Sono le ore 20.00. Nemmeno prendo servizio e già vengo chiamato per l’urgenza clinica in uno dei reparti di degenza. Indosso rapidamente la divisa e gli zoccoli blu, gentilmente forniti dall’azienda sanitaria ai medici di guardia e tatticamente disegnati per fronteggiare l’emergenza – in ottemperanza della spending rewiev, si è omesso l’acquisto delle pettorine con la lettera S italica e la mantellina rossa – e, districandomi tra le moltitudini di parenti che, a quell’ora di visita vanno e vengono, affollando scale e corridoi del nosocomio, mi dirigo rapidamente verso la stanza del paziente in difficoltà.
Dinanzi alla porta chiusa, un capannello eterogeneo per età e corporatura di uomini di colore mi segue con lo sguardo interrogativo e insieme fiducioso che, cedendo infine alla speranza, si scioglie in un sorriso marmoreo, incastonato nell’ebano scultoreo di quei volti d’Africa, come risposta al mio cenno di saluto.
Apro la porta e un giovane nero subcomatoso, di nome Henry, giace inerme e composto sul giaciglio di lenzuola pallide, circondato dal medico di reparto, da un altro collega e dallo specializzando – tutti in abiti borghesi e camice bianco, …ma senza divisa da supereroe! – e da un ecografo, immobili, in attesa del sottoscritto.
Il problema clinico è rappresentato dal peggioramento acuto del paziente in questione, affetto da AIDS conclamato, blocco intestinale e insufficienza renale acuta, richiedenti il posizionamento rapido di un sondino nello stomaco, atto a svuotarne il contenuto, allo scopo di decomprimere l’addome e consentire l’espansione respiratoria del torace, nonché l’inserimento di un grosso catetere vascolare, la cui punta deve raggiungere le prossimità del cuore e attraverso il quale potrà avere luogo la dialisi salvifica. Gli altri astanti hanno fallito la prima manovra, a causa della resistenza, per lo più involontaria, opposta dal paziente, né hanno dimestichezza con la seconda. Quindi… è un lavoro per me!
Chiamo Henry che apre gli occhi e risponde. Nel solito inglese made in Italy, incerto e improvvisato, gli spiego le manovre cui sta per essere sottoposto e ne ottengo la promessa di collaborazione, cui, nonostante l’obnubilamento mentale – non il mio, almeno nel caso in questione! – viene britannicamente mantenuta fede. In breve tempo e con il prezioso aiuto degli infermieri, dopo l’abbandono del locale da parte degli altri medici, finalmente liberi di interloquire coi parenti degli innumerevoli pazienti del reparto, entrambe le procedure hanno luogo con successo.
Abbandono per ultimo la stanza e supero il capannello a dir poco festante, largamente prodigo di sorrisi, saluti e inchini ed emanante un oceanico profluvio di educato e gradito calore umano, una volta informato del risultato dell’intervento.
Lungo il corridoio che conduce all’uscita dal reparto, rifletto sull’ottimistico entusiasmo raccolto, sicuramente gratificante, ma apparentemente esagerato per la soluzione temporanea di un problema contingente, ben lungi e differente dalla guarigione impossibile: sperimento una sensazione di stranezza, la percezione indefinita di un dettaglio sfuggente, di un impalpabile particolare fuori posto, di un’atmosfera irreale.
Poco dopo, mentre sorseggio un delizioso caffè industriale, preparatorio della notte lavorativa, di fronte al generoso e lussuoso distributore automatico, sito nell’androne nosocomiale, incontro la persona che si prende cura di Henry nel nostro Paese. Me ne racconta la vicenda umana, quella di un esule, di padre sciamano, in fuga da credenze magiche che obbligherebbero i prescelti, su base dinastica, a sottoporsi a riti pagani che prevedono anche la condivisione di sangue…umano! Almeno, così mi pare di intendere. Inoltre, i parenti giungono direttamente dall’Africa, per celebrare, in loco, i riti tribali di guarigione – già svolti – per Henry.
Improvvisamente si diradano le nebbie del corridoio di reparto e l’espressione clamorosa di soddisfazione per ciò che interpreto come una presunzione di guarigione, conseguenza dell’apparente palesamento di una disperata speranza, si colmano di significato. Il rituale propiziatorio ha raggiunto lo scopo, con l’evocazione dello spirito guaritore e salvatore di vite, che si manifesta con sembianze umane, recante, come unico segno distintivo, un singolare, quanto pittoresco abito di colore…blu!
«La fede è sostanza di cose sperate e convinzione di cose che non si vedono» (San Paolo, Lettera agli Ebrei).
Zarianto
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