“Tutti nella vita hanno quello che cercano. Io cercavo una missione. E per i miei peccati me ne hanno dato una“.
Cap. Benjamin Willard (Martin Sheen) in “Apocalypse Now”, F.F. Coppola, 1979.
Oddio, forse come inizio è un po’ pomposo, ma è quello che mi è venuto in mente il mio primo giorno da Dirigente Responsabile del Servizio “Medicina Post-acuti” (si, vabbè, la Lungodegenza) entrando in Reparto.
Dopo anni passati a cercare in qualche modo di ritagliarmi uno spazio mio e di smarcarmi in modo da avere il meno gente possibile sopra la testa, finalmente posso mettere il mio nome sulla tabella in testata al corridoio.
E ora che sono qui, che faccio? Come devo comportarmi per destreggiarmi al meglio in questa sequenza di stanze occupate, sostanzialmente, da poveri vecchi con le 3D (disidratazione, denutrizione, demenza)?
Garantirgli un adeguato apporto di liquidi e di calorie, certo. Evitare che si ulcerino. Cercare di mobilizzarli il prima possibile. Prevenire le infezioni opportunistiche (anche se di tanto in tanto ti tocca di raccogliere un bel fiore di campo come un Clostridio, un Acinetobacter, uno Stafilococco resistente anche alle martellate, in genere gentili omaggi inviati alla zitta dagli altri reparti).
E poi? I posti in RSA dove eventualmente girare quelli che non sono in condizioni di tornare a casa sono sempre meno, e i servizi sociali sono un’entità inafferrabile ed incorporea come la Pace nel Mondo (quando telefoni per cercare un’assistente sociale che ha in carico un determinato caso, la risposta standard di solito è : “E’ in ferie/ è a un corso di aggiornamento/ è in malattia.”).
Quando si avvicina la data della dimissione, pardon, del “reinserimento al domicilio”, di solito ti tocca affrontare parenti che di fronte alla prospettiva di doversi prendere di nuovo carico del cambio pannolini/padella diventano più incazzati dell’orsa a cui hanno toccato i cuccioli; e anche durante la degenza ti tocca affrontare surreali colloqui coi congiunti di poveretti ormai con un piede nella fossa che ti chiedono conto del perché non si fa una TAC o una risonanza “per vedere come sta”.
Senza contare che di tanto in tanto ti capitano situazioni kafkiane come quella della signora trasferitaci dalla Geriatria con una etichetta di “demenza di grado severo”, nonostante conosca persone molto più decerebrate di lei in giro a piede libero per il mondo, cosa che fa sì che a norma di legge non possa essere dimessa perché vive da sola. E siccome i parenti, tutti fuori città , non ne vogliono sapere mezza, ci tocca tenercela finchè il tribunale non delibererà il nome di un tutore legale che potrà occuparsi delle pratiche per trasferirla ad una struttura protetta. E nel frattempo lei ciabatta, sempre più sarcastica, per il corridoio: “Ueh, dottore, allora, me la danno l’amnistia, o mi devo mettere in politica per averla?”
E’ che la lungodegenza è una specie di osservatorio privilegiato di quella specie di Fort Apache che sta diventando il nostro Welfare, assediato dalla crescente pressione di una popolazione di anziani via via sempre più numerosa, con età sempre più alte, con problemi di autosufficienza conseguentemente maggiori, e con famiglie sempre più in difficoltà a farsene carico. Una volta era un punto di onore prendersi cura dei propri vecchi, e quando arrivava il momento, non farli morire in ospedale. Ma erano famiglie con più figli, in cui le donne spesso non lavoravano, e in cui la vecchiaia forse era vista come un traguardo, e non come un disonore come accade invece adesso.
Stiamo in piedi sul bordo del cratere di un vulcano, e facciamo foto da mandare agli amici, pensando che, certo, il vulcano fa paura, ma non si metterà mica ad eruttare adesso. Eppure l’eruzione non tarderà molto, e minaccia di spazzare via il nostro sistema sanitario.
Lo diciamo ai ragazzi che iniziano adesso una professione sanitaria, alcuni dei quali si affacciano a questo blog pieni di belle speranze e di buona volontà, che saranno chiamati a fare, prima ancora che i medici, i “gestori di risorse” e i misuratori della cost/efficacy? Che saranno chiamati a scegliere a chi dare le cure più costose e a chi no, e che fra i “chi no” ci saranno sicuramente i vecchi?
Certo, è una sfida grossa quella che ci aspetta, e bisognerebbe che, nei ritagli di tempo fra le loro mene private i nostri dirigenti cominciassero a farlo capire anche all’ opinione pubblica; sempre che l’opinione pubblica sia ancora in grado di recepire.
