cronache

le solite cronache di una notte di guardia

Posted by Gaddo on Settembre 09, 2009
cronache / 3 Commenti

Il mio webmaster è contento quando faccio le notti di guardia. Dice che la qualità dei post è migliore (e forse ha ragione, perchè quando non si hanno storie da raccontare si finisce nell’invettiva sterile di sempre).

Ma ci sono volte in cui no, non ha ragione. Ieri sera, intorno alle ventuno, è arrivato in pronto soccorso un signore anziano, ma non tanto, con il bacino letteralmente in pezzi.

Abbiamo fatto davvero di tutto, e in tanti. Si è cominciato con le sacche di sangue da trasfondere durante la tac, con gli infermieri tesi e indaffarati; l’anestesista che cercava di tenere in qua il signore con tutti i mezzi a sua disposizione (aveva una faccia così stanca, poverina, che mi è venuto voglia di abbracciarla, farla sedere su una sedia e lasciare che mi raccontasse tutto; anche se non la conosco così bene da permettermi simili confidenze); il mio collega radiologo in reperibilità vascolare, che è arrivato dopo dieci minuti (era uscito dall’ospedale da meno di un’ora) per un tentativo disperato di bloccare l’emorragia interna con un’embolizzazione dei vasi che perdevano sangue; gli ortopedici, che alla fine lo hanno portato in sala operatoria per rimettere a posto il bacino e la spalla fracassati.

Ho riletto il mio referto tac: un festival di fratture. Ricordo di aver pensato che, porca miseria, come fai a tirar fuori dalle pesti un paziente con così tante fratture al bacino: troppe esperienze negative sul groppone, anche se in medicina, come sempre, non si sa mai. Nel bene e nel male.

La serata continua, diventa una nottata che si prolunga ininterrotta fino alle tre e mezzo del mattino: e per fortuna che i colleghi del pronto soccorso sono stati fantastici. Con l’internista abbiamo discusso di casi clinici come sempre si dovrebbe fare, in queste circostanze. La chirurga addirittura ha portato il gelato e ha sorriso tanto, con il suo bel sorriso di sempre. Lusso allo stato puro.

Poi, intorno alle quattro, mentre cerco di guadagnare il letto, incoccio l’ortopedico lungo il corridoio. Ha una faccia distrutta dalla stanchezza mentre mi dice: Non c’è stato niente da fare, il signore non ce l’ha fatta.

Ragioniamo qualche minuto sulla faccenda e non ci sembra di aver sbagliato nulla nelle varie procedure: è solo che rompersi così tanto il bacino è una cattivissima idea, poi si rischia grosso davvero. Lui ha detto, amaramente: Speriamo che lo capiscano anche i familiari.

E a quel punto l’ho guardato, appoggiato con la schiena al muro, gli occhi cerchiati di nero, con ancora in tesa la cuffietta da sala operatoria: sembrava rimpicciolito, raggrinzito, come se le due fatiche associate, quella fisica e quella mentale, lo avessero davvero ridotto ai minimi termini. Poi anche lui mi ha guardato, e ha aggiunto: E’ in momenti come questi che mi chiedo chi cazzo me l’ha fatto fare a scegliere questo mestiere.

Avrei voluto aggiungere qualcosa, ma non c’era molto da aggiungere. Sono talmente tante le volte in cui ci diamo dentro per ore intere, e poi perdiamo i pazienti, che ormai non ci penso neanche più a chi me l’ha fatto fare. Sono rientato nella stanza, alla fine, e mi sono buttato sul letto. Avevo un groppo in gola che non andava giù: forse perchè questa volta ci avevo davvero creduto, al lieto fine della storia. Due o tre ore prima il signore era disteso sul lettino della tac, respirava, rispondeva all’anestesista che cercava di tenerlo sveglio: due o tre ore dopo più nulla, solo un corpo freddo senza più nessun abitante dentro.

Non so come spiegarlo: non è questione di aver fatto bene o male le cose, di essere stati tempestivi ed efficaci, professionali o emotivi. E’ che prima sul quel lettino c’era qualcuno, poi solo un gran vuoto. E il vuoto, a volte, fa male.

Gaddo

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una notte in terapia intensiva neonatale

