Woman in black

Posted by Stellasplendente on giugno 26, 2015
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Foto di EP

Foto di EP

La donna si aggirava per la corsia dell’ospedale senza riuscire a darsi pace. Le occhiaie nere fino agli angoli della bocca su un incarnato scuro, i vestiti rigorosamente neri, come da quando era rimasta vedova anni prima. Non si rassegnava alla fatalità che anche questo figlio la stesse lasciando. Le aveva procurato non pochi problemi in passato. La tossicodipendenza, l’epatite C, l’alcol, il tabagismo. Tante volte si era augurata la sua morte, non riuscendo ad aiutarlo a smettere, di drogarsi, di bere, di fumare. Insomma, non riuscendo a sottrarlo alle sue dipendenze fatali. Per anni non si erano parlati. Lei si rifiutava perfino di rispondergli al telefono quando, per l’ennesima volta, la chiamava per chiederle soldi. Non ne poteva più delle sue richieste querule e assidue. Sempre la stessa storia che si ripeteva con gli stessi clichè. Prima che trovasse il coraggio di sbatterlo fuori di casa, le aveva fatto fuori la collezione di quadri antichi ereditati dallo suocero. Si era dannata perché il destino crudele le aveva portato via i suoi frutti migliori: in un sol colpo, in un tragico incidente, i suoi due figli maggiori, le sue perle. E, se Dio esiste, cosa della quale dubitava sempre più spesso negli ultimi anni, le aveva lasciato quella gatta da pelare, quella palla al piede del figlio tossico. Era stata la polizia, due anni prima, che la aveva salvata, trascinando la belva in piena crisi di astinenza via nel cuore della notte. Era riuscita a chiedere miracolosamente aiuto scampando alle urla minacciose e al coltello da cucina con la quale l’aveva rincorsa intorno al tavolo. I poliziotti lo avevano sentito urlare come una fiera ferita: “Se non mi dai i soldi ti ammazzo!” e, lei ben sapeva che i tossici in astinenza non scherzano affatto. Da allora non l’aveva più voluto vedere né sentire, anche se della famiglia, non gli restava che lui. Fino a due settimane fa, quando aveva ricevuto una telefonata dall’ospedale. Una voce gentile di donna la avvertiva di recarsi presso il reparto di medicina: “Suo figlio è molto grave”, le aveva detto con un fil di voce. Il suo cuore di mamma aveva sussultato. Si era sentita stringere in gola, aveva provato una sensazione di soffocamento come una mano sul collo che cercasse di strangolarla. Aveva sentito scenderle una lacrima lungo il viso, ma subito si era asciugata gli occhi con lo straccetto bianco con il quale stava pulendo l’argenteria. Non doveva piangere, non per lui, non ne valeva la pena. Nel suo cuore lui era già morto da due anni. Si sentì in colpa, quando notò la fotografia di suo marito buonanima che, con il suo sguardo ceruleo, la osservava serio dalla fotografia accanto al comodino da letto. Riusciva sempre a farla sentire così, inadeguata, anche ora che si trovava al cimitero. Al diavolo! Lui non c’era più, e a lei aveva lasciato tutte le incombenze. Troppo facile sparire così, lasciandola nei guai. Da sola. D’altra parte anche da vivo non era stata una gran presenza la sua, troppo impegnato con il lavoro, a pensare agli affari suoi e a rincorrere le gonnelle delle sue giovani segretarie. Le sue belle responsabilità le aveva se questo figlio era cresciuto così, sbandato. Ma ora era inutile lagnarsi. La donna si preparò per uscire di casa, infilandosi un paio di scarpe basse e comode, rigorosamente nere. Prese il cappotto, nero, la sciarpa, nera, e l’ombrello, anch’esso nero con qualche macchia marrone. Chiuse il portone blindato a chiave, e si apprestò a chiamare un taxi che, al cenno della sua mano gentile ma ruvida, si fermò. “Mi porti all’ospedale. Subito”.
Quando lo vide, sdraiato nel letto con le contenzioni a braccia e gambe, che cercava di divincolarsi con forza, quasi non lo riconobbe. Lo aveva sentito urlare fin dall’ingresso al sesto piano. Le frasi erano sconclusionate, senza filo logico, ma la voce era, inconfondibilmente, la sua, roca e querula, la stessa che aveva sentito troppe volte chiederle denaro. Ebbe l’impulso di allontanarsi, girare i tacchi e ritornarsene nella quiete della sua casa buia. Ma poi si fermò. Avanzò con passo lento fino alla stanza da cui provenivano le urla. Il colorito della sua pelle era giallo, come quello di un limone appena colto. Anche gli occhi erano gialli, fanali nella notte. Puzzava di sudore e pipì. Il pannolone era fradicio e lui, con le unghie luride, se lo stava strappando a piccoli pezzi, incurante delle fasce che lo tenevano legato alle sbarre del letto. L’addome era gonfio come un palloncino che sta per esplodere. Lo sguardo perso nel vuoto a rincorrere piccoli terrifici insetti immaginari. “Via! Andate via, mosche della malora!”, urlava senza tregua. I vicini di letto, infastiditi dalle continua urla, avevano provveduto a chiedere che gli venisse praticato un sedativo, ma a nulla era valso. Ormai era quasi un giorno e una notte che non la smetteva di gridare. La madre si avvicinò al letto e, istintivamente, gli afferrò una mano, come quando da bambino voleva fargli attraversare la strada.

