stelle

stesse stelle

Posted by Giramondo on Maggio 19, 2009
cronache / 1 Commento

Cambogia.
Metà Marzo, 2009.
A notte inoltrata mi suona il telefono: è il pronto soccorso dell’ospedale dove lavoro.
Mi riferiscono che è arrivato un ragazzino di 10 anni con un trauma cranico per un incidente stradale di 2 ore prima.
Qui fa sempre molto caldo; il mezzo di locomozione più comune e più economico è il ciclomotore; sopra un sedile di motorino viaggiano sempre dalle 3 alle 6 persone, bambini e neonati compresi.
Caschi, sconosciuti; velocità, almeno 70 km orari; fanali, spesso inesistenti.
Mi alzo, mi vesto, e prima di uscire guardo Aràl, la ragazza che ho conosciuto in questa missione; stiamo percorrendo un tratto di vita insieme; forse le nostre strade saranno condivise per tanto tempo… ma forse, e poi questa è un’altra storia. Le dò un bacio; lei non se ne accorge, continua a dormire.
Arrivo in reparto.
Il bimbo ha una profonda lacerazione del cuoio capelluto in regione temporo-parietale sinistra, GCS 8, midriasi a sinistra ed emiparesi a destra. I parenti mi riferiscono che è stato cosciente per circa un’ora dopo l’incidente e poi ha perso conoscenza.
Ovviamente qui non c’è la TAC.
Decido di eseguire una craniotomia sinistra… e chiedo a Budda che sia un extradurale.
Gli infermieri cambogiani mi aiutano a spiegare a mamma e papà che le condizioni sono gravi, che probabilmente loro figlio non ce la farà, ma che faremo il possibile.
Ci serve il loro consenso per operare.
Mi guardano. Qualche parola in khmer con gli infermieri.
Impronta d’inchiostro sulla cartella: è il consenso.
Il piccolo viene rasato.
Andiamo in sala; il personale di sala trasporta e sistema il malato sul letto operatorio; anestesista internazionale e cambogiano sono pronti.
Inizio.
Cute, teca cranica… ecco, non ci siamo: nessun ematoma extradurale.
Vedo un coagulo al di sotto della dura.
Un ematoma sottodurale; cioè: apro la dura, aspiro l’ematoma, richiudo dura, teca cranica, scalpo.
Sono sicuro che c’è una fonte di emorragia cerebrale che io non posso vedere, che riprenderà a sanguinare.
Sono sicuro che dopo alcune ore di coscienza il piccolo ripomberà in un coma questa volta senza speranza.
Non posso fare altro.
Impotente.
Fuori dalla sala parlo con i genitori, spiego la situazione.
Mi guardano ancora: “Aukun, aukun ” ( grazie, grazie ), sono le loro parole.
Io non ho parole per dire come mi sento.
Devo respirare un po’: esco nel bellissimo giardino del reparto.
Caldo anche di notte; a me piace.
C’e’ odore di fiori; ma anche di fiume e di acqua stagnante.
Guardo in alto: stasera il cielo è terso e senza luna. Nerissimo.
Tutte le stelle mi guardano, interrogative.
Non ho risposte.
Tra qualche ora o tra pochi giorni ci sarà un’altra stella li con voi: un piccolo bimbo cambogiano, accoglietelo con la vostra luce, coccolatelo, tenetelo al caldo, fatelo brillare come voi stanotte.

Afghanistan.
Primi giorni di Aprile, 2009.
Stanotte sono uscito dalla sala operatoria dopo un’urgenza.
Qui fa ancora freddo.
Guardo in alto.
Stesse stelle.
Non posso sapere qual’è, ma sono sicuro che una piccola stella cambogiana brilla anche in questa valle afghana.
E spero che mi protegga. 

Giramondo 

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la luce delle stelle

Posted by Pentothal on Gennaio 29, 2009
emozioni / 6 Commenti

Come un rito, a fine guardia, ti avvicini al lavabo e ti lavi via la notte dalla faccia, uno sguardo allo specchio una carezza alle occhiaie e sei fuori, la luce appare irreale e morbida ma sempre troppo forte per i tuoi occhi rossi.

