Notte come tante altre, fino a questo momento.
Suona il telefono, un sobbalzo, il sonno viene automaticamente ricacciato indietro all’estremo limite della percezione. Resta una leggera nausea ma di notte ci sono abituato.
Un codice rosso, mi viene riferito.
Fuori è freddo e mi vesto pesante.
Quasi una cerimonia, la vestizione, come prima di una tauromachia, solo più rapida.
Salgo sull’auto medica.
Si tratta di un incidente.
La tensione che si accumula silenziosa fra l’autista e me durante il tragitto. Rimaniamo in silenzio. La luce blu del lampeggiante che rotea intorno a noi, le nostre immagini debolmente illuminate riflesse dal vetro delle finestre.
Capiamo che stiamo per arrivare, vediamo automobili ferme e fanali in lontananza, gente in piedi sull’asfalto che ci fa segno. Ci facciamo strada. Apprensione ormai palpabile, diventa angoscia, gli occhi cercano, esco dall’auto.
Due persone coinvolte sedute sul ciglio, appoggiate ai platani, apparentemente in discrete condizioni.
Dentro l’ambulanza, mi dicono, c’è un’altra persona. Dalla voce concitata del soccorritore, dal linguaggio non verbale capisco che è grave.
Salgo sul predellino ed entro.
Mi chiudo la porta scorrevole alle spalle.
Sulla barella un uomo sulla trentina, robusto, agitato. Parla concitatamente sempre la stessa frase “Aiutatemi non riesco a respirare”. Non rimane fermo, gli arti brandeggiano come pale impazzite. Io, un assurdo Don Chisciotte contro i mulini a vento. In due non riusciamo a tenerlo fermo. Posizionare un accesso venoso è oltre l’orizzonte del possibile. Il sibilo continuo dell’ossigeno a tratti si affaccia alla coscienza. Ripartiamo subito. Mi chino su di lui per visitarlo, una mano mi afferra un avambraccio, faccio fatica a divincolarmi. Agli emitoraci solo movimenti preternaturali e paradossi, la mia mano quasi sprofonda fra il crepitio delle costole. La sirena sul tetto urla, la velocità è elevata, ci dobbiamo attaccare ad ogni appiglio utile nell’abitacolo, ma il tragitto sembra infinito. Lui continua ad agitarsi, le parole sempre più sconnesse. Manca poco ormai. Siamo sul viale. In fondo si vede l’insegna del Pronto Soccorso. Improvvisamente, smette di respirare, le membra si rilasciano e si accasciano senza più volontà propria, preda della forza di gravità e dei bruschi movimenti del mezzo. In una frazione temporale, da essere umano a cadavere. Mi rendo conto di avere il laringoscopio in mano, lo infilo fra gli strattoni e i sobbalzi nel laringe inerte.
Immagini mentali in successione rapida, intrusive, parallele a quanto accade nella realtà e destinate a non entrare mai in contatto con essa: flash delle ultime vacanze, una musica da camera in stile baroccheggiante mai udita prima, fulmini globulari di luci variegate.
In sala emergenza sarà tutto inutile. Il medico anziano, prossimo alla pensione, ne ha viste tante ormai, compila i vari moduli, la constatazione e il resto.
In sala d’attesa arrivano la moglie e la figlia adolescente. Resta da comunicare loro la notizia. Solo in quel momento mi viene voglia di piangere.
Qualche notte dopo, a casa, un sogno: mi manca l’aria. Mi sveglio sudato e boccheggiante. Una specie di contrappasso, sbiadita ricostruzione autogena di quanto doveva avere provato lui.
Riverrun
GRAZIE Riverrun