Archive for febbraio, 2009

storie importanti (2)

Posted by il guardiano on febbraio 25, 2009
grandi autori / 1 Commento

[…] Andarono dall’ammalata. Di solida costituzione, alta, ben formata, ma brutta, somigliante a sua madre, con gli stessi occhietti e la parte inferiore del viso larga e troppo sviluppata, con i capelli in disordine e il lenzuolo tirato sino al mento, la ragazza diede a Korolev, di primo acchito, l’impressione di una creatura infelice e inferma, raccolta per pietà. Non si poteva credere che fosse l’erede dei cinque enormi edifici di quella fabbrica. “Veniamo per curarvi”, disse Korolev “buon giorno, signorina”. Si presentò dicendo il proprio nome e stringendole la mano: una grande mano, brutta e fredda. Essa si sollevò e avvezza evidentemente da molto tempo ai medici, indifferente al fatto che le sue braccia e le sue spalle fossero scoperte, si lasciò auscultare. “Ho delle palpitazioni”, disse. “Tutta la notte, è stato terribile… Sono quasi morta di spavento. Datemi qualcosa, perché finiscano…” “State tranquilla, vi darò qualcosa”. Korolev la esaminò e alzò le spalle. “Il cuore è buono,” disse “tutto va bene, tutto è in ordine. I nervi sono un po’ scossi; ma è cosa talmente comune… La crisi, io credo, è già passata. Stendetevi e dormite”. In quel momento, portarono una lampada. L’ammalata battè le palpebre, e a un tratto, prendendosi la testa tra le mani, si mise a piangere.
L’impressione di un essere infelice e brutto scomparve. Korolev non fece più caso a quei piccoli occhi, alla parte del viso sviluppata in modo anormale; egli vedeva una dolce espressione di sofferenza, tanto ragionevole e commovente, ed ella tutta gli appariva slanciata, femminile, semplice, e avrebbe voluto calmarla non con le medicine, ma con una parola affettuosa. La madre attirò a sé la figlia e le bacio il capo: sul suo viso, quanta disperazione, quanto dolore!
[…] Ambedue piangevano tristemente. Korolev, sedutosi sulla sponda del letto, prese la ragazza, per una mano. “Smettete di piangere” le disse in tono carezzevole; “c’è ragione di piangere? Non c’è nulla al mondo che giustifichi queste lacrime! Suvvia, non piangiamo più, non bisogna…”
da “Un caso di pratica medica” di A. Cechov.

il guardiano

Tags:

viaggi quotidiani: mezzogiorno in Tunisia

Posted by Trilly on febbraio 19, 2009
cronache / 1 Commento

L’autunno si era ormai annunciato da qualche settimana con i suoi colori particolari: foglie gialle sugli alberi, il primo freddo e giorni di pioggia accompagnati ormai quotidianamente da temporali quasi equatoriali.
Pioveva a dirotto quel giorno.
Papà Nasser mi aveva chiesto una visita domiciliare per sua figlia Hergere che vomitava da un giorno ed aveva febbre alta.
– A che ora viene dottoressa?-
– Quando ho tempo, comunque prima di sera – gli risposi frettolosamente e forse non molto educatamente.
Alle 12,30 comunque ero a casa sua.
Un odore intenso, di spezie africane inondava la casa, il vapore del cibo che bolliva nella pentola aveva appannato tutti i vetri.
Mi tolsi il cappotto.
Il tepore della cucina mi accolse insieme al sorriso aperto e riconoscente di Nasser.
La bambina era sdraiata sul divano: il viso pallido, un po’ sofferente.
La tazza del tè appoggiata sul tavolo, lì vicino.
-Dato da bere a piccoli sorsi, come hai suggerito – mi assicurò la mamma.
Visitai la bambina, mi sorrideva, giocava con i giochi che le avevo messo tra le mani.
Assicurai i genitori: era soltanto una gastroenterite virale. Un giorno di dieta liquida e leggera, una soluzione di sali minerali e la nostra Hergere sarebbe stata decisamente meglio.
Stavo per rimettermi il cappotto quando Nasser mi invitò a sedermi a tavola.
Aveva cucinato il Kus Kus per me.
– Una volta mi hai detto che ti piace tanto.
– Alle 13 devo essere in ambulatorio – mormorai imbarazzata, cercando di rifiutare l’invito.
– Non ci vorrà molto, sono le 12.40 e c’è tempo.
Accettai con un sorriso.
Mi fece accomodare sul tavolo in cucina.
La moglie aveva apparecchiato con cura solo per me.
– E voi? –
– Noi mangiamo dopo, ora facciamo compagnia a te – mi dissero sedendosi al tavolo con me.
Era veramente squisito e francamente quel Kus Kus stava ristorando non solo il mio corpo, ma soprattutto il mio cuore.
Al termine del pranzo mi offrirono un’arancia sbucciata a forma di fiore.
Completai il pranzo e poi li salutai commossa.
Tutto velocemente, in venti minuti, ma quanto bastava.
La primavera era ritornata a rifiorire dentro di me, anche se fuori continuava a diluviare.

