Cure me

Posted by Raven on novembre 25, 2012
cronache / 3 Commenti

foto di NC

foto di NC

Sette mesi. Questo è il periodo del suo limbo, lì, immobile in quel letto pian piano sempre più grande per lei che si fa sempre più piccola via via col passare dei giorni.

Gli occhi, fino a qualche tempo prima dello stesso colore del cielo perdono la loro luce diventando mano a mano più vitrei e opachi.

Chissà quando eri giovane quanti uomini si perdevano dentro quell’azzurro?

Mi trovo a domandarmi, mentre le passo una graza imbevuta di soluzione fisiologica sulle orbite. Non ha nemmeno più il riflesso palpebrale già da qualche giorno. Di lei è rimasto solo un corpo che fa sempre più fatica a respirare, anche con la mascherina di ossigeno sparata a tutto volume.

Arranca, sibila, rantola…Della bella signora sempre sorridente tutto ciò che è rimasto è solo questo.

E una PEG.

E una piaga da decubito che peggiora nonostante le accurate medicazioni e gli spostamenti su un fianco o sull’altro. Ormai si vede bene l’osso del coccige da quella ferita sanguinante.

Chissà se senti ancora dolore quando ti mettiamo la iodoformica?

Mi ritrovo di nuovo a pensare. Vorrei che non sentisse più nulla, imprigionata in quel limbo, compreso il rumore della pompa attaccata al sondino nasogastrico, il fischio del concentratore di ossigeno che ogni tanto reclama attenzione, la vicina di letto che ignara di tutto urla che anche lei non sta mica tanto bene…

Vorrei che non si stesse accorgendo più di quanto accade intorno a lei.

Mi accorgo che le sono rispuntati i baffetti sotto al naso e le unghie continuano imperterrite a crescere: lo so, questo può essere il tuo ultimo giorno di agonia e non sarebbe corretto che tu ti presentassi così, con le unghie lunghe ed i peletti sul viso.

Prendo la salviettina con acqua e sapone ed un po’ di colonia e ti passo le mani, talmente gonfie dai liquidi infusi da non sapere più dove metterli.

La collega mi passa la forbicina per le unghie, mentre lei si occupa dei peli superflui.

C’è ancora una cosa che non mi piace:ha i capelli troppo lunghi. Guardo la collega,lei ha capito cosa ho intenzione di fare. Stamattina, strano ma vero, siamo riuscite a guadagnare un po’ di tempo in più, e sembra che gli altri pazienti non reclamino particolari problemi, oggi. Mi fa cenno di sì con la testa. Prendo un asciugmano e, come se stessi maneggiando la testolina di un neonato, con la stessa cura le appoggio l’asciugamano sul cuscino e passo a lavarle i capelli.

La collega con la stessa attenzione le tiene la testa mentre io le passo il pettine tra i fili bianchi e sforbicio dove per me sono troppo lunghi rispetto a tutti gli altri.

Mi accorgo che di lungo ha anche le sopracciglia: incredibile come i peli possano crescere a velocità sorpendente anche su un corpo in quello stato.

La collega mi guarda di nuovo:

“Hai fatto trenta…..”

“Non la lascio così!”

I suoi parenti fondamentalmente mi stanno antipatici. Non gli ho mai potuti vedere: pretenziosi, maleducati e soprattutto, di lei, della nostra signora nel limbo, se ne sono sempre più che fregati.

Della zia importa solo il testamento che le avevano fatto firmare quando ancora quelle mani si potevamo muovere ed impugnare una penna.

Non lo sto facendo per loro.

Prendo la pinzetta e con facilità strappo le sopracciglia. Poi insieme alla collega la riposizioniamo sul letto, le cambiamo le lenzuola, controlliamo i tubi che siano tutti al posto giusto e silenziosamente entrambe speriamo di non doverla più vedere arrancare per la vita il giorno dopo.

Un ultima occhiata prima di lasciare quella stanza: così sistemata sembra un pochino più serena in quel “sonno” senza fine.

“Chissà quando saremo noi al posto suo ci sarà qualcuno che come me e te oggi avrà la stessa cura…” Mi dice la collega.

Chi lo sa, di questa grande ruota che gira? Io non posso saperlo, ma di una cosa ero certa: il giorno dopo non l’avremmo più trovata a lottare nel limbo che sembrava infinito.

Raven

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Flash nel buio

Posted by Raven on giugno 11, 2012
emozioni / 4 Commenti

Te lo sei chiesto. Te lo chiedi di volta in volta, ad ogni turno, ad ogni paziente, ad ogni paio di occhi che incroci sulla tua via.

Eppure, dopo anni tra corsie ed ambulanze ancora non lo vuoi capire, o più semplicemente, non ti arrendi.

-Respira?-

No, ovviamente. E cosa diamine vuoi che respiri uno che è in arresto da almeno sette minuti, dottore?

Quel torace che speri si sollevi spontaneo all’improvviso, lo stesso che tu, per assurdo, in quel momento stai comprimendo verso il basso, con così tanta forza da sembrare quasi di volerlo schiacciare sotto la tua mano, così grande su un petto che ti sembra troppo piccolo per poterla contenere.

Gli ossimori di questo lavoro, gli ossimori della vita stessa.

Un attimo prima stai scherzando con i tuoi cari, un attimo dopo è il destino che fa uno scherzo a te.

L’ambulanza che arriva a sirene spiegate in quella folle lotta contro il tempo e contro il buio, noi che lottiamo insieme a te e ti chiediamo di non arrenderti proprio adesso.

Tu mi guardi per un attimo, il medico ti infonde l’ennesima adrenalina, il monitor bippa, tutti che si muovono frenetici intorno a te, io che non mi fermo e continuo a lasciarti i segni delle mie mani così grandi.

Non posso fermarmi adesso che ci stai guardando, non posso permettere al buio di prenderti ora che la luce è tornata nei tuoi occhi.

Abbiamo vinto insieme questa dannata corsa, oggi?

Cerchi di alzare un braccio, poi ci ripensi: rimane sospeso a mezz’aria per qualche attimo in silenzio, finchè non ricade abbandonata sul letto.

Il medico urla che vuole altra adrenalina, altra elettrolitica e altro di altro di tutto, ma è passata più di un’ora e il braccio è rimasto sempre così, immobile nella posizione in cui l’hai lasciato tu.

È calata la notte anche stavolta.

Raven

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