Dunque, mi chiamo, diciamo, Priscilla, e vi scrivo tramite quell’individuo inaffidabile di Morris perché è lui quello che ha fatto il classico, e in qualche modo dovrà rendersi utile, visto che l’ho sposato.
Sono anch’io medico (si, è un classico, i medici si sposano fra di loro perchè la loro è una vita di sacrifici, di turni impossibili ecc, ecc e chi meglio di un collega può capire ed esserti vicina, tanto per andare alla sagra dei luoghi comuni) e ormai da una vita faccio “provvisoriamente” la guardia medica sul territorio (o, come si dice adesso, “Continuità assistenziale”, che fa più figo).
Quando cominciai a fare guardie, tanto tempo fa, mi trovai una sera in turno con un collega non più di primo pelo e quando gli chiesi perché era ancora lì mi rispose: “Mah, vedi, questo può sembrare un lavoro da schifo, però quando al mattino smonto e mi incrocio con gli schiavi che entrano in ospedale con il capo chino e il pensiero del Primario, del Direttore sanitario, del Direttore amministrativo ecc. ecc. che gli alitano sul collo, mentre io sono libero di andare a pescare, ti dirò, mi sento quasi felice”. Allora mi sembrò un’eresia, ma con il tempo ho cominciato a capire un po’ di più il suo punto di vista.
Il fare prevalentemente turni notturni ti dà effettivamente la possibilità di avere tempo per la famiglia durante il giorno che gli altri lavori non ti danno. Lo svantaggio, intuitivo, è che se la notte stai sveglia e di giorno fai la mamma (e per di più una mamma di oggi, di quelle con l’horror vacui, che se non riescono ad occupare ogni istante libero loro e dei figli con qualche impegno le prende l’angoscia) prima o poi ti capita di stramazzare al suolo.
Ho trovato la quadratura del cerchio ottenendo, grazie all’anzianità acquisita, l’ambito posto presso una sede periferica con un tasso di chiamate decisamente più accettabile di quello dell’ area urbana. Si, possono capitare notti di tregenda con chiamate da poderi dispersi mentre fuori c’è un tempo da lupi, ma di tanto in tanto c’è un bel turno in cui il telefono sembra essersi dimenticato di te.
L’altra faccia della medaglia è che qui sei sola, completamente sola; sola con i tuoi dubbi, con la paura di sbagliare; non hai dietro di te laboratorio, radiologia, consulenti; nemmeno un collega di guardia con cui scambiarti un parere. La decisione è solo tua, e tutte le notti devi tirare la tua monetina mentale per decidere se quel dolore addominale giustifica un Buscopan o un invio in ospedale, e speri sempre che cada dal lato giusto, la monetina.
Ma oggi non ci sono monetine da lanciare, non ci sono alternative possibili. “Ci sarebbe da constatare un decesso”. Quante volte ho sentito questa frase. Solo che stavolta al telefono c’è il maresciallo dei carabinieri, e come indirizzo a cui recarmi ho solo un chilometro della strada statale. “Tanto quando arriva lì ci vede, ci siamo noi, i vigili, l’ambulanza….”
Lì è un punto in cui la statale costeggia il fiume che scorre diversi metri più in basso, c’è un parapetto, da cui si vede un sentiero lungo l’argine, asfaltato per fungere da passeggiata turistica. Solo che non sono turisti a percorrerlo oggi, ma solo figure in divisa. E in mezzo a loro, stesa sotto un lenzuolo macchiato di rosso, una sagoma.
C’è una scalinata che dalla strada porta al lungofiume, e la scendo con una sensazione di straniamento: guardo la scena come dall’ esterno, come se quello fosse CSI e io stessi guardando un episodio alla TV.
Il maresciallo mi deve vedere un po’ bianchina, e mi prende da parte. “E’ solo una formalità, dottoressa. Si è buttato da lassù, vede? E’ senz’altro morto sul colpo. Quelli del 118 gli hanno già fatto il tracciato e hanno preparato il certificato di morte, c’è solo da firmarlo, così possiamo spostare la salma.”
Mi faccio forza e mi avvicino alla salma. L’infermiere catafratto nelle sua bella tuta tattica arancione mi porge una risma di fogli e un ECG rigato da una serie di linee piatte parallele. Guardo i certificati e ,quando vedo il nome del morto posto in intestazione, ho un flash back.