Riflessione: Per tutti i momenti in cui mi sento orfana nella mia giornata, per tutti gli sputi invisibili di molti, la riconoscenza e la semplicità di Nasser e di sua moglie è qualcosa che nessuna somma in denaro potrebbe mai uguagliare.

Trilly

Tags:

cosa si sarebbe potuto fare di più?

Posted by folfox4 on febbraio 14, 2009
racconti / 2 Commenti

Cosa si sarebbe potuto fare di più ?
E’ una domanda che spesso mi ritorna quando è andata male. Dopo 20 minuti di rianimazione do lo stop: “basta ragazzi … è morto; fine.”
Feed-back positivo: “come al solito tutti bravi, e poi era veramente oltre il limite, anzi, troppo siamo riusciti a fare, bravi, bravi tutti davvero.”
Spengo respiratore e monitor; è il segnale, il rito è finito, una specie di ‘ite missa est’ molto ruvido.
Sono le 4.00 del mattino, mi affaccio un minuto fuori.
Piove fitto e sottile, l’aria è calda.
Al mio ospedale lo scirocco arriva dritto dal mare e ne porta l’odore.
Respiro profondo, debbo avvertire la madre e il padre; rientro.
Antonello aveva 16 anni, era malato di leucemia linfoide acuta.
Ricoverato in ematologia per un ciclo chemioterapico; improvvisa crisi aplastica midollare indotta dai farmaci antiblastici; conseguente shock settico e multipla insufficienza d’organo.
Entrato in rianimazione circa 12 ore prima, era stato sottoposto a tutti i trattamenti e le procedure del caso; 16 anni e una leucemia in fase di controllo lo impongono.
Risolta la sepsi, poteva ancora farcela.
Le infermiere stanno ricomponendo la salma.
I loro volti dicono, già a 30 anni, la delusione e la voglia di fare altro nella vita.
Ma solo noi sappiamo com’è quando qualcuno sputa l’anima.
Il cerchio si chiude e questo è il nostro carico.
In fondo, è sul confine dell’intimità con la morte che sono costruiti i nostri rapporti e forse per questo ci amiamo ma non amiamo incontrarci fuori.
Fuori dobbiamo provare a fare la corsa come tutti gli altri.
Il tubo endotracheale e la sonda nasogastrica sono stati rimossi; il volto appare disteso, non più deformato; il pallore conferisce alla fisionomia una luce lunare.
Antonello, Antonello …

[il medico]

Pronto? Parlo con casa … ?
Signora buonasera, qui è l’ospedale San …, sono il dottor …, sono il medico di guardia della rianimazione, lei è la mamma di Antonello ?
Signora, le condizioni di suo figlio sono peggiorate …
Si signora, la situazione è precipitata …
Vi consiglio di venire subito in ospedale …
Vi apetto.

