attaccata a quel letto
le narici impregnate di odore di morte
gli occhi fissi sul paziente e poi sul monitor…
poi ancora sul paziente e poi sul monitor…
ce ne fosse uno solo di monitor, ma poi diventano 2,3,4…
le orecchie tese in ascolto dei suoni degli allarmi che modificano tonalità se a scendere è la frequenza cardiaca o la pressione arteriosa, la PIC o la saturazione di ossigeno
la voce che alla fine della seconda giornata esce roca, rotta dalla stanchezza, dalla sensazione sempre più forte e più netta di aver lavorato duro per un risultato assente…
mi rimane solo il silenzio…
assordante dentro di me…
vale la pena tutto questo?
le lacrime bagnano il viso e offuscano la vista mentre torno a casa…
nebbia
una luce in fondo: non sono io, non siamo noi ad avere l’ultima parola
Piuma
avrebbe meritato maggior attenzione questo brano, c’è il senso d’impotenza, l’umiltà della resa e ci trovo anche una specularità tra paziente e medico: ho provato a leggerlo come fosse l’ultimo pensiero di un moribondo, quel “mentre torno a casa” una metafora del tornare al nulla della morte. La mote è una doppia resa, del malato e di chi lo cura. ml