Edoardo

Posted by Nuccia on maggio 09, 2010
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Uno sconosciuto nella notte

Le 3 del mattino. Questa notte di guardia è iniziata male: solo ora entro in camera dopo ore dall’inizio del turno, la voglia di un po’ di riposo. Il camice appeso come ogni volta all’ “ometto” (così qui da noi  chiamiamo la gruccia), la pelle che suda costretta dal pesante cotone che non conosce stagioni. La voglia di riposare distesa  almeno un pochino.  Le forze non sono le stesse degli  anni passati, il dovere è lo stesso, i problemi di più.  Terapie intensive, pazienti oncologici, malati complessi , risorse ridotte, infermieri stressati, recuperi quasi impossibili.

Apro il mio libro “da notte di guardia” di solito un romanzo leggero, distensivo, per far riposare la mente.  Solo poche pagine e già una nuova chiamata: ” il numero 3 , non mi sembra stia male , ma ha chiesto di Lei.”.

Risalgo le scale, la sezione è al piano di sopra, cerco di ricordare il numero 3. Non è il mio reparto, il paziente  non l’ho visto altre volte, il collega del turno di giorno non mi ha detto nulla di lui , ma nel tempo ho imparato che a volte anche un piccolo sintomo vuol dire qualcosa di più.

 Un’occhiata alla cartella: metastasi cerebrali , non vedente, pz terminale. L’infermiera mi aggiorna “parametri stabili, sta come al solito, non so cosa vuole”.

La stanza in penombra, la solita luce notturna, un corpo emaciato, il vicino che dorme. Accanto al suo letto, domando di lui , che cosa si sente,  di cosa ha bisogno: una mano un po’ incerta mi cerca, lo guardo, un viso scavato, uno sguardo che reputo azzurro è fisso nel vuoto. “Sono diventato cieco, dottoressa non la vedo, ma prima ho sentito la sua voce in corridoio: un suono che odora di  dolc , di una persona che forse è anche bella,  mi dia la sua mano. Io sto per morire, da solo; da tempo non sono più niente, non lascio nessuno, il  mio buio aspetta una luce che presto vedrò. Ormai non mi resta più nulla se non l’illusione che ogni notte sia l’ultima. Mi dia  la sua mano un momento e mi scusi se l’ho disturbata.

Non sembra stia male, forse ha solo bisogno di una voce per lui. Gli dico “la voce tradisce, non sono più giovane, il bello è passato da tempo e in questo mestiere è meglio essere bravi”. La mano nella sua gli strappa un sorriso: la  pelle sciupata, le dita nodose, intuisce un’età quasi uguale alla sua. Mando via l’infermiera, mi siedo vicina. Gli parlo di niente, non mi ha disturbata, devo comunque star sveglia, mi può raccontare la sua malattia. Non vuole, la voce è un sussurro per non disturbare il vicino, mi spiega i colori dei fiori, i cieli azzurri che può solo immaginare e che non sono mai sempre uguali, i bambini  dai volti ridenti, di come ne amava i capricci e le gioie improvvise, mi parla dei  loro disegni, di tanti ricordi di un mondo felice, faceva il maestro di scuola; di com’era  in passato, della “fortuna” di non vedere  come può essere ora il suo viso; di giorni che sono soltanto notti più lunghe, ormai ne distingue i rumori, immagina i volti di chi lo circonda in base alle voci, ai modi di porsi,  ai profumi o agli odori di ognuno. Vuole sapere di me, di come mi piaccia di più la miseria che trovo ogni giorno, invece del verde di un prato, di un sole che splende, di gente che ” vive”, di occhi ridenti anziché sofferenti. Si scusa di nuovo perché mi fa perdere tempo, un tempo che per lui non esiste e invece è prezioso per me. Voleva “sentirmi” , ancora , ripete,  lo aveva colpito la voce, udita per caso. Gli dico qualcosa di mio; che fare del bene  mi dà ancora gioia, che la sofferenza degli altri ha ancora bisogno di me,  che questo lavoro difficile è vita.  Racconto di alcuni di loro, persone che ho potuto guarire, soltanto alcuni mi ricordano ancora,  persone che non ho potuto salvare e che non ho dimenticato.  Persone che hanno sofferto, persone che ho aiutato a soffrire di meno. Persone. Come me, come tante , a cui in ogni momento può capitare di essere nel letto ove ora sta lui.

La mano pian piano si stende intanto che ascolta. Il silenzio è rotto d’un tratto dal  suono stridente di un campanello.  Mi chiamano altrove. Sussurra un semplice  grazie  e mi lascia con poche parole: “non vedo il suo volto, ma vedo il suo cuore. Soltanto un consiglio: il mondo è più bello di quello che sembra, lo guardi davvero, si fermi un istante a osservarlo, è una grande fortuna  poterlo vedere.”

Arriva il mattino. Il turno finisce. Riprende il rumore del giorno. A casa di corsa, una doccia veloce, un caffè super forte al solito bar sotto casa perché devo tornare al più presto: “dottoressa ha avuto una brutta nottata? Si vede dagli occhi.”

No, è stata una bella nottata, ho conosciuto un poeta.  Mi colpisce una parola: occhi

La riunione mi aspetta, per strada mi vien da  guardare in modo diverso, rallento, mi accorgo di quanti colori ci sono, di quanto sia bello il più brutto degli alberi intorno: arrivo un pochino  in ritardo, ma ho  voglia di andare un momento al piano di sopra, dal numero 3 a salutarlo e dirgli che oggi c’è il sole. 

Il letto è rifatto e  Lui non c’è più.  Allo sgomento subentra un sorriso, il mio questa volta: il suo buio è finito e qualcosa  di bello ha lasciato: una stretta di mano e un semplice grazie che vale un tesoro.  Mi accorgo di non sapere il suo nome e lo chiedo: Edoardo. Adesso  sono io a ringraziarti. E tu sai perché. E chissà, forse ora mi vedi e mi aspetto un sorriso.

Nuccia

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