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Due cerottini gialli

Posted by fluture on agosto 28, 2018
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Foto di CdT

Foto di CdT

 

Ieri ho portato Sara a fare il suo terzo vaccino. Durante i 15 minuti di attesa dopo le punture mi hanno raggiunto Marco e Irene nel corridoio del consultorio pediatrico. Irene aveva il suo bambolotto preferito nel passeggino. Notò subito che Sara aveva due cerottini, uno per ogni coscetta, e me ne chiese due per il suo bambolotto. Ma io non ne avevo e le ho proposto di aspettare di arrivare a casa. Una bimba un po’ più grande era evidentemente attratta da questi giochi e tentava in ogni modo di impossessarsene. In attesa con noi c’era un’altra donna con sua mamma e il suo bambino. Chiacchierando di quanto fosse difficile avere due bimbe piccole così vicine, delle crisi di gelosia, delle attenzioni che si dividono, abbiamo scoperto di essere entrambe infermiere, e che lei era stata una collaboratrice di una docente universitaria negli anni in cui mi sono formata io. Aveva un volto familiare, verosimilmente mi avrà fatto lezione o addirittura l’esame.
Ad un certo punto la bambina riuscì a strappare a Irene sia il bambolotto che il passeggino e Irene si è buttata per terra in lacrime. Nel consolarla mi sono resa conto che il tempo dell’attesa precauzionale era terminato e l’ho convinta ad alzarsi e andare a casa a prendere i cerotti. Quella donna si è avvicinata con due cerotti gialli pieni di soli e fiori disegnati e glieli ha sporti. Irene si è illuminata in un sorriso. Ci guardammo negli occhi e sorridemmo anche noi. Gratitudine, comprensione, affetto (sì, anche questo). Tutto in uno sguardo.
Da quando ci siete voi ho conosciuto molte persone, mi sono ritrovata a chiacchierare, a raccontare e ad ascoltare estranei che vivono come me. Estranei che tanto lontani non sono, che anche se hai fretta ti chiamano, ti notano, si interessano a te e alla tua famiglia, e ti obbligano a fermarti e a guardarli. Qualunque cosa in cui credano, qualunque orientamento politico abbiano, qualunque sia il ceto sociale, ci si guarda negli occhi e si arriva al cuore. Ci si avvicina un po’.
Con quegli sguardi a volte ci si abbraccia anche.

Fluture

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Il mandolino non va sottovalutato

Posted by Storyteller on marzo 16, 2017
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foto di GP

foto di GP

Poco tempo fa giunge nella sala operatoria dove lavoro come anestesista un paziente da sottoporre ad un intervento di routine in regime di day hospital per il quale si è giudicata  preferibile l’anestesia spinale, pratica anch’essa routinaria e di cui io stesso avevo informato l’interessato nella fase detta di pre-ricovero. Arrivato nel locale di preparazione il paziente (pienamente cosciente perché noi non somministriamo sedativi in reparto, la vecchia preanestesia) tenta dapprima di imbastire una polemica sul fatto che il giorno precedente (domenica) non aveva avuto risposta al numero telefonico del reparto con le parole “ma allora fate festa…” e gli si risponde c’è chi lavora anche il sabato e la domenica e chi ha il riposo fisso e che il reparto in questione non sarebbe un day hospital se fosse aperto nei festivi.

Mi appresto quindi ad eseguire l’anestesia spinale e il soggetto indugia a mettersi nella posizione seduta che gli viene richiesta, mi guarda fisso e mi dice: “ guardi che non vorrei dovermi ricordare il suo nome, perché, sa, io alle persone ci tengo…”

Sì, avete capito bene: “io alle persone ci tengo”, in un contesto in cui siamo noi, medici e infermieri, che alle persone “ci teniamo”. Allora bisogna dire con chiarezza che non si tratta di una reazione eccessiva di una persona spaventata (è un adulto consapevole che si è fatto di tutto per mettere a proprio agio) ma che ci troviamo di fronte ad un genuino prodotto italiano, meno gustoso del culatello e della mozzarella di bufala, ma ugualmente noto nel mondo: l’avvertimento mafioso.

Poi l’anestesia viene eseguita senza problemi, il paziente non avverte né dolore né fastidio e io vengo gratificato con le parole: “però, bravo. Non credevo…”

E già, bravo (come tanti altri, ovviamente), però facciamo alcune riflessioni:

-le minacce dopo tutte le derubricazioni e depenalizzazioni degli scorsi anni restano un reato previsto e punito dal Codice Penale ma qui si è usata una perifrasi per minacciare senza fare apparire una minaccia diretta (che anche in questo ci sia una “professionalità”?);

-se il soggetto avesse dovuto discutere con funzionari del Catasto o dell’Agenzia delle Entrate (sono tutti incaricati di un pubblico servizio, come noi) avrebbe avuto lo stesso atteggiamento oppure si pensa che con il personale della Sanità in fondo si può?