Sono tornata ad una chiamata di circa quindici giorni fa: “Venga , dottoressa, faccia in fretta perché abbiamo un nonno un po’ fuori controllo.”
Fuori controllo, direi, era un eufemismo. Il nonno in questione, ospite di una delle tante case di riposo della vallata, era addossato spalle al muro e biascicava frasi scommesse con uno sguardo che non prometteva niente di buono. Soprattutto perché impugnava un paio di forbicioni lunghi una ventina di centimetri.
Va bene, voce calma, mantenere la distanza, non perderlo di vista. Per prima cosa bisogna avvisare i familiari (“Mah, dottoressa, che vuole, coi figli non va d’accordo, non si fanno vedere praticamente mai”).
OK, allora chiamate i vigili urbani e il 118, che cerchiamo di fare un ASO (per fare il TSO mi servirebbe un secondo medico in controfirma, e dove lo vado a trovare di domenica?). Chiamo il centralino dell’Ospedale provinciale, e chiedo di cercarmi lo psichiatra in turno in “Diagnosi & cura” per avvisarlo del bel personaggino che sto per inviargli. Mi risponde una collega che, alle mie spiegazioni, fatte sempre controllando con la coda dell’occhio che il potenziale accoltellatore non si sposti dal suo angolo, risponde, con tono scettico: “Mah, non potete dargli qualcosa per calmarlo un poco? Se non c’è urgenza, io giovedì sono in ambulatorio in consultorio lì da voi e così lo vedo e gli aggiusto la terapia….”
Come no, mi viene da dirle, gli procuriamo anche un cartamodello e una bella pezza di tessuto frescolana, così di qui a giovedì con i suoi forbicioni ti prepara un bel tailleurino pronto da indossare.
No guarda cara, sono arrivati il 118 ed i vigili, se ce la facciamo lo carichiamo e te lo spediamo. Adesso chiudo, ciao.
Ci vuole un po’ molta pazienza, poi il vigile del paese, che lo conosce, lo convince a posare le forbici. Con molta cautela, riusciamo a fargli un Serenase, e a convincerlo a salire sull’ambulanza. Quando è tutto finito sono stremata, e non so cosa darei per allungare le gambe sul mio divano sorseggiando un bel the. Invece mi aspettano ancora quindici ore di turno.
Tutto questo mi è tornato in mente perché quel povero mucchietto di ossa rotte sotto il lenzuolo è il mio vecchietto coi forbicioni. Quando lo ho inviato all’ ospedale, lo hanno visitato, lo hanno tenuto in osservazione per qualche ora, “visto che il paziente si mostrava tranquillo e collaborante”, lo hanno rispedito alla struttura di invio con una terapia neurolettica più forte che, con tutta probabilità, si è guardato bene dall’assumere. E per fortuna prima di buttarsi giù dal cavalcavia non ha avuto l’idea di impugnare di nuovo le forbici e di portarsi dietro compagnia nel suo ultimo viaggio.
Ecco, in quest’anno in cui cade il trentennale della morte di Basaglia si è fatta tanta retorica. Ci si dimentica purtroppo spesso che la pazzia e la demenza sono spesso una prigione peggiore di un ospedale psichiatrico, che finisce per rinchiudere non solo i malati ma anche chi deve vivere a loro vicino, e che le strutture che devono seguire questi malati sono terribilmente sottodimensionate e insufficienti.
Mah, cerchiamo di non pensarci. Finalmente sono sul mio divano; e questo bel the dolce e ben zuccherato penso proprio di essermelo meritato.
Morris
Ciao Priscilla,
sarebbe buona cosa se la storia che racconti fosse divulgata. Fa bene ascoltare una storia vera e non tante chiacchiere del tipo “bisogna riorganizzare! Ci vogliono nuove strutture per i pz psichiatrici! etc etc”. La realtà è quella che racconti tu, che hai vissuto il prima ed il dopo di questa persona.
Buon notte… io intanto sono di notte di guardia.
tu l’hai riconosciuto quel “povero mucchietto d’ossa”,gli hai ridato dignità. E tanto basta. Grazie