morte

Solstizio d’inverno

Posted by TNT69 on maggio 15, 2012
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Che strano, leggo i vostri racconti e poi mi soffermo sulle mie notti.

Voi tutti parlate di notti in cui i campanelli suonano, di monitor accesi, di vite da salvare, di lotte infinite per poter arrivare in pronto soccorso in tempo per non morire. Se arriva una chiamata o suona un campanello l’adrenalina va alle stelle, ci si prepara per l’incognita, cosa dobbiamo fare? Chi incontreremo? Cosa troveremo? Pronti all’impossibile.

Da me invece le notti sono per lo più calme, adrenalina molto poca e spesso messa in circolo più dai parenti in ansia che non dai pazienti. Quando suona un campanello si sa quasi sempre cosa ci aspetta…e a differenza di tutti voi noi non lottiamo per salvare la vita, la accompagniamo, ci sediamo accanto, cerchiamo di dare un senso a quell’ultima fase che qualcuno deve pur seguire.

Il mio direttore, pochi giorni fa, dopo la morte di un ragazzo di 11 anni, ha detto che facciamo un lavoro contro natura, mentre tutti salvano vite noi le accompagniamo alla fine senza tentare di salvarle, lo vorremmo, quante volte vorremmo che le cose non finissero così… Quanto senso di impotenza con cui fare i conti quando finisce una notte tranquilla dove avresti voluto salvare, ma hai dovuto accompagnare e dare/ darti un senso per la morte di un figlio giovane, di una madre o di un padre che lascia i suoi bimbi, un marito o una moglie con cui si è condivisa una vita. Molti non lavorerebbero mai qui, ma dopo 10 anni io scelgo ancora di starci, perché di preciso non lo so, credo che cogliere l’ultimo respiro di un essere umano ha un qualcosa di sacro, di unico e sicuramente ha un senso che non capisco ma che sento nel profondo e che mi da motivazione a continuare…e… la Croce illuminata della Chiesa di fronte a noi ( sarà un caso? ) mentre la notte volge al termine mi conferma nel profondo del cuore che un senso c’è.

TNT69

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Notte in Hospice

Posted by TNT69 on aprile 06, 2012
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foto di MV

foto di MV

Silenzio, luci soffuse, il rumore del condizionamento.

Dopo aver finito il giro ci si sofferma davanti al computer, si abbassano le luci. Ci si scalda con un the caldo, ci si racconta un po’, la vita, le esperienze, ci si conosce o si discute degli eventi lavorativi. A volte si ricordano pazienti particolari, quelli che ci hanno insegnato qualcosa, ognuno ne ha uno diverso. Poi si gira per vedere se tutti riposano, chi dorme, chi è sedato. In qualche stanza qualche parente si ferma a fare compagnia al proprio caro.

Nel corridoio si mischiano i differenti respiri, come una musica. Poi un silenzio strano, lieve, un senso di pace. E’ tangibile, nessun campanello che suona, tutti dormono come non volessero disturbare o farsi sentire. Una presenza palpabile. E’ la Morte che aleggia, si aggira nel reparto, è tangibile, ma non fa paura, allevia le sofferenze, e sai dove potrebbe andare e vai dove pensi di trovarla e ti fermi per gli ultimi respiri del Sig…o della Sig.ra.

Assistere una persona che muore è come assistere ad un parto, testimoni di un passaggio, la fine di una vita terrena e l’inizio di qualcos’altro, ignoto, ma non temuto. Un mistero, un dono.

Grazie a voi che ho accompagnato in questi dieci anni di Hospice.

TNT69

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storie importanti (1)

Posted by il guardiano on ottobre 31, 2008
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“Ivàn Il’ìc ogni tanto faceva venire Gerasim, il mužìk addetto alla cucina, gli metteva i piedi sulle spalle, e per un po’ stava in quella posizione; e gli piaceva parlare con lui. Gerasim faceva tutto con gran leggerezza, volentieri; semplicemente, con una soavità che inteneriva Ivàn Il’ìc. In tutti gli altri la gagliardia, la forza vitale, la salute offendevano Ivàn Il’ìc; soltanto la forza vitale e la salute di Gerasim non amareggiavano Ivàn Il’ìc, anzi lo calmavano.

Il maggior tormento di Ivàn Il’ìc era la menzogna che lo voleva malato ma non moribondo, una menzogna accettata da tutti, chissà perché: bastava che stesse tranquillo e si curasse, e allora ci sarebbe stato un gran miglioramento… Ma egli sapeva benissimo che, qualunque cosa gli facessero, non ci sarebbe, stato proprio niente, salvo che sofferenze ancora più tormentose e la morte. Questa menzogna lo tormentava, lo tormentava il fatto che non volessero riconoscere che tutti sapevano e che anche lui sapeva, e che volessero invece mentire sul suo terribile stato, e che per di più costringessero lui stesso a prender parte a quella menzogna. Quella menzogna, una menzogna perpetrata su di lui alla vigilia della sua morte, una menzogna che si sentiva in dovere di umiliare questo terribile atto solenne al livello delle loro visite di cortesia, delle tende in salotto, del pesce in tavola… era un orribile tormento per Ivàn Il’ìc. E stranamente, molte volte, mentre gli altri eseguivano i loro numeri su di lui, era stato a un filo dal gridare in faccia a tutti: smettetela di dire bugie, lo sapete benissimo, e lo so benissimo anch’io che sto morendo, almeno finitela di mentire. Ma non aveva mai avuto cuore di farlo. L’orribile, tremendo atto della sua agonia era degradato da tutti quelli che lo circondavano alla stregua di qualcosa di casuale e sgradevole, persino di indecoroso (come se trattassero con un uomo che puzza entrato in un salotto), qualcosa che trasgrediva quello stesso «decoro», che Ivàn Il’ìc aveva perseguito tutta la vita; egli vedeva che nessuno aveva pietà di lui, perché nessuno, voleva capire la sua situazione. Soltanto Gerasim capiva la sua situazione e aveva pietà di lui. Perciò Ivàn Il’ìc stava bene soltanto con Gerasim. Stava bene, quando Gerasim, a volte per delle notti intere, rimaneva con lui, tenendogli le gambe sollevate, e non voleva saperne di andare a dormire: «Lei non si preoccupi, Ivàn Il’ìc» diceva, «ho ancora tempo per fare una bella dormita,» o quando, aggiungeva all’improvviso, passando al «tu»: «tu sei malato, e hai bisogno di me, no?» Soltanto Gerasim non mentiva, era sicuramente l’unico che capiva di che cosa si trattava e che non riteneva necessario nasconderlo, e si limitava ad avere pietà di lui, del suo padrone debole e sfinito. Una volta venne fuori a dire a Ivàn Il’ìc, che cercava di mandarlo via:
«Tutti dobbiamo morire. Perché non dovrei farlo?» e, dicendo questo, voleva significare che quella fatica non gli pesava, proprio perché lo faceva per un uomo che stava morendo, nella speranza che anche per lui, a suo tempo, qualcuno avrebbe fatto lo stesso”.
Da “La morte di Ivan Il’ìc” di L. N. Tolstoj.

il guardiano

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