Le ruote della macchina fischiano sul cemento liscio del parcheggio sotterraneo che mi aspetta dopo due notti e due giorni di lavoro. Sistemo la macchina quasi senza sforzo. Di inerzia e consuetudine, a volte, ne vivono anche i motori e le apparecchiature elettroniche. Come i tasti del computer che sono leggermente più consumati su lettere che indicano certe parole. Come liberta’ pace e pane.

Le stelle vibrano stanotte. Un cielo terso, limpido. La luna piena rende più azzurro tutto lo spazio sopra la città di pietra. Altrove nello spazio, che sia la notte nera.
Qui tutto brilla. Emette bagliori. Forse le esplosioni di gas, le scariche di energia e le forze oscure che regolano l’universo. Ma ogni cosa traspare armonia, in questo viaggio fra un tramonto arancione ed un’alba che si prospetta viola e porpora, in una notte un po’ speciale.

Difficile essere freddi di fronte a quello che tu hai vissuto, che il pianeta ha vissuto, l’affermazione tangibile di un miracolo laico. Generare vite da una spezzata, mantenerne solo il soffio con la conoscenza, migliorarne altre con la virtù, l’attitudine.

Devi vivere, convivere con la faccia che hai, nelle mattine di crisi e di euforia, entrambe ingiustificate emozioni in una visione di lungo periodo.

E devi conviverci, con questa impressione di inizio anno che
c’e’ sempre un grumo di foglie che blocca i binari per ritardi abissali,
c’e’ sempre un grumo che blocca un catetere per un viaggio senza ritorno
c’e’ sempre un frammento del tuo volto che non riconosci mai, che scopri in un alba invernale e
c’è sempre all’improvviso una luce siderale notturna che ti fa fermare ad osservare l’intorno che diventa sereno e placido, anche dalle finestre di una Terapia Intensiva.

Ci sara’ sempre un intoppo ad un piano ben delineato e programmato.
Il capo che si preoccupa per qualcosa che doveva essere fatto ieri e l’ha saputo solo stamani, l’infermiera che ti corre incontro urlando selve di consonanti e di vocali, acronimi di tragedie dove mettere la testa e le mani, IMA EPA FV IRC IPPV BLS SHOCK… Ti interroghi un attimo sul paradosso e subito dopo devi muoverti, correre, ansimare sulle scale del mondo della scienza, inventarti astrazioni e cose sensate da dire, fare, baciare, lettera e testamento.

esercirtare la professione come una virtu’
La virtu’ che si genera dall’improvvisazione e dalla conoscenza, per lanciarsi nelle giornate in un giro di blues senza protezione, senza spavento, con misura. La virtu’ che nasce dalla passione, dal metodo che diventa follia pura, fieramente antagonista rispetto al mondo ed al suo corso.

E rimboccarsi le maniche per sentirsi parte di un unicum. Che ti manca, ti manca nelle cose del tuo lavoro come in quelle del tuo Paese. Quel senso di unita’ e di amore al destino dell’altro, che hai trovato nello sguardo fiero e lacerato di una madre che saluta la vita che ha generato

Cerchi un attimo di silenzio, nelle emorragie cerebrali che accadono tutt’attorno. Nelle tragedie che accadono. Nei terremoti umani ed in una serie di sguardi, volti, che, ancora una volta, devi fronteggiare. Con coraggio.

Poi, torni ad osservare quel volto nello specchio e ti si ripropone quel
dilemma di una vita che non vuol rallentare mai, nonostante la crisi.

E piangi, come una fontana rotta, senza imbarazzo.
senti il senso della tua professione ravvivavato da una storia che e’ arrivata a destinazione per ripartire ancora una volta.
Energia che ricade sulla Terra, che vive ancora l’assurdità della guerra, sulle zolle appena girate sulle vigne con i frutti ancora appesi. Energia, veleno, amore e vita nei giorni iracondi e sedati che si susseguono.

E leggi rassegne stampa che dicono ma non sanno raccontare, parlano di fegato reni e cornee, dimenticando che il cuore , quello, lo abbiamo messo noi.

E non c’e’ rimedio se non cantare ancora un’altra canzone. Di protesta. O delirantemente sentimentale, dedicata a Giuseppina assorta a guardare le stelle dall’altro versante delle cose

Pentothal

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