I loro sguardi si incrociarono e lui urlò ancora più forte: “Mamma! Ti voglio bene!”. Non aveva mai detto questa frase o, perlomeno, non da quando era diventato adulto. La sensazione di costrizione alla gola, riprese più forte e la donna dovette farsi forza per non cadere a terra. Prese una sedia e si accasciò rumorosamente su di essa, facendone scricchiolare le giunture, logore come le sue articolazioni. Le sembrò come se tutto quel tempo in cui erano stati separati, di colpo si fosse annullato. Lo rivide bambino con i pantaloni corti a rincorrere il pallone, nel suo primo giorno di scuola con i lacrimoni agli occhi, nel giorno della sua prima comunione accanto ai fratellini sorridenti quando ancora sembravano una vera famiglia. “Non mi lasciare, figlio mio”, si sorprese a dire con un vigore che credeva di aver perso. Lo strinse forte al petto per non lasciarlo andare. Ora che l’aveva ritrovato, non doveva, non poteva finire così. Un medico di mezza età, con gli occhiali spessi e la schiena curva, le si avvicinò e le cinse con una mano la spalla sinistra. “Mi dispiace, signora”. Gli occhi della donna, bui e incattiviti dal tempo, incrociarono quelli chiari e buoni del dottore, nascosti dalle lenti spesse. Non disse una parola. Non c’era nulla da dire. Ora le rimaneva solo una cosa da fare: accompagnare, come aveva fatto per la sua nascita, quel figlio ribelle verso il suo destino. Accarezzandolo, gli cantò una lunga ninna nanna. Lentamente l’uomo bambino si acquietò e si abbandonò sereno come un neonato sul grembo materno.

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L’uomo fantasma

Posted by Stellasplendente on maggio 12, 2015
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Foto di MV

