infanzia.
Un ora dopo la solita routine. Tanatogramma, ISTAT, chiusura della cartella, la telefonata al nipote, che mi risponde con una voce assonnata e assai poco coinvolta, le frasi di rito, sempre quelle: “Ha finito di soffrire, è stata una cosa rapida, cosa dice, vuol sapere se se ne è reso conto?” Ma certo , coglione, che se ne è reso conto; ma come, sempre, faremo finta di no, la solita negazione dell’evidenza che mettiamo in scena a beneficio dei pazienti terminali e, soprattutto, dei loro congiunti.
Esco sulla terrazza all’ ultimo piano, per respirare un po’ di aria fresca. Fuori, comincia a trasparire una luce rossastra, in direzione del mare. I monti, all’estremità opposta dell’ orizzonte, rimangono ancora una massa scura, avvolta nell’ombra.

Morris

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