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il cappotto blu (frammenti di memoria)

Posted by Garganico on aprile 12, 2010
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Durante le ultime festività e dopo numerosi tentativi miseramente falliti, ho trovato un po’ di tempo per sistemare la mia vecchia e polverosa soffitta piena di tante cose, tutte assolutamente inutili, che, chissà perché, non hanno mai trovato la loro collocazione terminale definitiva.
In uno scatolone ben chiuso ho trovato un vecchio cappotto di colore blu, con il bavero completamente consunto e logoro, che ho fatto fatica a riconoscere: ecco dov’era finito il compagno di tante notti passate insieme durante il servizio di guardia medica sul territorio svolto da neolaureato.
A pensarci bene non so quanto tempo è passato. Forse venticinque anni, forse di più. Sicuramente nella memoria sembra in un’altra epoca, in un’altra era, un secolo fa. Il ricordo chiaro e lucido è per il mio cappotto blu, pesante, con un collo ampio, che, alzato, mi riparava e mi proteggeva dal gelido clima delle notti invernali della periferia torinese. Con me i miei pochi strumenti di lavoro: il fonendo, lo sfigmo, una pila, dei farmaci, un ricettario. Ero laureato da poco tempo e per un neolaureto, in quel periodo, c’era la possibilità di fare il medico frequentatore volontario in qualche reparto ospedaliero e sperare in qualcosa o in qualcuno, oppure iniziare a darsi da fare in prima persona mettendo a disposizione le poche nozioni apprese all’università. Scelsi di fare entrambe le cose. Di giorno il medico volontario, pulito, elegante. Di notte il medico di guardia medica in una delle zone più degradate e difficili della periferia torinese. Il medico di frontiera, come amavo chiamarmi. Ero l’istituzione sanitaria a cui di notte tutti potevano rivolgersi per qualsiasi motivo, anche non medico. L’ASL di competenza metteva a disposizione del coraggioso sanitario per le visite domiciliari una 126 con i finestrini rotti e bloccati in fase di apertura, che la rendeva per questo motivo assai simile a una moto. Per questo, forse, il ricordo e l’amore indelebili per il mio superprotettivo cappotto blu. Come sede un garage, che funzionava anche come ambulatorio, dotato di una segreteria telefonica capace di accumulare decine di chiamate in pochi minuti. Si iniziava alle otto di sera, si finiva alle otto del mattino. Ogni notte era, per qualche motivo, indimenticabile. Gli utenti reclamavano il loro diritto ad essere visitati presto, velocemente e possibilmente bene.
Personalmente sono arrivato a farne più di cinquanta in un solo turno di queste visite “urgenti”, salendo e scendendo dalla 126, cercando vie sullo stradario, suonando a campanelli che spesso non funzionavano. Il mio cappotto blu mi proteggeva dal freddo e da qualche paura che inevitabilmente viene quando si lavora al buio, di notte, da soli.
Quella notte che i carabinieri di Orbassano mi chiamarono per una constatazione di decesso di un suicida nei boschi tra Stupinigi e Orbassano, infilai il mio cappotto blu, alzai il bavero a protezione non solo del freddo. Era buio veramente ed io i boschi di solito non li frequentavo neanche di giorno. Il viottolo era stretto, sconosciuto, impenetrabile. Per vedere meglio abbassai il bavero protettivo del cappotto. Non fu una buona idea perché subito dopo vidi la vecchia 126 lentamente scivolare sul lato destro della strada per fermarsi nella cunetta laterale. Per fortuna ero solo ammaccato ma intero. Come comunicare a qualcuno il mio incidente, la mia posizione, che ora avevo difficoltà ad espletare il compito per cui ero stato così prontamente chiamato? Diamine! Potevo ancora camminare e avevo anche la pila che di solito serviva per i riflessi pupillari. Allora in marcia. Si, ma, verso dove? Non si vedeva assolutamente nulla. In lontananza mi sembrò di intravedere un casolare. Mi diressi là. Dopo un po’ arrivai e fui veramente fortunato perché trovai