Posted by the intensivist on Agosto 28, 2009
cronache / 16 Commenti

Sono le 2.30 di notte di venerdì sera… mi aspetta davanti tutto un week-end impegnato in ospedale, tra notte, reperibilità e 12 ore di domenica. Che palle!! Ho appena finito di controllare i dati di ventilazione dei sei neonati ricoverati in terapia intensiva. Ce ne sono altri 15 fuori in post-TIN e nei box esterni. Il suono del cicalino… Che palle!! “E’ il neonatologo di guardia?” “Si sono io dica”. “Tra 5 minuti portiamo la 303, la donna gestosica con iposviluppo alla 24 settimana, in sala cesarei, perché ha avuto una crisi ipertensiva” “Va bene, mi organizzo con le ragazze per portare la culla e arrivo”. Ma porca miseria… ma proprio a quest’ora devono fare un cesareo? E poi dove lo metto… chi lo dice a quelle rompi… delle infermiere? Ho un posto solo libero in TIN e domani mi nasce la gemellare alla 33 settimana, cavoli loro, di quelli che ci sono domani, io stasera questo lo devo ricoverare. “Ragazze, è la sala parto: nasce l’iposviluppo alla 24ma il solito catorcio chi viene giù con me e porta la termoculla?” “Dottore non abbiamo 4 mani. Dà lei da mangiare alle altre jene? Cominci a scendere giù e arriviamo”. “OK, io mi porto giù la culla e anche il surfattante”.(Sì, ma che palle!!)
Il solito ascensore che non arriva mai, scendo a piedi, faccio prima.
Con gesto veloce digito 1-2-3-4 e poi cancelletto, si apre la porta della zona parto, passo davanti all’isola neonatale, controllo velocemente che tutto sia in ordine: Neo-Puff, ventilatore, laringoscopio, cateteri,etc.
Indosso, camminando, mascherina, cappello, guanti sterili e con il gomito premo sul tasto rosso della porta scorrevole della sala cesarei. “Buonasera… tirato giù dal letto dottore ?” “NO, no, stavo ancora controllando i catorcetti che ci date sempre e che sono in TIN”. Il ginecologo di guardia, freme con in mano la pinza che ogni tanto usa, pizzicando la pancia della gravida, per verificare se ha preso o meno la spinale. “Sente la pizzicata, signora?” “Si, dottore”. L’anestesista interviene “Ancora un attimo Andrea, la spinale l’ho fatta da meno di 5 minuti”. “Signora, sente il pizzicotto?” “No”. “OK si parte , bisturi…” Passano 3 minuti e Andrea è già sull’utero, divarica i retti addominali, batuffolo, con la forbice rompe il sacco, liquido limpido (meno male); eccolo. E’ podalico, ha il pisello (che sfiga prematuro e anche maschio!), peserà 6-7etti; a testa in giù aspirazione delle prime vie aeree, poi tra le braccia avvolte dal lenzuolino blu sterile della puericultrice e poi giù sull’infant warmer.
“Asciugalo, passami la mascherina”. Gli faccio fare una sustained inflation, come vuole quel rompi… del primario (si incav… se poi non lo faccio); oh però funziona! E si perché dal saturimetro annoto che la frequenza è 120/bpm anche se la saturazione è solo 65-70%. Ma chi se ne frega, Colin Morley, (dice il direttore), ha visto che ci vogliono almeno 5 o 10 (non ricordo bene) minuti per raggiungere la saturazione ottimale (oltre 90 o 95% che ne so, qui continuano a cambiare i valori in letteratura). L’importante è che la frequenza sia buona: “Ce lo hanno insegnato gli anestesisti”, continua a predicare il direttore. Va bene così. E dai respira, rompino di un bambino, prova a piangere, ma è un gemito. “Lo intubi ?” il solito rompiballe dell’anestesista con il fiato sul collo che gli ficcherebbe giù il tubo tracheale sempre. “Si, adesso, se non si riprende con la seconda sustained”. “Che cos’è la sustained?”, mi dice l’anestesista tirocinante che non sa un cav… ma che si deve impicciare di tutto. Non gli rispondo neanche, prendo il laringoscopio “Aspirate che non si vede un cavolo ha la glottide alta (ma è sempre così alta la glottide davvero o sono io che non sono capace a incubare? ma non potevo intubarlo in TIN con le mie ragazze?). Oh finalmente arriva dalla patologia, la mia infermiera, anche perché finalmente l’ho intubato, ma mi stavano dando un cerotto per fare il baffo sul labbro che sembrava una cintura per pantaloni. “Va bene, dottore la mandata del NeoPuff passa sia a destra che a sinistra, e satura bene 86% con la frequenza a 130/bpm” “Come sta?” Mi chiede Giorgio il ginecologo; “Ce la fa?” “Ma come cav… posso saperlo ADESSO? Chi sono il Padre Eterno?” “Per ora è discreto, adesso gli faccio il surfattante, poi lo incannulo su in TIN, e tra un’ora ci risentiamo”. Mi giro dalla parte della porta a vetri che dà nell’anticamera della sala cesarei: faccio un segno di OK con il pollice e indice al padre; quindi con l’indice che rulla nell’aria, gli faccio capire che ci sentiamo dopo, su al 5° piano.
Sospingiamo la culla da trasporto verso l’ascensore, sempre ventilando a mano il 24 settimane che adesso è un po’ più bellino di prima e che si muove come una rana.
Arriviamo in TIN sono le 3.15, lo mettiamo in culla, lo pesiamo: 650 gr, un altro ranocchio, lo attacchiamo al ventilatore: 60 atti, in SIPPV+VG (come vuole il direttore, che con la sua voce mi risuona nelle orecchie: ah sì, il Vt a 7 ml/Kg, “per lo spazio morto”. Che palle anche lui. “Mi raccomando fate il reclutamento, al limite se potete mettetevi in due, chiamando il reperibile, tanto ve ne capitano solo due o tre nell’anno di notte di neonati veramente prematuri: uno incannula i vasi ombelicali, l’altro recluta il polmone”. Ma a casa, si calmerà almeno un po’, o fa così anche con moglie e figli? capisco perché poi è sempre nervoso. Provo ad incannulare anche l’arteria: ma io non sono capace, ci rinuncio gli prendo solo la vena ombelicale: “Misurate la distanza spalla ombelico”, dice il primario, me lo sento fischiare nelle orecchie; oh mer… l’ho dimenticato, ma va bene vado su con il catetere, 3 F, finchè con la siringa non verifico che va bene sia in aspirazione che in infusione. Ore 3.55: prima emogas: ph 7.23, PCO2 35 PO2 85 (ma è arteria o vena, o sono troppo alto con il catetere? La famosa misurazione spalla-ombelico forse serviva! Vabbè, dopo la lastra del torace lo tiro giù il catetere. “Dottore, Laura è in bradicardia, è la terza apnea cha ha in due ore. Rimette finalmente le N-CPAP?” “Aspetta, dalle un attimo, fammi controllare quanto fa di caffeina? Non è che per caso ha rigurgitato prima?” “Dottore, Marco ha perso la vena periferica. E’ la terza che perde oggi. E’ massacrato nelle braccia e gambe; ma gli mette una vena centrale vero?” “Se aspettate un attimo. E poi non c’è Laura che prova magari a mettergli una periferica nella safena, lei è brava no? Se non ci riesce lei allora provo io a mettergli un centrale” Ore 4.10 chiamo il reperibile della radiologia per la lastra del torace e posizionamento CVO. Naturalmente è reperibile e mi ha detto che prima di 45 muniti non arriva, perché c’è traffico oggi e abita fuori Milano. Ma che cavolo di reperibilità è? Mando le provette dei prelievi giù in laboratorio con il bussolotto della posta pneumatica per gli esami; l’ho portati io perché le ragazze sono impegnate. Già che ci sono vado anche a ritirare il plasma che per telefono han detto che è pronto per Silvia; ma allora potevo anche portarle a mano le provette. Amen!! Le provette son già partite.
Ore 4.55: arriva il tecnico di radiologia “T’ho chiamato da più di mezz’ora!!” “Lo sai che abito fuori Milano e non ci posso fare niente”. “Dottore, s’è stubato Filippo. Piange!” Merda secca. Lo reintubo senza grosse difficoltà. E’ chiaro qui in reparto è più facile. Lo rimetto in SIPPV+VG e torno sull’ultimo arrivato. Fatta la lastra, guardo l’immagine al computer: un polmone di m… 6-7 spazi, RDS di 3°-4° stadio, e il surfattante l’ho già fatto, ma dove cav… è finito? Il primario dice però che se satura bene e ha bisogno solo del 25%, l’FRC è fatta e quindi non devo guardare la lastra, e posso fare anche il gradiente arterioso/alveolare per verificarlo, bla, bla, bla.
Ore 5.20, il cicalino: “Dottore in sala parto, nella margherita, una ventosa”. Che palle, giù di corsa sempre per le scale: mi ha detto nella margherita o girasole? beh, chiedo quando arrivo giù. 1-2-3-4 cancelletto, entro.
Entro nella margherita era giusta l’indicazione, il rompino è già nato, urla, sta benissimo. “S’è fermato allo scavo pelvico, ma sta bene” dice la ginecologa di guardia. E allora perché hai fatto la ventosa mi viene da pensare?
Torno in reparto sono le 5.30, comincia a spuntare un pò di luce fuori dalla finestra, la notte è un po’ meno ovattata e dall’alto del 5° piano vedo l’alba dietro il campanile e sullo sfondo, tra le nuvole, un aereo decolla da Linate. Qualche taxi sulla strada e i camion della nettezza urbana. Cominciano a circolare anche i primi lavoratori, quello del primo turno… a proposito, anche il mio cambio prima o poi arriverà, verso le 8 o poco dopo. Poco dopo, speriamo, sono proprio stanco. “Dottore, Federica, ha 2 cc di RG biliare, che faccio? Ha anche un panciotto con tutte le anse disegnate”. “OK sospenda il pasto e poi vediamo cosa fare tra tre ore”. “Dottore, Mario, ha avuto due apnee mentre lei era giù per la ventosa, ho messo due litri di ossigeno, se no non saturava più di 90%”. Ma non hanno ancora capito che non serve a niente l’ossigeno per le apnee? “Va bene, lo lasci in ossigeno, però lo concentri e non lasci il bocchettone, altrimenti ce lo troviamo al 100% di saturazione e gli viene la ROP”. “E sì e noi invece a forza di farlo desaturare, lo facciamo diventare scemo. O sta qui lei dottore a controllarlo che non desaturi, mentre noi ci preoccupiamo degli altri 20 o gli lascio il bocchettone, fisso”. Mah, c’hanno anche ragione loro. Arriva il papà della 24ma: è agitato, la moglie lo ha chiamato di corsa da casa, è il primo figlio, tanto atteso, ha le lacrime agli occhi; entrando in TIN, si sbaglia e si ferma prima davanti alla culla di un altro in ventilazione meccanica: sono tutti uguali, eppure così diversi tra di loro. “Come stà? Tutto bene? Ha tutto?” Ma come posso, spiegargli tutto stanotte? Lo invito a toccare il figlio con le mani, ma lui ha paura e dopo 5 minuti, e dopo la firma dei 350 consensi richiesti sulla cartella clinica (“La cartella è tutta a posto?” Il solito direttore),scende dalla moglie, a rassicurala. Di che, non si sa, siamo solo all’inizio, di un’avventura che durerà almeno 3-5 mesi. Se vivrà poi…
Ore 6.30, provo ad andare in camera e mi sbatto sulla sdraio; il direttore mi aveva detto che lui quando faceva le notti, lavorava al computer in TIN e tra una visita e l’altra scriveva gli articoli. Mah! Ma si rende conto di notte il casino che c’è qua? Ventose, flebo, cesarei. “Dottore la 24 settimane, desatura, e l’allarme del VG suona, Vt basso. O controlla il respiratore o si mette lei qui davanti a struccar il buttun”. “E’ sceso un po’ il tubo, ecco perché desatura: fissatelo meglio con il cerotto, di 0.5 cm più in su; era anche girata la testa, ora passa meglio e satura meglio”. Sono le 7.30, vado stancamente a darmi una sciacquata alla faccia: sembra che mi abbiano dato due cazzotti in faccia, ho due occhi con delle borse sotto che. Faccio pipì, me ne ero dimenticato e la vescica cominciava a dare i segni di irrequietezza. Sono le 8.07 arriva Luigi, a darmi il cambio “Ciao, come andata?” “Non ho chiuso occhio, neanche un minuto”. Suona il cicalino. “Dallo a me, dai”. Non vedevo l’ora. E’ finita, ma domani per 12 ore si ricomincia. Sono stanco, ma… E’ la vita.