Burocrazia: compilo le schede di morte, chiudo la cartella, firmo, telefono alla camera mortuaria :
“è il centro di rianimazione, sono il medico di guardia, c’è una salma, no niente autopsia, mi raccomando entrate dall’altra porta e aspettate che i parenti abbiano visto il cadavere; grazie, a dopo. Ah! Credo che ce ne sarà anche un altro; si, eventualmente richiamo io … è una brutta notte.”
I genitori sono arrivati.
Camice.
Vado ad aprire; li faccio accomodare nel salottino dove si danno le informazioni.
Locale 3 metri per 3, pareti gialline, poltrone blu, neon.

[il medico]

Accomodatevi prego …
No signora, no, Antonello è morto poco fa, non ce l’abbiamo fatta, mi dispiace …
Un arresto cardiaco irreversibile nonostante tutti i tentativi …
No signora non faccia così adesso …
Aspetti, si sieda …
Adesso ci vuole tutta la forza, vi prego di resistere ora …
Si certo che lo potete vedere, è ancora qui …
Ecco, si accomodino da questa parte, è in questa stanza …
Certo che potete stare un po’ con lui …
Qui ci sono delle sedie …
Io sono qui fuori, vi aspetto, sono a vostra disposizione.

Esce il padre.

[il medico]

Mi creda, siamo davvero desolati, speravamo di poter fare di più ma non ce n’è stato neppure il tempo …
La ringrazio, la ringrazio a nome di tutti, in particolare dei ragazzi dentro; sa, anche per loro è dura, anzi forse lo è ancora di più, sono tutti infermieri molto giovani …
Per noi sono sconfitte pesanti …
16 anni sono davvero pochi per morire …
Si, in camera mortuaria riceverete le informazioni necessarie per il funerale e tutto il resto.

Esce la madre.

[il medico]

Si signora ha ragione, il cancro è una malattia tremenda, in certi casi non da neppure tempo di capire cosa stia succedendo …
Si, si certo io sono medico e lo dovrei sapere meglio di voi, ma …
sa com’è, la vita fa strane sorprese e non guarda tanto per il sottile …
siamo tutti uguali e la professione c’entra poco …
tutti siamo a rischio di qualcosa e …
anch’io, come gli altri, lo sono …
beh, in un certo senso …
come posso dire …
Non piange più ora signora ha visto ? Parlare aiuta …
Coraggio …
Sedete ancora un pochino, volete ?
Come dice ?
Stavo io dicendo qualcosa ?
Non so, non ricordo …
Ah si, le sorprese della vita …
Ma …
Se me lo chiede in forma così diretta …
No, la lasci dire signor … le donne sanno gestire molto meglio di noi queste situazioni sa ?
Si …
anch’io signora, anch’io …
In una forma meno aggressiva di quella di Antonello, ma anch’io …
È anche per me un momento un po’ speciale; si Antonello è andato via per un male che io stesso ora ho …
Se ne voglio parlare ? Di cosa signora ? Del mio male ? Ma vostro figlio è morto e …
Non so, mi sento in imbarazzo … sono a disagio …
Se mi voglio sedere con voi …
Va bene, mi siedo anch’io …
Ecco …
Se posso parlarle della morte e del dolore …
Si, certo …
Però io sono un medico non un filosofo o un prete, non saprei …
Va bene, allora potrei dire che …

