“Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattrocchi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
Le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue”
Eugenio Montale, Satura (Xenia II), 1962-1970.
Stare dall’altra parte è diverso.
Ti trasformi, cambi specie nel tempo di una mitosi, passi dallo stato di medico a quello di paziente. E non un paziente qualunque, ma il peggiore. Quello che nessuno, ma proprio nessuno di noi vorrebbe trovarsi davanti non dico in sala ma nemmeno in ambulatorio. Già, perché solo il fatto di essere “dottoressa” puzza di complicanza inevitabile, di fattore di rischio maggiore per qualche casino tipo shock anafilattico, infezione, etc
Già il collega radiologo, venuto a conoscenza della mia allergia al nickel (tradotto: eczema ai lobi auricolari da orecchini di bigiotteria), si è astenuto dall’iniettarmi il mezzo di contrasto durante la RMN, per cui la mia massa addominale di ndd continuava a rimanere di ndd.
Poi c’è la Paura. Fino al giorno prima ridi e scherzi, minimizzando l’intervento, dicendo che al massimo in una settimana sarai già in pista, facendo finta che la pancia gonfia come un pallone sia la conseguenza del colon irritabile (con tutte quelle guardie micidiali altro che stress!!!), e che quel dolore sordo ed insistente alla gamba sia dovuto ad uno strappo durante quella partita a tennis (risalente ormai a 2 mesi fa).
Poi c’è la Paura. Arriva all’improvviso, come entrare in una cella frigorifera nel mese di agosto. Arriva precisamente quando ti siedi davanti all’anestesista per la visita, dopo tutta la mattina che giri digiuna per i padiglioni dell’ospedale (non il tuo, qui nessuno ti conosce, nessuno ti chiama dottoressa, ora sei una signora) con in mano una manciata di codici a barre e la provetta delle urine.
La collega, gentile, giovane, carina, per niente stressata e pure abbronzata (sarà l’aria di quest’ospedale, chissà se cercano cardiologi da queste parti) mi bombarda di domande seguendo una check list, mi spiega il tipo di anestesia, mi “rassicura” dicendo che quasi sicuramente l’intubazione non sarà difficoltosa, quasi sicuramente non si dovrà prendere una via centrale e che quasi sicuramente non sarà necessaria una degenza postoperatoria in rianimazione… CAVOLO (ad essere precisi l’imprecazione muta che mi è esplosa dentro è stata un’altra). Sorrido, annuisco, ma ho le mani sudate e non vedo l’ora di alzarmi ed uscire a respirare un po’ d’aria inquinata e a strafogarmi di bomboloni alla crema al bar dell’angolo.
E pensare che io, tutti i giorni, devo dare ai pazienti notizie nefaste, comunicare diagnosi definitive di patologie croniche ingravescenti ed invalidanti, proporre interventi cardiochirurgici, impianti di devices, inserimento in lista trapianto….Il tutto mentre ti chiamano al telefono dal pronto soccorso, entra l’infermiera con un ECG urgente da refertare e la signora con il numero 93 verde bussa con insistenza alla porta per reclamare il proprio turno. Io non sono come la collega che mi ha appena visitata. Io non sono più tanto giovane e tantomeno abbronzata, mi sforzo di essere gentile ma i miei gesti intrisi di caffeina tradiscono il fatto che tutto mi sta arpeggiando sui nervi.
Chissà che percezione hanno di me i pazienti? Chissà qual è il loro stato d’animo quando escono dalla mia stanza?
E comunque adesso tocca a me, porca miseria. Fra 4 giorni è fissato l’intervento. Meno male che da ora a quel momento c’è il weekend di guardia! Magari riesco a non pensare.