the intensivist

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ombre

Posted by il forestiero on Agosto 19, 2009
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Sono le 3.45 di un freddo autunno, il più freddo che io ricordi ma non è solo una questione atmosferica.

Un lampeggiatore blu si ferma davanti alle porte scorrevoli del pronto soccorso, due ambulanzieri entrano stancamente e sbarellano un corpo davanti al triage. “Dove lo mettiamo?” – chiede il più anziano dei due – “chi è?” – risponde una voce altrettanto assonnata dall’altra parte del vetro – “Boh, era addormentato su una panchina nel parco vicino ad una bottiglia vuota ed un carrello della spesa stracolmo di cianfrusaglie, credo sia la sua casa; noi, sulla nostra scheda, lo abbiamo segnato come Sconosciuto”. “Mettetelo li” – continua l’assonnata voce – “smaltirà la sbronza, poi domani… vedremo”.

 Sconosciuto? Il solo fatto che noi ignoriamo l’identità di una persona, la sua storia, il suo passato, non ci autorizza a cancellarne l’identità ed a crearne una temporanea dal nome “Sconosciuto” e che domani servirà per qualcun’altro. Non sarebbe meglio chiamarlo “Panchina Parco”? almeno avrebbe un nome e un cognome che ne racconta la storia, perlomeno quella più recente.

Quel corpo adagiato goffamente davanti al triage c’e l’ ha un’identità, l’ha solo dimenticata o, forse, non la vuole più rivelare. Si chiama Antonio, ha 60 anni, una casa, una famiglia, o per lo meno li aveva, una moglie, una figlia, un lavoro. 12 anni fa ha perso il lavoro, e da li a poco la moglie e la casa, la figlia chissà; al loro posto ha preso una bottiglia per compagna e un parco per casa con una panchina per letto. Da allora Antonio si aggira tra il parco nei periodi più caldi e la stazione in quelli più freddi. Da allora Antonio, con tutta la sua storia, è stato avvolto da un’ombra scura, resa ancora più fredda ed impenetrabile dall’indifferenza della gente. Da allora Antonio ha smesso di essere Antonio e per tutti è diventato una delle tante ombre che all’imbrunire popolano le nostre città e, con il sorgere del sole tendono ad accorciarsi senza mai svanire totalmente ma che, ogni sera, riprendono a sopravvivere in fredde città popolate da gente come noi che, al calar del sole, si ritira negli affetti dei propri cari e di giorno può far finta di non accorgersi di quelle tenui ombre come se non esistessero. Da allora Antonio, come tutte le altre ombre, lotta – o forse non lotta neanche più – contro la fame, il freddo, le malattie, l’ignoranza e la fredda indifferenza della gente.

