E’ giunto quel momento della notte in cui ci si può chiudere in stanza e pensare di stendersi sul letto a cercare di dormire un poco.
L’attività nei reparti è come congelata, e si sente solo il borbottio dei gorgogliatori dell’ ossigeno, lontano e sommesso. Lontano, forse due piani più sotto, un anziano allettato ripete il suo lamento, ormai, più che disperato, stanco e poco convinto.
Sì, sarebbe bello stendersi, chiudere gli occhi, e dormire di quel sonno profondo che riuscivi a ritagliarti anche nelle notti peggiori quando eri un poco più giovane. Adesso è diventato più difficile. I pensieri si sovrappongono, si intrecciano, idee che magari durante il giorno ricacci in seconda linea nel silenzio della notte affiorano e ti legano a loro, allontanandoti dal sonno.
Allora accendi la televisione, con il volume azzerato, e cominci a scorrere i canali: vecchi film, televendite, una ragazza in body trasparente che risponde a un telefono erotico; ha uno sguardo assonnato e pieno di disincanto, e mi viene da pensare che anche lei in fondo indossa una divisa e sta svolgendo un turno di guardia di notte.
Il telefono che suona, con quel suono che di notte ti sembra ancora più odioso. Medicina, stanza 312, il paziente del letto A è peggiorato.
Una volta in reparto, tardo poco ad accorgermi che la situazione lascia ormai poco spazio di manovra. Carcinoma polmonare con impegno mediastinico e metastasi ossee. Saturazione e pressione in calo. La Medicina tecnologica, con le sue sale operatorie lucenti, i suoi apparati di radioterapia, i suoi chemioterapici da migliaia di euro a fiala ha perso la guerra, e ora si sta ritirando in buon ordine, lasciando il compito delle ultime azioni di retroguardia al nostro piccolo reparto di Medicina geriatrica.
Guardando i suoi dati, mi accorgo che il paziente proviene da un paesino dell’Appennino dove da bambino passavo spesso l’estate.
Probabilmente l’ho anche incrociato allora, in quel piccolo borgo ci si finisce per conoscere tutti. Difficile però riconoscerlo ora in questo volto emaciato e contratto.
Chiedo agli infermieri se ci sono familiari da contattare per informarli del peggioramento. Mi rispondono che Bandini, il nostro paziente, è vedovo e senza figli. Il parente più prossimo è un nipote, che però è “sceso a valle” dall’altro lato dell’ Appennino, e se anche gli telefoniamo, certo non si mette in macchina a quest’ora di notte.
Bene, Bandini, sei venuto qui da noi per combattere, e perdere , la tua ultima battaglia tutto da solo.
Mentre gli appoggio lo stetoscopio sul torace, apre gli occhi e mi guarda, e nel suo sguardo si intuisce, più ancora della sofferenza, la paura. E quella paura lo congela, lo ancora alla sua condizione di agonico, gli impedisce di lasciarsi andare: andare verso un ignoto che gli appare più terrorizzante di quella stretta che lo soffoca, di quel dolore che gli scava le ossa.
Chissà come, in quel momento, mi torna in mente il ricordo di una estate assolata passata nel suo paese.
Di una corsa di bambini lungo un sentiero sterrato, verso il fiume; a un certo punto la strada si perde in mezzo al verde, e precipita giù nel rivale, in una pendenza che ai miei occhi di bambino appare un ostacolo insormontabile. Ci blocchiamo, finché uno di noi non prende la rincorsa e si getta lungo la discesa. Pochi secondi , e poi occhieggiando fra i rami, lo vediamo in fondo al pendio, che si sbraccia per invitarci a seguirlo: “Forza, la discesa non è poi così ripida, e l’acqua qui è freschissima”.
Socchiudo gli occhi, mi lancio anch’io lungo il pendio, trattenendo il fiato, e in un attimo sono alla riva del fiume, e il brivido delizioso dell’acqua ancora fresca di sorgente è il premio del coraggio.
A quel pensiero sorrido.
Lui vede il mio sorriso, senza capirlo, e in quel momento mi viene da pensare :”Lasciati andare, Bandini, non è poi così ripida la discesa, e l’acqua del fiume in fondo è fresca”.
Chissà, forse nel silenzio della notte , in cui un sussurro sembra un grido, un pensiero può essere percepito come un sussurro.
Si, certo, è senz’altro l’effetto della morfina che ha cominciato ad infondere, eppure, quando vedo il suo volto distendersi, e il respiro farsi meno affannoso, mi viene da pensare che Bandini mi abbia sentito, e che ora, chiudendo gli occhi, non più spaventati, sogni di correre verso il fiume della sua e della mia infanzia.
Un ora dopo la solita routine. Tanatogramma, ISTAT, chiusura della cartella, la telefonata al nipote, che mi risponde con una voce assonnata e assai poco coinvolta, le frasi di rito, sempre quelle: “Ha finito di soffrire, è stata una cosa rapida, cosa dice, vuol sapere se se ne è reso conto?” Ma certo , coglione, che se ne è reso conto; ma come, sempre, faremo finta di no, la solita negazione dell’evidenza che mettiamo in scena a beneficio dei pazienti terminali e, soprattutto, dei loro congiunti.
Esco sulla terrazza all’ ultimo piano, per respirare un po’ di aria fresca. Fuori, comincia a trasparire una luce rossastra, in direzione del mare. I monti, all’estremità opposta dell’ orizzonte, rimangono ancora una massa scura, avvolta nell’ombra.
Morris