un contadino che, senza troppe spiegazioni, tirò fuori il suo trattore e raggiunse la mia, ormai più vecchia, 126 rimettendola sul viottolo, e che, miracolosamente, era ancora in grado di procedere. Non so quanto tempo fosse passato ma mi rimisi alla ricerca di quel dannato posto per la constatazione del decesso del suicida. Finalmente nei meandri del bosco incontrai i carabinieri che mi salutarono cordialmente, mi ringraziarono e mi dissero che essendosi accorti che il suicidio era avvenuto nel territorio di Orbassano, avevano chiamato la guardia medica di quell’ASL e che le procedure burocratiche erano comunque state espletate. Mantenni apparente calma e professionalità e, nonostante il freddo, durante il ritorno, non provai neanche a proteggermi dai finestrini perennemente aperti. La segreteria telefonica, nel frattempo, aveva accumulato un numero imprecisato di messaggi registrati. Iniziai ad ascoltare il numero 1, il 2, il 3,il 4. Il messaggio numero 5 era un vero e proprio grido di dolore assoluto, un urlo che in quel garage semibuio avrebbe spaventato anche uno più coraggioso di me: “Dottore, dottore, per favore, faccia qualcosa! Durante il rapporto si è rotto il preservativo! Adesso siamo nei guai, abbiamo bisogno subito del suo aiuto! Ci dia qualcosa, la pillola del giorno prima o del giorno dopo, non so come si chiama, comunque faccia qualcosa!” Avevo ancora diverse chiamate da ascoltare, ma la disperazione di questo utente meritava sicuramente una pronta risposta. Così feci. Non chiedetemi cosa dissi a questa coppia. Non me lo ricordo chiaramente. Espletai le visite richieste, alcune delle quali in condomini dove la maggior parte dei campanelli erano bruciati e dove gli ascensori non funzionavano. Al sesto piano di uno di questi mi aprì un signore con una vistosa ferita sanguinante alla testa dicendomi: “Venga dottore, venga a vedere cosa ha combinato questo disgraziato!”. Il mio istinto mi suggerì di non muovermi, spostai solo leggermente la testa, ma fu sufficiente a vedere tutto il corridoio funestato di pezzi di vetro e oggetti di vario tipo con parte di un armadio reclinato su stesso. In fondo al corridoio si scorgeva un giovane sdraiato per terra con la canottiera inzuppata di sangue e con una mazza in mano. La persona che aveva aperto la porta e che sembrava essere il genitore continuava a ripetere: “Venga dottore, venga a vedere cosa ha combinato, faccia qualcosa!” Risposi di stare tranquillo. Non impiegai molto a raggiungere la 126, che sebbene avesse i finestrini rotti aveva il pregio di una messa in moto fulminea. Alzai il bavero del mio cappotto blu e mi recai alla stazione dei carabinieri pretendendo un accompagnamento a questa visita. I carabinieri indossarono a loro volta un cappotto blu e sorridendo dissero che loro quei due li conoscevano da tempo e che in effetti era meglio essere accompagnati. Nell’appartamento entrarono prima loro, poi io con la mia borsa da medico, mentre i due litiganti incuranti continuavano a fare e a dire di tutto. Feci una veloce medicazione e somministrai un sedativo ad entrambi, quindi chiamai due ambulanze, una per il padre che mandai al pronto soccorso di Moncalieri, l’altra per il figlio al pronto soccorso delle Molinette. Ringraziai i carabinieri che, chissà perché, a loro volta ringraziarono me. Mentre tornavo per l’ennesima volta al mio garage si intravedevano le prime luci del nuovo giorno e stringendomi nel mio cappotto blu pensavo che tutto sommato sarebbe potuto andare anche peggio. Non c’è mai un limite al peggio!
Alle otto con la barba lunga e il cappotto blu con il bavero ancora alzato ma vistosamente sgualcito, portai i registri e i ricettari negli uffici dell’ASL. Come al solito ero già in ritardo e anche quella mattina non avrei fatto in tempo a fare la barba. Gli impegni istituzionali di medico frequentatore volontario mi attendevano… ma questa è un’altra storia.

Garganico

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