Ore 5.30. Il pronto soccorso è ormai quasi deserto, le persone, quelle con un nome e un cognome, che hanno cercato aiuto in questo rifugio sono state tutte schedate, visitate e, in qualche modo, sistemate.

“Dottore, ce ne sarebbe ancora uno” – dice la voce sorseggiando un caffè ristoratore e, ormai, non più tanto assonnata.

Antonio non si sveglia, respira affannosamente ed ha la febbre alta quando viene accompagnato in radiologia dove una radiografia del torace non può che confermare una polmonite estesa a tutti e due i polmoni – del resto è difficile combattere contro la polmonite quando non si mangia per giorni e si dorme in luoghi freddi ed umidi (anche perché una stupida ordinanza ha chiuso le stazioni durante le lunghe e fredde notti invernali in nome di un presunto decoro e discutibili norme igieniche).

Da li a poco Antonio smette di respirare e silenziosamente, come entrato, senza disturbare nessuno, se ne va.

 “E’ morto?” – chiede l’ormai non più assonnata voce – “Si” – risponde il medico – “ma come si chiamava? – continua – “Non aveva un nome…” – risponde la voce cominciando però a capire che non poteva essere così – “allora metterò Sconosciuto!” – conclude il medico – “No!” – tuona la voce – “Lui era Antonio, o Franco, o Giovanni,  o semplicemente Ombra … lui era tutti noi ma non era Sconosciuto!”

Buonanotte Antonio, ora riposa tranquillo lassù, a te auguro che la scura e fredda ombra con cui ti abbiamo avvolto svanisca e si illumini di mille colori che ti guidino nella tua nuova vita.

Buonanotte Franco, o Giovanni, od Ombre a voi auguro che, se proprio dovrete incontrarci, sia solo per essere avvolti di mille luci colorate che possano riscaldarvi e sfamarvi nel freddo mondo che vi circonda. Buona notte amici miei, a tutti noi auguro che la nostra fredda indifferenza non finisca per avvolgerci e trasformarci in fredde e scure ombre.

il forestiero

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l’uomo dalle otto pompe

Posted by il Catalano on Luglio 23, 2009
cronache / 4 Commenti

L’altro ieri ho fatto la mia seconda guardia in UCIC. A differenza della prima guardia, questa volta i pazienti erano, come se fosse possibile, ancora più critici. C’erano due intubati, tre avevano un contropulsatore aortico. Gente più di là che di qua, tutti giovani o giovanissimi.
Prima di andare a dormire, sulle 2, faccio un giro per vedere come stanno i pazienti. Finché entro nel Box 2, dov’è ricoverato un uomo di cinquantotto anni (l’età di mio padre), che poco più di ventiquattro ore prima stava tranquillamente guidando la sua auto in un paesotto di provincia, quando di punto in bianco il suo cuore si ferma. Passano i minuti, arriva l’ambulanza medicalizzata, quella per i casi più gravi. Il paziente è in fibrillazione ventricolare: una scossa, niente, due, niente; adrenalina, atropina, amiodarone, dopamina, intubazione orotracheale; tre, quattro, cinque, sei, sette, otto scosse… C’è un ritmo! In tutto sarà stato morto una mezz’ora. Lo portano all’ospedale. Là perde il polso, si sospetta una dissociazione elettromeccanica, altro massaggio cardiaco, adrenalina e noradrenalina. C’è polso.
Nell’ECG un blocco di branca sinistro non conosciuto. All’ecocardiogramma un cuore ridotto a una poltiglia, stordito dall’ischemia, incapace di contrarsi bene. Il paziente è in un ospedale di provincia, Catalogna profonda: emodinamica? figuriamoci! Si fa fibrinolisi e trasferimento urgente al mio ospedale, nella capitale.
Arriva il paziente, è già notte fonda. L’emodinamista reperibile è già arrivato. Nel bel mezzo dell’ordinato caos della preparazione all’angioplastica primaria, trova il tempo, con la fredda professionalità di chi ha compiuto quei gesti migliaia di volte, di includere il paziente in un grande trial che verrà prossimamente pubblicato in un’importante rivista.
All’angiografia si nota che sia la discendente anteriore che la coronaria destra sono severamente ostruite, per cui vengono messi tre stents nella prima e uno nella seconda. Siccome il paziente è in shock cardiogenico, si mette anche un contropulsatore aortico.
Il paziente arriva in UCIC, dove viene ricoverato e stabilizzato. Come complicazione (come se non bastassero già la morte improvvisa e l’infarto massivo con shock cardiogeno), un’emorragia digestiva alta.
Tornando a noi, entro nel Box 2, e mi trovo di fronte una di quelle scene a cui mi dovrò presto abituare: paziente sedato e intubato, nudo, impotente e incosciente della sua condizione, migliaia di lucine lampeggianti, e bip-bip dei vari monitor, pompe di infusione, respiratore e contropulsatore aortico. Sembrava un albero di natale, con tutte quelle pompe appese ai pali. Otto pompe che gli infondevano, con metodica regolarità, la dobutamina, adrenalina, noradrenalina, eparina, pantoprazolo, insulina rapida, soluzione glucosata e midazolam che lo facevano rimanere aggrappato alla vita. Una vita che aveva cercato di sbarazzarsene, ma grazie all’impegno, al sudore e all’incrollabile dedizione di medici e infermieri era stato strappato alla morte e riportato nel mondo dei vivi.
A quel punto, nella mia inesperienza di neo-specializzando del secondo anno, mi sono detto: “ma se succede qualcosa, cosa posso fare io per questa persona?”. Sono andato a dormire, inquieto.
Avevo freddo, così mi sono rifugiato sotto il lenzuolo e la coperta sintetica del letto del medico di guardia, come se potessero difendermi da quella situazione così critica che avevo appena visto.
E mi sono sentito piccolo piccolo, insignificante, di fronte al duro e spietato mondo che c’era là fuori…

il Catalano


come l’acqua del fiume d’estate

Posted by Morris on Luglio 04, 2009
cronache / 2 Commenti

E’ giunto quel momento della notte in cui ci si può chiudere in stanza e pensare di stendersi sul letto a cercare di dormire un poco.
L’attività nei reparti è come congelata, e si sente solo il borbottio dei gorgogliatori dell’ ossigeno, lontano e sommesso. Lontano, forse due piani più sotto, un anziano allettato ripete il suo lamento, ormai, più che disperato, stanco e poco convinto.
Sì, sarebbe bello stendersi, chiudere gli occhi, e dormire di quel sonno profondo che riuscivi a ritagliarti anche nelle notti peggiori quando eri un poco più giovane. Adesso è diventato più difficile. I pensieri si sovrappongono, si intrecciano, idee che magari durante il giorno ricacci in seconda linea nel silenzio della notte affiorano e ti legano a loro, allontanandoti dal sonno.
Allora accendi la televisione, con il volume azzerato, e cominci a scorrere i canali: vecchi film, televendite, una ragazza in body trasparente che risponde a un telefono erotico; ha uno sguardo assonnato e pieno di disincanto, e mi viene da pensare che anche lei in fondo indossa una divisa e sta svolgendo un turno di guardia di notte.
Il telefono che suona, con quel suono che di notte ti sembra ancora più odioso. Medicina, stanza 312, il paziente del letto A è peggiorato.
Una volta in reparto, tardo poco ad accorgermi che la situazione lascia ormai poco spazio di manovra. Carcinoma polmonare con impegno mediastinico e metastasi ossee. Saturazione e pressione in calo. La Medicina tecnologica, con le sue sale operatorie lucenti, i suoi apparati di radioterapia, i suoi chemioterapici da migliaia di euro a fiala ha perso la guerra, e ora si sta ritirando in buon ordine, lasciando il compito delle ultime azioni di retroguardia al nostro piccolo reparto di Medicina geriatrica.
Guardando i suoi dati, mi accorgo che il paziente proviene da un paesino dell’Appennino dove da bambino passavo spesso l’estate.
Probabilmente l’ho anche incrociato allora, in quel piccolo borgo ci si finisce per conoscere tutti. Difficile però riconoscerlo ora in questo volto emaciato e contratto.
Chiedo agli infermieri se ci sono familiari da contattare per informarli del peggioramento. Mi rispondono che Bandini, il nostro paziente, è vedovo e senza figli. Il parente più prossimo è un nipote, che però è “sceso a valle” dall’altro lato dell’ Appennino, e se anche gli telefoniamo, certo non si mette in macchina a quest’ora di notte.
Bene, Bandini, sei venuto qui da noi per combattere, e perdere , la tua ultima battaglia tutto da solo.
Mentre gli appoggio lo stetoscopio sul torace, apre gli occhi e mi guarda, e nel suo sguardo si intuisce, più ancora della sofferenza, la paura. E quella paura lo congela, lo ancora alla sua condizione di agonico, gli impedisce di lasciarsi andare: andare verso un ignoto che gli appare più terrorizzante di quella stretta che lo soffoca, di quel dolore che gli scava le ossa.
Chissà come, in quel momento, mi torna in mente il ricordo di una estate assolata passata nel suo paese.
Di una corsa di bambini lungo un sentiero sterrato, verso il fiume; a un certo punto la strada si perde in mezzo al verde, e precipita giù nel rivale, in una pendenza che ai miei occhi di bambino appare un ostacolo insormontabile. Ci blocchiamo, finché uno di noi non prende la rincorsa e si getta lungo la discesa. Pochi secondi , e poi occhieggiando fra i rami, lo vediamo in fondo al pendio, che si sbraccia per invitarci a seguirlo: “Forza, la discesa non è poi così ripida, e l’acqua qui è freschissima”.
Socchiudo gli occhi, mi lancio anch’io lungo il pendio, trattenendo il fiato, e in un attimo sono alla riva del fiume, e il brivido delizioso dell’acqua ancora fresca di sorgente è il premio del coraggio.
A quel pensiero sorrido.
Lui vede il mio sorriso, senza capirlo, e in quel momento mi viene da pensare :”Lasciati andare, Bandini, non è poi così ripida la discesa, e l’acqua del fiume in fondo è fresca”.
Chissà, forse nel silenzio della notte , in cui un sussurro sembra un grido, un pensiero può essere percepito come un sussurro.
Si, certo, è senz’altro l’effetto della morfina che ha cominciato ad infondere, eppure, quando vedo il suo volto distendersi, e il respiro farsi meno affannoso, mi viene da pensare che Bandini mi abbia sentito, e che ora, chiudendo gli occhi, non più spaventati, sogni di correre verso il fiume della sua e della mia infanzia.
Un ora dopo la solita routine. Tanatogramma, ISTAT, chiusura della cartella, la telefonata al nipote, che mi risponde con una voce assonnata e assai poco coinvolta, le frasi di rito, sempre quelle: “Ha finito di soffrire, è stata una cosa rapida, cosa dice, vuol sapere se se ne è reso conto?” Ma certo , coglione, che se ne è reso conto; ma come, sempre, faremo finta di no, la solita negazione dell’evidenza che mettiamo in scena a beneficio dei pazienti terminali e, soprattutto, dei loro congiunti.
Esco sulla terrazza all’ ultimo piano, per respirare un po’ di aria fresca. Fuori, comincia a trasparire una luce rossastra, in direzione del mare. I monti, all’estremità opposta dell’ orizzonte, rimangono ancora una massa scura, avvolta nell’ombra.