Foto di MV

Il barbone fumè sfiorava il petto, sopra la camicia hawaiana tarmata, ed era pieno di briciole di pane e residui di cibo. L’addome gonfio per l’imponente versamento ascitico gli rendeva difficili tutti i movimenti. Stava seduto a bordo letto con le gambe gonfie, che trasudavano siero, penzoloni dal letto. Accanto a sé, sul tavolino bianco di plastica, in mezzo a bottigliette d’acqua vuote e fazzoletti di carta usati arrotolati, una fotografia che lo ritraeva, con qualche anno in meno, ma sempre con l’inconfondibile barbone, insieme a un cane di media taglia color champagne, intento a leccargli l’avambraccio sinistro.
L’uomo, tossicchiando, cercò di attirare l’attenzione della dottoressa, intenta a fissare l’immagine. Sembrava le avesse letto il pensiero.
“Lui è Jack”, la voce dell’uomo, da vecchio fumatore di sigarette, era roca. Gli occhi erano solcati come da pneumatici di un TIR. “L’ho trovato per strada due anni fa. Anche lui un randagio, come me”, aggiunse con un fil di voce. Era evidentemente dispnoico e la posizione seduta gli permetteva di respirare un po’ meglio.
“E dov’è ora?”. Gli occhi verdi della dottoressa non riuscivano a staccarsi dalla fotografia. Immaginava le mani callose e unte dell’uomo che accarezzavano la bestiola.
“L’ho dovuto lasciare alla signora Maria, la perpetua del parroco. L’unica che si ricordava di portargli qualche scatoletta di cibo. Lo terrà con sé qualche giorno, poi lo porterà in canile. Il suo padrone di casa la scaccerebbe se sapesse che tiene un animale in casa”. Gli occhi dell’uomo si fecero umidi e con la mano si asciugò una lacrima. La dottoressa deviò il suo sguardo sulle unghie luride del suo paziente e pensò che gli infermieri avrebbero avuto un bel po’ di lavoro di brusca e striglia da effettuare.
“Ma non ha qualche parente cui affidarlo durante il periodo della sua ospedalizzazione?”. La dottoressa non riusciva a darsi pace. Il suo interesse per la creatura era ben superiore a quello che avrebbe dovuto prestare per raccogliere l’anamnesi del paziente. In realtà era l’aspetto umano di chi vive per strada e per di più con un cane, quello che le interessava. Immaginava l’uomo che, con la sua grossa stazza e i vestiti lerci e sgualciti, se ne stava sdraiato su un pezzo di cartone per strada, in fila indiana con altri clochard lungo il ciglio di un’affollata strada pedonale del centro cittadino, con a fianco il suo cane scodinzolante. Riusciva a immaginare anche il rivolo di saliva che usciva dalla bocca della bestia mentre leccava il suo padrone e i suoi grandi occhi neri sognanti, innamorati del grande uomo senza casa. Si sentì stringere il cuore in una morsa di dolore e di compassione.
“Dottoressa, io non ho parenti e non ho amici. Ero solo al mondo, prima che arrivasse Jack nella mia vita. Lui è tutto quello che ho in questa vita. Non desidero altro”. Una goccia di sangue uscì dalla bocca dell’uomo. Si stava mordendo forte il labbro con il suo unico dente rimastogli, un premolare inferiore nero e cariato. La dottoressa si avvicinò con una garzina per tamponargli la bocca, ma prima indossò i guanti di lattice. L’alito dell’uomo era quello della frutta marcia e la dottoressa scostò il viso e si pinzò discretamente le narici con la mano sinistra, quella non intenta al soccorso.
“Mettiamo un po’ di ossigeno”. Il respiro del paziente si faceva sempre più rapido e superficiale. La dottoressa prese un saturimetro e la fronte le si aggrottò leggendo il numero sul display: ossigenazione sessantacinque per cento!
“Dottoressa, io…io devo scendere sotto nell’atrio”.
“Non se ne parla neppure!”. La voce della dottoressa era ferma e risoluta. Preparò l’erogatore nasale decisa a imporlo al suo paziente. Non c’era tempo da perdere.
“Devo scendere. Devo! Voglio vederlo. Un ultima volta. Il mio Jack! E poi farò quello che dice Lei. Poi morirò in pace”. Le labbra si facevano sempre più cianotiche e il respiro stertoroso. Si potevano udire grossolani rantoli senza bisogno del fonendoscopio.
La dottoressa si rese conto che sarebbe stato inutile cercare di fermare il suo paziente. Con uno spintone avrebbe potuto farla cadere. Anche se debole e fiacco, la sua corporatura massiccia e l’enorme quantità di liquidi accumulati nell’addome e nelle gambe, lo rendevano imponente.
L’uomo si alzò risoluto dal letto. Appoggiò le gambe a terra e cercò di fare uno, due, tre passi. Poi le gambe cedettero e il barbone cadde a terra, franando fragorosamente con la testa contro il lavandino posto di fronte al letto. Il suo unico dente schizzò via dalla bocca e la barba si riempì di schizzi di sangue, che imbrattarono anche la camicia hawaiana.
La dottoressa afferrò un campanello e lo schiacciò con tutta la sua forza: “Aiuto! Presto! Portate il carrello dell’emergenza e il defibrillatore!”.
Il corridoio freddo e grigio si riempì di rumore di zoccoli sul pavimento appiccicoso di detersivo. In pochi istanti l’uomo aveva tutti intorno a sé, tutti quelli che negli anni lo avevano guardato senza vederlo, fantasma in carne e ossa. Si ritrovò in un baleno con un tubo in gola e placche che scaricavano elettricità sul torace peloso. Braccia affaticate gli premevano contro il petto, imprecando contro il tempo, e che gli conficcavano aghi nella pelle per somministrargli i farmaci della speranza.
Nell’atrio dell’ospedale un cane di taglia media color champagne e una donna canuta attendevano, invano. Il cane, improvvisamente, smise di scodinzolare. E tutto, intorno a lui, si fece buio.

Stellasplendente

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