L’altro giorno arrivando in corsia mi sono fermato a prendere le consegne dal medico che aveva fatto la guardia di notte, la Grigorieva.
La Grigorieva è una collega di origini russe che viene da noi a coprire dei turni di guardia a libera professione. E’ giovane, carina, molto precisa. E, ahimè, piuttosto carente di malizia. Di ritorno da una vacanza ai tropici, ha portato le sue foto ricordo con una chiavetta e le ha salvate sul computer della medicheria; solo che in quelle foto compare con fidanzato palestrato d’ordinanza, e uno strepitoso microbikini rosso. Così le immagini sono diventate di pubblico dominio presso tutti i bipedi maschi dell’ospedale (in prevalenza in ragione del microbikini, per una minoranza in ragione del fidanzato palestrato), e qualche bello spirito ha perfino suggerito di usarle per il calendario di reparto.
Quindi da allora parlare con lei considerandola solo professionalmente ed in maniera asessuata è diventata una specie di esercizio zen. A me viene più facile se la chiamo per cognome: se socchiudo gli occhi mi viene in mente una robusta ed affidabile badante slava, con grosso modo lo stesso girovita di uno scaldabagno.
La Grigorieva, puntigliosamente, mi espone tutti gli interventi che ha fatto sui nostri pazienti, e arriva infine al caso di una paziente che, ipotesa ed anurica da ieri sera, è stata messa sotto Revivan, con un lieve miglioramento del quadro. Pensando di non aver capito bene, apro la cartella in questione e l’occhio mi cade subito sulla data di nascita sul frontespizio: 1909. Paziente con, lei sì, grave demenza vascolare e un avanzato marasma senile. Praticamente uno scheletro ricoperto di pelle diafana ripiegato in triplice flessione.
“Scusami, Grigorieva, fammi capire, vuoi dire che stiamo tenendo a galla per i capelli con la Dopa una donna di 102 anni?”
Lei mi guarda un po’ sulla difensiva , e fa spallucce.
“E che ci devo fare io ? Quando mi hanno chiamata a vederla ieri sera, e mi sono resa conto che la signora ne aveva per poco, l’ho fatto presente alla figlia. Lei mi ha guardata sconvolta e ha gridato: Ma come, così, tutto all’improvviso?”
Morris
Caro collega Morris, non ti invidio!!!
Sono nauseato dalla ossessione e dalla morbosità della popolazione nel dover tenere in vita cadaveri-zombie. Nauseato dalle continue richieste dei familiari dei centenari di ospedalizzare il nonnetto o dalle richieste di ogni tipo di assistenza e presidi domiciliari. Nauseato dalle accuse di non essere capace di trovare la terapia per raggiungere la immortalità, anche quando in questione ci sono vegetali.
Cosciente del fatto che probabilmente a non andare è la mia etica verso l’anziano e visto l’inesorabile invecchiamento della popolazione (e con l’invecchiare dell’elettorato verranno a mancare anche politiche per i giovani) ho deciso di dedicarmi alla pediatria.
Era per me impossibile continuare ad occuparmi solo di anziani vegetali decerebrati allettati, anziani che non hanno nulla da fare e per questo hanno come occupazione principale sfruttare qualsiasi servizio che il SSN offre gratuitamente, anziani che tutti i giorni ti chiedono un miracolo per risolvere il problema dell’artrosi, familiari che pretendono un checkup per cadaveri semivitali anchilosati.
Molto meglio occuparsi dei bambini e delle transitorie ansie dei relativi genitori.
In bocca la lupo, davvero.
Snakedoc
Sono solo una fisioterapista, lavoro anche in un ospizio qualche ora al giorno ed ho imparato ad osservare la mia futura vecchiaia…c’è di che riflettere.
E’ un vero peccato che non ci sia più la possibilità di accompagnare i nostri vecchi tenendoceli a casa perch èquesto ci impedisce di renderci pienamente conto che la morte è una cosa definitiva con cui bisogna fare i conti seriamente. tutte le richieste di miracolo che sono semprre e ovunque le stesse mi sembrano solo dei veli dietro cui si nasconde un bisogno di mettere a tacere la coscienza perchè credo che a tutti piacerebbe finire i propri giorni a casa propria con attorno qualcuno della famiglia. Finire i propri giorni consumando, e non per disgrazia improvvisa, in un ospizio o in un oaspedale è un po’ come emigrare verso un paese lontano e sconosciuto senza che nessuno ti accompagni al treno.
Sono allora giunta giunta alla conclusione che una piccolissima e umile parte della mia missione sia cercare di avere relazioni umane pur mantenendo la professionalità.
Ti auguro di cuore che questo nuovo incarico diventi via via meno gravoso e ti sveli qualcosa di cui non ne sospettavi la possibilità. Buon lavoro