Morris

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cose turche

Posted by il guardiano on Maggio 29, 2009
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Arrivo un quarto d’ora prima. In corridoio non c’è ancora nessuno. La signora delle pulizie sta finendo, e il suo carrello si affaccia un po’ ingombrante dalla porta di un ambulatorio. Mi siedo alla scrivania e guardo l’elenco dei pazienti. E’ breve, solo tre. Ma le visite sono lunghe, quindi non è che farò tanto in fretta. Leggo il primo: Adyle Kezam. Cominciamo bene, penso, chissà chi mi arriva. Così cerco di raccogliere qualche informazione in più. Leggo la scheda. Adyle Kezam, ragazza turca di 28 anni. All’ammisione una emorragia cerebrale da sanguinamento di una malformazione artero-venosa. Dimessa poco più di un anno fa dalla nostra rianimazione in discrete condizioni. Il collega che aveva preso l’appuntamento si era segnato alcune note: “…in Italia per un master in astrofisica al Politecnico. Riparte fra un mese. Parla solo inglese”. Subito non ci faccio caso, poi nel momento in cui rimetto in fila tutte quelle informazioni mi accorgo che risuonano in modo particolare. Le parole “turco”, “emorragia cerebrale”, “rianimazione” e “astrofisica” formano una strana assonanza, o dissonanza, quasi comica. Sembra un film di Woody Allen. O una più semplice candid camera. Da qualche parte c’è una telecamera nascosta, sicuro. Non mi resta che stare alle regole e aspettare la rivelazione finale del gioco. Ma la vera prova da sforzo la farà il mio il mio inglese scalcagnato. Per fortuna al fondo di una cartellina ci sono tutti i test originali (in inglese), potrò limitarmi alle solite frasi di circostanza.
Si affaccia un viso straniero alla porta, un uomo: “Buon giorno… siamo per la visita…” e non finisce la frase. “Kezam?” chiedo. “Sì, mia sorella…”. “Prego, entrate…”. Sono in tre. Adyle, suo fratello, e la madre. Quella dell’inlgese era una bufala, penso. “Parlate italiano?” “No… poche parole… inglese o turco”. E’ il fratello a rispondere. Mi aveva fregato, con quelle frasi piazzate lì al posto giusto. Altro che bufala. La recita è cominciata senza che neanche me ne accorgessi, il sipario si è spalancato all’improvviso e io devo fare la mia parte. Parto con i soliti “nice to meet you…” (piacere di conoscervi) e un bel sorriso. Indico le sedie. Prendiamo tutti posto. Ora mi tocca spiegare la faccenda dell’ambulatorio del follow up, dei test… Che casino. E’ complicato in italiano figuriamoci nel mio inglese! Prendo un po’ di tempo, rileggendomi la storia clinica di Adyle. Poi il silenzio comincia ad essere imbarazzante, ma non mi viene niente di intelligente e soprattutto comprensibile da dire. Allora sollevo lo sguardo e lancio il più banalissimo: “how are you?” (come va?) pensando “adesso si alzano e se ne vanno”. Invece Adyle sorride, e risponde con la massima calma: “fine… now I’m fine…” (bene, adesso bene), sottolineando intensamente quel now, come dire: c’era un prima e c’è un adesso. Poi come per giustificare il grassetto delle sue parole inizia a raccontare. Adesso sta bene, perché ha finito il master. Proprio due giorni fa ha discusso la tesi (ASTROFISICA…!), ma è stato faticoso dare gli ultimi esami. Studiava e non si ricordava niente. Aveva mal di testa. E si ripeteva in continuazione: “sono diventata stupida…!”. Io ascolto, e capisco, capisco tutto, non una parola su dieci, tutto! Adyle parla un inglese morbido e fluente, senza sbavature, senza suoni gutturali, senza arrotolare o aspirare incomprensibilmente le sillabe, con un tono calmo e accogliente. E io capisco. E più capisco, più mi viene da guardarla con attenzione (non l’ho ancora fatto). Muove le mani con leggerezza, disegnando nell’aria piccoli arabeschi (cose turche ovviamente…), muove gli occhi come alla ricerca di immagini, che una volta evocate fissa con grande intensità, sorride (e il sorriso resta sempre, come una musica di sottofondo). Così, quando questa piccola storia finisce, mi sento pieno di cose da dire, da spiegare, e come l’acrobata che è già in cielo nel momento in cui spicca il salto, così anch’io comincio a parlare. Decisamente meno fluente, ma tutto sommato comprensibile. Prima spiego il progetto, poi i test, poi faccio altre domande (ricordi, sogni, operazioni, controlli), rispondo (cosa è successo veramente, come sono andate le cose, cosa le hanno fatto, cicatrici, segni, tubi, sonde…). Il resto è tutto in discesa, macina i test uno dietro l’altro, qualche chiarimento, poi tutto finisce.
Tiro un sospiro. Ce l’ho fatta, sono arrivato alla fine, chi l’avrebbe mai detto. Ci alziamo, ci salutiamo (in inglese, in italiano, in turco). “Ancora una cosa…” dice lei prima di lasciare la stanza “è possibile vedere la rianimazione?”. La mamma non capisce, il fratello traduce (in turco), c’è un po’ di imbarazzo (loro non vogliono: non è il caso, troppe emozioni). Adyle attende la mia risposta. “Ok”, dico solo. Lei sorride di nuovo, di più. Fratello e madre accettano, vedono il sorriso, aspetteranno fuori, dicono. Poi quando la porta si apre la tentazione di guardare dentro è forte, così decidono di entrare tutti. Lei non ricorda niente, loro sì. Il personale si accorge della visita. Sono arrivati i turchi. Molti la ricordano, Adyle, la ragazza turca che faceva il master in astrofisica, molti non c’erano in quei giorni, molti sono arrivati dopo. Madre e fratello piangono. Lei no. Lei mantiene la sua calma, la sua gentilezza. Il suo inglese morbido è come una ninna nanna che seduce e incanta. Adesso si è arricchito di una tonalità nuova, quella dello stupore, e della commozione. Poi di nuovo tutto finisce, tutto precipita verso l’uscita, verso i saluti. Strette di mano. Buon ritorno. Buona fortuna. Grazie di tutto. Torno sui miei passi. La commedia è finita (o era una candid camera?), in un angolo del corridoio scorrono i titoli, nella mia testa parte la sigla. Di fronte all’ambulatorio c’è un altro paziente che aspetta. Mi fermo un istante, attendo il buio e la scritta “fine”.

il guardiano

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stesse stelle

Posted by Giramondo on Maggio 19, 2009
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Cambogia.
Metà Marzo, 2009.
A notte inoltrata mi suona il telefono: è il pronto soccorso dell’ospedale dove lavoro.
Mi riferiscono che è arrivato un ragazzino di 10 anni con un trauma cranico per un incidente stradale di 2 ore prima.
Qui fa sempre molto caldo; il mezzo di locomozione più comune e più economico è il ciclomotore; sopra un sedile di motorino viaggiano sempre dalle 3 alle 6 persone, bambini e neonati compresi.
Caschi, sconosciuti; velocità, almeno 70 km orari; fanali, spesso inesistenti.
Mi alzo, mi vesto, e prima di uscire guardo Aràl, la ragazza che ho conosciuto in questa missione; stiamo percorrendo un tratto di vita insieme; forse le nostre strade saranno condivise per tanto tempo… ma forse, e poi questa è un’altra storia. Le dò un bacio; lei non se ne accorge, continua a dormire.
Arrivo in reparto.
Il bimbo ha una profonda lacerazione del cuoio capelluto in regione temporo-parietale sinistra, GCS 8, midriasi a sinistra ed emiparesi a destra. I parenti mi riferiscono che è stato cosciente per circa un’ora dopo l’incidente e poi ha perso conoscenza.
Ovviamente qui non c’è la TAC.
Decido di eseguire una craniotomia sinistra… e chiedo a Budda che sia un extradurale.
Gli infermieri cambogiani mi aiutano a spiegare a mamma e papà che le condizioni sono gravi, che probabilmente loro figlio non ce la farà, ma che faremo il possibile.
Ci serve il loro consenso per operare.
Mi guardano. Qualche parola in khmer con gli infermieri.
Impronta d’inchiostro sulla cartella: è il consenso.
Il piccolo viene rasato.
Andiamo in sala; il personale di sala trasporta e sistema il malato sul letto operatorio; anestesista internazionale e cambogiano sono pronti.
Inizio.
Cute, teca cranica… ecco, non ci siamo: nessun ematoma extradurale.
Vedo un coagulo al di sotto della dura.
Un ematoma sottodurale; cioè: apro la dura, aspiro l’ematoma, richiudo dura, teca cranica, scalpo.
Sono sicuro che c’è una fonte di emorragia cerebrale che io non posso vedere, che riprenderà a sanguinare.
Sono sicuro che dopo alcune ore di coscienza il piccolo ripomberà in un coma questa volta senza speranza.
Non posso fare altro.
Impotente.
Fuori dalla sala parlo con i genitori, spiego la situazione.
Mi guardano ancora: “Aukun, aukun ” ( grazie, grazie ), sono le loro parole.
Io non ho parole per dire come mi sento.
Devo respirare un po’: esco nel bellissimo giardino del reparto.
Caldo anche di notte; a me piace.
C’e’ odore di fiori; ma anche di fiume e di acqua stagnante.
Guardo in alto: stasera il cielo è terso e senza luna. Nerissimo.
Tutte le stelle mi guardano, interrogative.
Non ho risposte.
Tra qualche ora o tra pochi giorni ci sarà un’altra stella li con voi: un piccolo bimbo cambogiano, accoglietelo con la vostra luce, coccolatelo, tenetelo al caldo, fatelo brillare come voi stanotte.

Afghanistan.
Primi giorni di Aprile, 2009.
Stanotte sono uscito dalla sala operatoria dopo un’urgenza.
Qui fa ancora freddo.
Guardo in alto.
Stesse stelle.
Non posso sapere qual’è, ma sono sicuro che una piccola stella cambogiana brilla anche in questa valle afghana.
E spero che mi protegga. 

Giramondo 

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la Risonanza Magnetica

Posted by Sun-Tzu on Maggio 11, 2009
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Avere un quoziente intellettivo in perfetto equilibrio con il proprio potassio non è un criterio indispensabile per fare l’anestesista. Però aiuta.
Quando squilla il DECT dell’emergenza l’anestesista sa che la vita di uno sventurato è nelle sue mani. Ed in questo caso sarebbe stato meglio tagliargliele, le mani. Magari prima che potesse usarle per iscriversi a Medicina.
Qualche piano più in basso e pochi corridoi più in là, c’è una signora non più giovanissima ma ancora in buona forma. Sta sdraiata sul lettino della Risonanza Magnetica Nucleare. Fino ad oggi conduceva una vita tranquilla in totale indipendenza. Poi improvvisamente il braccio di sinistra ha cominciato a non funzionare più a dovere.
La signora è agitata. Un po’ è preoccupata e spaventata. Un po’ è maledettamente claustrofobica. A casa sua non prende neanche l’ascensore. E abita al terzo piano.
Non si preoccupi – dice il medico radiologo – le chiamo subito l’anestesista che le fa qualcosa per farla rilassare. Non so se il collega radiologo mantenga una formula di comunicazione nebulosa e vaga per farsi comprendere meglio anche da chi non è del mestiere o se nebulosa e vaga è anche la sua idea su ciò che fa l’anestesista. L’anestesista in risonanza spesso rilassa i malati agitati. Uno psicoterapeuta pret-a-porter. Che il rilassamento a volte avvenga con un curaro ed un anestetico e ci voglia un tubo ed una macchina per respirare bene può sembrare un vezzo.
In questa storia l’anestesista, però, è uno che sta alla calma e alla ragionevolezza come Ibrahimovic sta alla meccanica quantistica.
Partito alla volta della radiologia con lo zaino per l’emergenza intraospedaliera che ci puoi curare tutti i feriti della scorsa Parigi-Dakar e l’immancabile bombola dell’ossigeno, entra nei locali della Risonanza Magnetica con la delicatezza delle squadre speciali d’assalto.
Impossibile fermare l’eroe prescelto. Il cavaliere dell’apocalisse fa solo in tempo a sentire un incredulo tecnico di radiologia che gli urla: ma dove ca……
La signora adesso è ferma. Il cervello è ben ossigenato avendo una bombola di 15 kg di ossigeno puro nei pressi della testa. Non fosse per una frattura affondata della teca cranica si poteva pensare ad un buon lavoro.