Potrei dire che è impossibile consolare con parole chi resta solo per la partenza senza ritorno di un proprio caro; è già tanto difficile quando chi va via lo si sa ancora vivo.
Il posto rimasto vuoto annichilisce l’anima; una sedia, una poltrona, un letto, una stanza sono tutto ciò che rimane.
Ma quel posto è ancora occupato nella nostra memoria, rimane dedicato a chi se n’è andato; eppure, sappiamo anche che resterà irrimediabilmente vuoto.
E il silenzio di quella voce che non risuona più fa trasalire come un colpo di vento.
Nell’arco di una vita, per breve o lunga che sia, ognuno fa quello che può cara signora; questo significa dover procedere miseramente per tentativi ed errori come afflitti da un’insanabile zoppia, e tutti sappiamo quanto sia salato il pane di ogni esistenza.
Non diversamente credo abbiate fatto voi con umiltà ed onestà per la vostra stessa vita e per quella di Antonello, finchè avete potuto.
Quindi, mi raccomando, nessun rimorso o recriminazione.
Tutto il dovuto è stato dato.
Tutto si è compiuto.

Però io penso – sempre da laico – che la morte non sia solo questo.
Io penso che la morte sia l’ultimo strazio per pagarci l’ingresso in una zona franca dove finalmente poterci liberare di ogni promiscuità, sorridere col cuore, guarire dalle piaghe del nostro corpo, dimenticare la volgarità di ogni piccola o grande miseria, tirare il fiato dopo l’umiliazione dell’ansimo.
Oggi questo mi sembra di poter dire d’aver visto, sia pure per un momento, dipingersi sul volto di vostro figlio e di tutti gli altri morenti prima di lui: la sensazione di una fatica inenarrabile finalmente conclusa, con buona pace di chi rimane.
Come se, proprio poco prima di morire, fosse possibile cogliere il senso di quell’evento splendido, terribile ed inspiegabile che è la vita; come se fosse finalmente possibile leggere e comprendere il misterioso segno con cui il destino ha marchiato la nostra schiena fin dall’inizio.
Ora debbo tornare dentro … Ho gli altri pazienti …
Grazie, grazie davvero, grazie di tutto … Mi spiace …

Il chiasso di tre cose
Va per il mondo sopra oceani, nevi,
terre di siccità e risaie:
e nessuna membrana dell’udito
lo cattura, il chiasso di tre cose.
Il chiasso del sole che va per il cielo,
il chiasso della pioggia
quando il vento la stacca dalle nuvole
e il chiasso dell’anima
da un corpo che la sputa

dalla Bereshìt Rabbà

folsfox4

Tags:

i tempi della saggezza

Posted by il guardiano on febbraio 09, 2009
pensieri / 7 Commenti

Sicuramente non sarò io a dire qualcosa di nuovo sul caso di Eluana. Il fatto è che sono indignato e stufo di sentirne parlare. Indignato perché trovo veramente squallido l’accanimento con cui persone di ogni sorta si sentono in dovere di dire la loro pretendendo ascolto e ragione. Mi chiedo cosa c’entrino giornalisti, politici, scrittori, opinionisti, sacerdoti, vescovi, con la malattia di Eluana, con il dramma suo e della sua famiglia. Che diritto hanno di interferire con scelte private, giustificate nei mezzi e nei modi da giudici e scienziati, oltre che da una profonda sofferenza?
E poi sono stufo di sentire incompetenti pontificare su temi tanto delicati e tanto vicini al mio lavoro. Non c’è discussione peggiore che quella con interlocutori ignoranti e prepotenti. D’altra parte tacere e fare finta di niente non si può. In qualche modo bisogna manifestare il proprio dissenso verso una politica demenziale che vuole opporre a presunti “vuoti legislativi” frettolosi e inaccettabili rimedi. Pensare ad una legge che mi chiederà di curare chi non vuole essere curato, che mi obbligherà a somministrare farmaci e trattamenti invasivi a chi lo rifiuta, che mi renderà sordo alle testimonianze di amici e famigliari di un paziente incosciente, mi riempie di sdegno e di spavento. E non penso di essere l’unico.
Certo, bisognerebbe affrontare seriamente il problema del testamento biologico, delle direttive anticipate, della limitazione delle cure, ma non è il clamore spettacolare di un signolo caso che deve guidare il dibattito, non è il delirio di una ristretta cerchia di eletti che può farsi portavoce di verità assolute.
Mi auguro solo che tutto questo abbia una fine. Spero che Eluana venga lasciata in pace. E voglio continuare a fare il mio lavoro senza sentirmi un assassino solo perché ho sedato pazienti che stavano morendo, ho negato il ricovero in rianimazione ad ammalati che ritenevo non avessero la possibilità di farcela, ho rispettato la volontà di chi non voleva essere intubato o tracheostomizzato.