-se il soggetto avesse ricevuto qualche risposta non garbata sul riposo settimanale degli ospedalieri o non avesse collaborato alla manovra e gli si fosse detto “non sia intollerante”,  forse lo avremmo visto recarsi all’URP, dove avrebbe trovato ascolto e forse gli operatori sanitari sarebbero stati chiamati a giustificarsi;

-e io dove e a chi posso segnalare un fatto del genere? Non certo sulla cartella clinica dove si annotano solo fatti relativi al percorso di diagnosi e cura.

Negli ultimi anni si è parlato “Medicina Narrativa”, cioè di affiancare all’annotazione, diciamo tecnica una sorta di storytelling in cui compaiano aspetti materiali, relazionali, psicologici del ricovero in ospedale, si pensi per esempio ai rapporti con i famigliari nei lunghi ricoveri nelle Medicine. Io non ne so molto ma ho cominciato a riflettere, più che sul mio povero esempio, su tutti gli operatori di Guardie Mediche, Pronto Soccorsi, Psichiatrie ecc. che hanno subito aggressioni e che hanno potuto segnalare e denunciare solo dopo che era accaduto il peggio.

Prima ti accoltellano e poi ti puoi tutelare? Non può andare così.

Sto terminando di fare queste riflessioni non ottimistiche quando in tv passa la pubblicità di Bancoposta con Vivaldi, il concerto per mandolino, archi e cembalo RV425,  una musica strepitosa e di grande leggerezza.

Decido di ascoltare tutto il concerto: il mandolino non è lo strumento folklorico che molti snobbano, ma esiste una letteratura ed esistono ensembles mandolinistici.

Il mandolino non va sottovalutato.

Buona notte

Storyteller

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Mi piace pensare

Posted by folfox4 on marzo 08, 2017
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La notte del 13 agosto del 1980 ero di guardia come anestesista-rianimatore presso l’ospedale San Giovanni Evangelista di Tivoli (RM). Allora la guardia notturna era coperta da un unico medico sia per il reparto di Rianimazione che per la sala operatoria, con un reperibile fuori, pronto a raddoppiare per ogni necessità. Tra le 23.00 e le 23.30, dopo la visita serale ai malati di Rianimazione, ero andato a prendere un caffè con i colleghi infermieri della sala operatoria.

Ci affacciammo tutti e tre, la ferrista, l’infermiere di sala e io alla finestra posta alla fine del corridoio della sala operatoria che dava sul piazzale dell’ospedale. L’ausiliario ascoltava musica da una radio transistor poco distante.

Mentre si parlava del più e del meno, in sottofondo, il suono di una sirena di ambulanza incominciò a farsi strada nelle nostre teste.

Meccanicamente, la ferrista si fece indietro e si avviò nella sala di chirurgia d’urgenza. L’infermiere scosse l’ausiliario che andò a chiamare l’ascensore. Io entrai in sala per verificare che il respiratore, la monitorizzazione, i farmaci per l’anestesia e i fluidi fossero tutti disponibili. Saliva per i tornanti che dalla statale Tiburtina vengono verso Tivoli, e il suono era sempre più intenso.

La ferrista , l’infermiere di sala e io ci guardammo.

Capimmo, non so sulla base di che cosa, che era per noi, ma anche che non sarebbe stato semplice. Come da regola, l’ausiliario scese in Pronto per la prima occhiata. Confermò al telefono che era per noi. E nemmeno una roba semplice. Salirono in ascensore i ginecologi, il medico del Pronto la barella con sopra una ragazzina di 15 anni si e no.

Sul lenzuolo davanti alle cosce una pozza di sangue. Lei pallida respirava a fatica. Gli occhi sbarrati. Sudata fradicia.

Quando fummo in grado di iniziare la pressione arteriosa sistolica era di 60 mmHg e la frequenza cardiaca di 160 bpm.

La mettemmo sul tavolo operatorio direttamente col lenzuolo della barella.

Tra le gambe un muccio di anse intestinali.

Aprendo l’addome fu chiaro che l’utero era stato sfondato durante una manovra di raschiamento dell’utero per interrompere una gravidanza e invece del feto quello che era stato tirato via era l’intestino.

Morì dopo una settimana di alterne vicende legate a uno shock settico che andava avanti e indietro senza risolversi mai definitivamente.

Per inciso era una Rom.

Io sono diventato non obiettore così. Io non ho avuto modo di fare equilibrismi intellettuali. Io ho dovuto scegliere se stare dalla parte del Sistema Sanitario Nazionale o della mia coscienza che, detto tra noi, all’epoca nemmeno se l’era posto il problema.

Ho scelto. Sono diventato abortista. Anestesista abortista. Ospedaliero. Dopo non è stato facile. E c’è stato un momento in cui ho dubitato della mia scelta. Come al solito ci si sente un po’ male quando troppo è troppo.

Poi le statistiche dicono oggi che il tasso di abortività nel nostro Paese si è ridotto significativamente.   Sono contento perché se io e tutti quelli che come me hanno continuato in quegli anni non avessero tento duro, quel tasso di abortività sarebbe rimasto confinato ai tavoli da cucina delle mammane. Anche a questo abbiamo posto rimedio. Non abbiamo completamente risolto. No. Ma quella roba che ho visto io la notte del 13 agosto del 1980 oggi mi piace credere che nessun medico la veda più.