E così infatti è stato. In terapia intensiva fila via tutto liscio, c’è solo un paziente critico ancora ventilato la cui criticità maggiore sembra essere la sua situazione familiare (la compagna è una mia amica…). Ce ne fossero di guardie così tranquille! Potrei anche cercare di dormire, ma non ce la faccio a stare da sola nella mia stanza. Vago per l’ospedale con il dect in tasca. Possibile che non ci sia in Pronto qualche dolore toracico, qualche curva enzimatica da chiudere, qualche FA parossistica in chirurgia? Niente. Arriva finalmente mattina. Raccolgo le mie cose, mi porto via dall’infermeria una confezione di X-prep e l’occorrente per le medicazioni e mi tuffo nel mondo esterno. Alla bollatrice, come dice un collega, avviene il “passaggio di stato”. Questa volta però le mie gambe non sono come al solito leggere, ma assumono una consistenza gelatinosa, che insieme con lo stomaco galleggiante e l’intensa peristalsi intestinale caratterizzano una sola nota condizione: la paura.
La mattina successiva mi presento sulle mie gambe instabili nel reparto per il ricovero, dotata di valigia 24 ore e di marito. Sono le 7, c’è il cambio di guardia, per cui vengo parcheggiata in sala d’attesa con altre donne per un’oretta. E’ interessante vedere come tutte, ma proprio tutte, proviamo la stessa paura, abbiamo le stesse mani sudate ed irrequiete; immediatamente la rivalità che normalmente serpeggia tra donne si trasforma subito in solidarietà: ci si dà del tu, ci si racconta senza veli, sicure che la nostra interlocutrice sia in uno stato di totale empatia, ci si aiuta allacciarci il camice monouso…
Gli uomini si defilano con le solite scuse banali: le sigarette, la macchina parcheggiata male, la telefonata…Poco importa, chi ha già partorito sa che certi momenti della vita non sono fatti per i cromosomi Y.
Sono la seconda della lista operatoria, quindi ho giusto quella mezzoretta di tempo per struggermi ancora un po’. Nel bel mezzo di tale struggimento arriva un angelo: Mariella, l’anestesista che da qualche mese si è trasferita dal mio ospedale. Sono felice di vederla. E’ come ritrovare una vecchia compagna d’armi…In effetti abbiamo combattuto insieme diverse battaglie, alcune vinte, moltissime perse. Anche se non è di turno in sala rimane accanto alla mia barella e mi distrae mentre l’antibiotico mi scorre in vena. Con voce di velluto mi rassicura, mi sistema i capelli nella cuffietta e sorride. Io sono figlia unica, ma in quel momento penso che se avessi una sorella mi piacerebbe che fosse esattamente come lei. Senza la sua presenza non avrei sopportato l’entrata del chirurgo (nervoso, sfuggente, quasi incazzato).
Nel frattempo si è materializzata anche Maria, la mia ginecologa, che è in pensione da qualche mese ma non riesce a stare lontana dall’ospedale. Si sta vestendo per entrare in sala, mentre con parole sapienti mi tranquillizza. La paura finalmente si scioglie e lascia il posto alla commozione. Non mi aspettavo tanta partecipazione…
Finalmente entro in sala. Maledetti allarmi, quanto li odio! L’anestesista, con accento straniero e gentile, mi annuncia che sta per farmi la preanestesia. In un attimo la scialitica sopra di me si fa più brillante ed inizia ad ondeggiare, il campo visivo si contrae, poi il nulla.
Dài atleta, dai un colpo di tosse! Riemergo con l’allarme insistente della frequenza cardiaca nelle orecchie. Apri gli occhi, tira fuori la lingua!
Capisco che è tutto finito e che sto stranamente benissimo. Solo il giorno dopo, in preda all’astinenza, capisco che è la morfina a regalarmi questo stato di soffice galleggiamento…
Qualcuno mi dice che, all’esame estemporaneo, la massa asportata sarebbe un fibroma ovarico. Diosialodato!!!!
Il pensiero va subito ai miei bimbi, vorrei stringerli forte…
Grazie a tutti “di cuore”, ma soprattutto a due dottoresse che prima di tutto sono due donne (e con questo ho detto tutto!!!).
Jumba
bel post non c’è che dire…anche se ho qualche dubbio sul titolo, non so quanto azzeccato
Davvero Dio sia lodato! Racconto intenso e veritiero. Ma noialtri uomini e donne di medicina andiamo in tilt anche per una qualsiasi visita medica…