Sun-Tsu

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i tre ragazzi

Posted by Herbert Asch on Aprile 25, 2009
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I tre ragazzi sono evidentemente alle prime armi. Si vede subito.
Così come si vede subito che sono sversi tutti e tre, per aver visto il loro primo morto, che gli è morto quasi, letteralmente, nelle braccia…
Non mi ero accorto subito di loro, la chiamata indirizzava su un paziente in una stanza della medicina all’ultimo piano.
Ma già era sospetto il fatto che il paziente fosse su una barella d’ambulanza, dove peraltro, veniva correttamente massaggiato e ventilato da due infermiere.
La collega del reparto mi spiega brevemente il caso: broncopneumopatico, fumatore incallito, con diagnosi di tumore alla vescica, metastatizzato ad ossa e fegato, che andava ad un ospedale vicino, come le precedenti tre settimane, per fare un ciclo di radioterapia.
Era un uomo corpulento d’aspetto piuttosto trasandato, i vestiti stazzonati, la barba da fare, le mani rinsecchite, con le unghie non curate, le dita marroni di fumo.
Per il paziente era subito stato chiaro che non c’era più niente da fare, anzi, l’improvviso coccolone aveva messo fine sicuramente ad un calvario di sofferenze difficilmente sopportabile.
Ora era arrivato al capolinea, anzi, più precisamente aveva trovato questo capolinea appena uscito dall’ascensore al pianterreno, sul percorso che lo portava in ambulanza.
E gli ambulanzieri, appena visto che non parlava più, avevano ripreso la strada al contrario e l’avevano precipitato nuovamente indietro in reparto, nella sua stanza. Dove aveva anche cessato di respirare ed erano iniziate le manovre rianimatorie.
Manovre che avevamo poi interrotte una volta constatatane l’inutilità.
Il nostro povero paziente aveva finalmente trovato la strada giusta per l’uscita, probabilmente anche con sua intima soddisfazione, visto la terapia antalgica che gli avevano impostata. Le metastasi ossee danno spesso dolori difficilmente controllabili, in questi tumori. Amen.
Pertanto ora che le manovre rianimatorie si erano esaurite, si trattava di riprenderlo dalla barella autocaricante della lettiga, abbassata a livello pavimento per le manovre, e passarlo sul suo letto, in attesa del tanatogramma e dei vari adempimenti burocratici.
– Facciamoci dare una mano dagli ambulanzieri! – propongo. – Falli entrare! A questo punto sono comparsi sulla porta i tre, due ragazzi e una ragazza, infagottati nelle divise arancione dei soccorritori, vent’anni scarsi a testa, pallidi anzichenò, con le facce stravolte. Hanno realizzato che il loro paziente è morto, più precisamente gli è morto sotto gli occhi, proprio in quei momenti lì quando lo riportavano in reparto.
Capisco subito che ho avuto una pessima idea a farli entrare in gioco. In fondo c’era gente e non c’era così bisogno.
Attimo di incertezza.
Incrocio lo sguardo con la Caposala, infermiera di gran buonsenso ed esperienza, che conosco da tempo.
– Forse è meglio offrirgli un caffè! – dico, correggendo il tiro.
– Certo! venite che ve lo metto su – risponde lei rivolta ai tre – qui lasciate stare che ci pensa il personale di reparto! – Ci siamo intesi al volo.
– Si, certo, così vengo anch’io, un caffè lo prendo volentieri. Venite – Ne prendo uno sottobraccio.
E ce li portiamo in cucina, mentre il personale di reparto sistema la stanza..

Il debriefing non è semplice, sono tutti e tre molto scossi, uno non vuole stare comunque, esce a fumare.
Gli altri due si siedono, ma ci va un attimo prima che riprendano un filo del discorso, prima che diano retta a chicchessia.
Prima cerco di buttarla sul tecnico: avete visto la classica situazione dell’arresto cardiaco, è proprio in questi casi che si applicano i gesti che vi spiegano ai corsi di Primo Soccorso… anche se in alcuni casi c’è poi il giudizio del medico… Cerco di dire qualcosa, spiego che hanno fatto tutto quel che c’era da fare, che hanno fatto nel modo migliore, che la storia non poteva concludersi che così, per quel signore, è stato solo un caso che loro si siano trovati in mezzo…
Ma loro sono giovani che si sono trovati improvvisamente vicino alla Morte, non la loro, per fortuna, ma l’han vista da vicino, su uno che un po’ avevano imparato a conoscere:
– Si nascondeva sempre la sigaretta in tasca e la tirava fuori quando usciva dall’ospedale… – ricordava uno di loro.
E poi, adesso, improvvisamente, zot! finito, schiodato lì.

E a me veniva in mente la mia, di storia.
Ho fatto questo lavoro per più di vent’anni, comincio adesso (e forse mi sbaglio) ad essere un po’ più sicuro e meno incerto, avendo sviluppato quel sesto senso che ti viene dall’esperienza di essere chiamato a qualunque ora del giorno e della notte a cercare di capire quel che altri non han risolto, di salvare quel che forse è già perso… io, proprio io che da ragazzino avevo paura dei morti, che odio prendere decisioni irrevocabili proprio tanto quanto amo ricercare le infinite variegature delle possibili soluzioni…
E questa mia pretesa sicurezza l’ho pagata cara, perchè non è semplice passare indenni e mantenere la testa fredda quando sei in situazioni critiche, dove devi capire, prendere decisioni, fare cose, da cui dipende (letteralmente e senza retorica) la vita altrui.
Vedendo magari spettacoli da Gran Guignol con gente incastrata tra le lamiere, con il corpo lacerato, istupidita dal dolore o dalla violenza che ha appena subito.
Diventi poco a poco più sicuro, ma, necessariamente più insensibile; e questa insensibilità te la porti dietro anche nella vita, alla fine non ti diverti più fino in fondo, non ridi più di gusto nè piangi da sfogarti.
Non scrivi più lettere, poesie e forse a volte è anche meglio non pensare.

E allora, io, che cazzo gli posso dire io a questi qui?.

Che sono sfigati, che si son trovati in mezzo e non è colpa di nessuno, che quando finiscono il turno si lavino bene le mani e sciacquino tutte le miserie che hanno visto e le lascino lì nel lavandino, che la vita fuori, per fortuna è diversa, che vadano a divertirsi, che pensino ad altro, che la loro parte l’han fatta…
Poi non dico niente e lascio concludere alla Caposala, che forse è un po’ teatrale, ma è sicuramente efficace:
– Datemi retta, lo conoscevamo bene, qui. Era un buon uomo ed ha sofferto tanto. Ora sono sicura che lui di lassù adesso è contento, finalmente, ed è tranquillo.

E pace all’anima sua.

Herbert Asch

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una mattina come tante

Posted by tartaruga on Aprile 18, 2009
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C’è un solo responso, un solo e unico NO… nella frenesia di una mattina come tante, tre persone si fermano accanto al letto di un paziente… un paziente come ne abbiamo visti passare molti altri e a suo modo unico… tutto quello che avevamo pensato per lui non si può fare e non lo si farà… lo svolgersi degli avvenimenti e le decisioni assunte forse non sempre possono lasciarci del tutto appagati. Il succedersi di pazienti su questo stesso letto attorno a cui ci troviamo mi ha insegnato che non sempre le situazioni sono tutte bianche o nere, ho dovuto imparare a cogliere quella infinità di grigi, senza i quali sarebbe impossibile resistere.
Un gusto amaro ci pervade la bocca, un sottile lampo di perplessità ci attraversa gli occhi… lo sappiamo noi tre, lo vedi negli occhi di chi ti sta intorno nella sala emergenza, lo vedi nei volti della famiglia con cui parlerai, lo vedi nella neve che cade sciogliendosi sul vetro della macchina, mentre lasci l’ospedale per riprendere la tua vita all’esterno.
Io non lo so cosa sarebbe stato meglio in questo caso… so che noi ci abbiamo provato… e questo è sufficiente per entrare domani in sala emergenza, sfoderare il mio solito sorriso e dire: “Allora, che si fa?”, e so che per voi due sarà lo stesso…

Tartaruga