Bisogna attendere tempi migliori per affrontare queste storie con vera saggezza.

il guardiano

Tags:

una madre, un figlio

Posted by Rachele on febbraio 05, 2009
testimonianze / Nessun commento

Neang San è un ragazzo di 22 che arriva in pronto soccorso per una ferita penetrante al torace e all’addome dovuta a un bambù che lo ha trapassato come una lancia. Sono casi frequenti perché i bambù sono materiali molto resistenti e utilizzati nella costruzioni delle case. Ci rendiamo subito conto che si tratta di un caso molto grave e decidiamo di operarlo immediatamente per escludere lesioni interne. Purtroppo aperto l’addome la situazione appare quasi disperata: diaframma lacerato e una lesione gravissima al fegato che richiede una resezione e un packing per controllare l’emorragia. Solo in sala trasfonde 12 sacche di sangue. Ne esce comunque vivo anche se in condizioni critiche. Con il chirurgo parliamo alla madre e al padre, ci andiamo giù molto pesanti, non vogliamo dare quasi nessuna speranza, la mortalità di casi come questi da noi, in una vera e propria terapia intensiva e con la possibilità di trasfondere plasma, piastrine, fattori della coagulazione sarebbe comunque altissima… Il nostro inglese è tradotto in khmer, le parole cadono come macigni, pesantissimi, la madre si copre il viso, si inginocchia e comincia a piangere, ci guarda cerca qualche speranza… vorrei dirle che forse…, magari ce la fa, insomma è uscito vivo, chissà… voglio anch’io convicermi… Finchè è vivo, ci diciamo, facciamo tutto quello che qui possiamo fargli, un infermiere dedicato solo a lui che registra ogni modificazione dei parametri. Continua a sanguinare e lo trasfondiamo ancora… Lui è perfettamente cosciente, ci guarda avvicinarci al suo letto con due occhi grandi e scuri con un’espressione che non si dimentica… La madre gli è accanto e segue ogni nostra azione, lo vede sveglio, che gli parla, ci chiede se proprio non c’è nulla che si possa fare… La guardo… gli bagna le labbra secche, gli copre la fronte con degli asciugamani bagnati, gli strofina le mani e i piedi freddi… Passano 48 ore… in cui lo abbiamo rincorso tra liquidi e trasfusioni per tenergli su la pressione e la diuresi, si chiamano parametri vitali, sono solo numeri… quel drenaggio nel torace che continua a riempirsi inesorabilmente ci dice che il sanguinamento c’è sempre e che la nostra battaglia per la sua vita non lascia molte speranze. E’ sul letto operatorio per la seconda volta, sempre cosciente che ci guarda con quegli occhi… e penso che forse il mio sarà l’ultimo volto che vedrà… vorrei invece che fosse quello della madre. Si sveglia anche questa volta, ma la situazione è disperata, il sangue trasfuso, siamo ormai a 24 sacche di sangue, non contiene quello che serve per la coagulazione, qui non abbiamo il plasma e ricomincia a sanguinare… Ha lottato come un leone fino all’ultimo, ma non c’è più nulla da fare, la madre gli è accanto, lo accarezza, anche se è sedato gli parla dolcemente senza piangere e senza fermarsi mai e continuerà a parlargli anche dopo che gli infermieri l’hanno preparato e avvolto nei teli bianchi…

Rachele

Tags: