La cura dell’agonia – prima parte

Scritta da Herbert Asch su gennaio 11, 2014
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Foto di HA

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Oggi, e nei prossimi tre post ho pensato di proporre questa memoria, scritta da un medico illustre della fine dell’800, Scipione Riva Rocci, noto per aver inventato lo sfigmomanometro.

La memoria, del 12 gennaio 1898, è riportata nel libro “Buona Sanità – Storia di un Ospedale” di Francesco Scaroina. (Pintore Ed. Torino, 2005.) da cui l’ho tratto.

Ad una lettura superficiale può essere noiosa, e credo che possa essere apprezzata soprattutto da addetti ai lavori, vi sono molti termini tecnici spesso ormai abbandonati, ma trovo che, ad una lettura più attenta, si presti a diverse interpretazioni: intanto dà un’idea di come si sia evoluta la farmacopea e in genere gli strumenti a disposizione del medico. Inoltre risalta molto il ragionamento clinico, descritto molto bene dall’autore. Si può poi notare come la compassione verso il paziente sia rimasta la stessa quale è sempre stata sin dalla nascita delle professioni (o arti) mediche e assistenziali. Infine, nell’ultimo brano troviamo l’esplicitazione dell’atteggiamento verso la sedazione terminale sopravvissuto ancora sino a qualche tempo fa.

H.A.

La cura dell’agonia.

Ero venuto a casa inquieto quella sera: prevedevo una catastrofe per la notte. Cacciatomi sotto le coltri, non riuscivo a prendere il sonno; battevano le undici e mezza, le dodici, ed io stavo ansioso, in orecchi, sussultando ad ogni rumore di carrozza, che sonasse sul selciato della strada.

Finalmente ero riuscito ad addormentarmi, quando una forte scampanellata mi fece balzare sul letto: sapevo di che si trattava; senza aspettare che andassero ad aprire, accesi i lume e mi vestii, in modo che mi trovai subito pronto a partire.

Sulla porta semiaperta dell’alloggio mi aspettava ansiosa una donna.

– Venga presto, dottore! Me lo salverà, non é vero? Sta proprio male –

Le parole, sussurrate, si spegnevano sui tappeti morbidi, nelle cortine pesanti del corridoio d’entrata. Sotto la luce rosea ed incerta d’una lampada colorata avevo visto passare senza rumore, in salotto, un’ombra nera, il prete; in quel silenzio pesante s’udiva soffocato e lontano un rumore strano, ritmico, con pause rotte.

Come s’era accresciuta la dispnea in poche ore!

Che fare? Era la fine della terza giornata: era là, appoggiato ad un cumulo di guanciali, d’un accensione cianotica alle guancie, coll’occhio iniettato e lucente, e la pupilla larga e profonda, nelle brevi tregue dellla dispnea rumorosa che lo affaticava, muoveva il capo cercando il refrigerio d’un pezzetto di ghiaccio sulle labbra riarse.

Che fare? Potevo io tentare qualcosa contro quella epatizzazione, che aveva convertito in un blocco solido successivamente tutte e due i lobi dei polmoni? Potevo impedire, frenare, ridurre, anche in minima parte quell’intossicazione, che lo prostrava nell’attività dei visceri più necessari alla vita? Avevo qualche cosa che potesse stimolare o accrescere la resistenza di questi organi, che si vedevano cadere di minuto in minuto?

Non era il caso, nè avevo il modo di curare la malattia: purtroppo in questa, come in tante altre, noi siamo ridotti ad una terapia puramente sintomatica e sovente anche empirica. Oramai era troppo tardi anche a tentare una cura sistematica. A nulla avrebbe giovato il bagno, od il freddo locale, se non fosse ad accelerarne la fine colla fatica che gli si doveva necessariamente imporre. D’altra parte anche questa terapia, praticata nei giorni precedenti, non aveva impedito di trovarsi ora all’agonia; il bagno e la perfrigerazione cutanea – nei momenti supremi – ha fallito sempre. Quanto pure non ha aggravato la posizione, nè qui nè in altri momenti simili di qualsiasi malattia, era il caso di pensarvi.

Era il caso ed era il tempo di praticare una revulsione cutanea? Il vescicante abbisogna, per produrre un effetto qualsiaisi, di parecchie ore. Dopo un quarto d’ora, nei casi fortunati, incomincia la trasudazione, ma nelle maggior parte delle volte occorre un’ora e anche più perché si sollevi una bolla. Potevo credere che il mio malato mi desse un’ora di tregua?

Ed ottenuta la vescicazione potevo sperare un’attenuazione dei sintomi? Evidentemente non avrei potuto ottenere un effetto che in due modi: o modificando -diminuendola- l’intossicazione. Sia sottraendo col siero della vescica un po’ del tossico circolante, sia colla modificazione dell’equilibrio chimico, per la penetrazione di un po’ del materiale irritante del vescicante o del siero da esso modificato.

Pure e mere ipotesi

Oppure ancora come irritante cutaneo, agendo sui centri nervosi in maniera da rendere piú forte la regolazione del cuore ed il tono vasale. Anche questa una spiegazione pei casi felici. Non c’erano, è vero, controindicazioni. Non esisteva una vera nefrite, non si trattava di quelle malattie, come il tifo, lo scorbuto, le setticemie, che, per sè, controindicano ogni lesione di continuo della cute come pure i centri nervosi, -avvelenati, forse- non erano certo infiammati in modo che avessi a temere poi escare da paralisi trofica, superato il pericolo.

Bilanciato il pro ed il contro avrei potuto forse tentare. Evidentemente dovevo cercare un vescicante che irritasse: non potevo usare -come in altri casi non urgenti- il vescicatorio indoloro (canfora, idrato di cloralio, mentolo, sugna depurata o vaselina) preparazione sovente infedele. Era necessario usare un vescicatorio cantaridato: il vescicatorio rosso o i quadretti di Albespeyres, usualmente abbastanza buoni se ben conservati.

Potevo mandarli a prendere per averli sottomano.

(1 – continua)

“La cura dell’agonia” di Scipione Riva Rocci è integralmente riportato nel libro “Buona Sanità – Storia di un Ospedale” di Francesco Scaroina. Pintore Ed. Torino, 2005.

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