Questo è ciò che conta per me.

Io ho scelto di fare il medico.

Folfox4

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L’ora dell’EPA

Posted by rem on aprile 08, 2016
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Foto di HA

Foto di HA

Le tre è sempre l’ora dell’edema polmonare acuto

Equilibri neuroumorali, convergenze astrali o solo un dispetto per non farmi dormire

Questo EPA è ultranovantenne affetto da una forma di demenza degenerativa, forse a corpi di Lewy, con psicosi allucinatoria. Nessuna pretesa di autosufficienza, nessuna pretesa di consapevolezza. E’ solo respiro affannoso, gorgogliante da diagnosi che fai sulla porta della stanza. E’ solo fibrillazione atriale veloce già nota e senz’altro già in terapia anticoagulante, magari un Noa che è più nuovo e costoso, sia mai che gli venga anche un ictus come a quelli della vecchia generazione

La sua testa finisce presto dietro un scafandro di plastica, gonfio che potrebbe prendere il volo come un pallone aerostatico, il bottiglione ai piedi del letto ‘sbolla’, il catetere vescicale, -vuoi non mettere un catetere ? – sgocciola poche urine chiare in attesa che migliori l’acidosi respiratoria. Quanto interesserà del suo pH a questo ometto che non sa più neanche chi è, chi sono i suoi , chi siamo noi, dove si trova e perché gli abbiamo infilato la testa in un sacchetto ?. Chissà se intuisce che non vogliamo soffocarlo ma farlo respirare meglio, chissà se gliene importa qualche cosa. Se solo ce lo avesse scritto. Se avesse lasciato un biglietto con scritto: “ Lasciatemi andare, è arrivato il momento, non è che ci tenga tanto a stare al mondo in questo stato. Io sono stato ben altro, ero una persona in gamba, ho visto il mondo, ho amato, ho viaggiato, ho letto, ho vissuto per bene; non mi posso lamentare. Quella che vedete è solo la fine della storia e… ragazzi… prima o poi la storia finisce, fatevene una ragione anche voi e lasciatemi andare”

Gli allarmi del monitor si placano, il sacchetto del catetere si dilata gentilmente sotto la spinta dell’urina ora paglierina, quasi gialla, la saturimetria non lampeggia più, è fissa sul 95 che non usciva da tanto. L’ometto ci guarda dallo scafandro sembra appena sbarcato da un pianeta alieno e credo che lo sia. Sono le tre e quarantacinque, a quest’ora le ore si scrivono per esteso perché passano lente sembrano zavorrate alla realtà e non passano mai

Ricovero l’ometto novantenne e non so neanch’io se gli ho fatto un gran favore.

Ma è quello che sappiamo fare e lo abbiamo fatto.

rem

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Anime perse

Posted by Mentepreziosa on agosto 15, 2015
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foto di EP

foto di EP

Quando è arrivata, nessuno ha scommesso una lira su di lei, “perché è una straniera”, “perché è sola”, “perché, se quella è una miriade di noduli di epatocarcinoma, la cosa migliore per lei è di tornare a bere, senza farsi altre crisi di astinenza e sperando di morire in coma etilico”, “perché le sue uniche persone di riferimento sono il Nano e il Magnaccio” che, mentre vagava per il reparto, con la borsetta in mano e chissà quali pensieri per la testa, in preda al delirium tremens, facevano a turno a tenersela sulle ginocchia.

Perché “non possiamo salvare il mondo” e “se la signora vuole andare al SERT, certo non la posso accompagnare io”, perché qui non esiste un servizio di assistenza sociale, perché “non so… forse al comune… forse il medico di famiglia… forse il CTM” ma, sicuro, nessuno.

“Solo tre giorni, dottoressa”, “oggi è come ieri”, “io bene, mangiato frutta”, “lei troppo buona”, “a casa, andare a casa, per favore, a casa”, “amici, solo amici ci sono, figlio lontano”, “solo dieci minuti, sulla porta, dermatologo detto che sole fa bene”, “mai più alcol, mai più”.

Perché “la signora non parla bene, non si capisce”, perché la probabilità stimata che al suo “mai più alcool” ci creda davvero anche lei è vicina allo zero, perché “la signora va a dormire presso i vecchietti cui fa da badante, non ha un domicilio fisso”, perché se non l’avessimo dimessa forse sarebbe scappata.

Anime perse: ciò che noi possiamo fare per loro, durante un ricovero, è meno di una goccia nell’oceano, meno di una fiala di diazepam mentre lei si strappa gli accessi venosi e buca le sacche dell’infusione continua. Anime il cui destino è segnato e che non hanno altre opzioni se non continuare a sopravvivere come già fanno; anime i cui desideri di bene finiscono sommersi in un fango di false promesse, di aspettative non corrisposte, di speranze malriposte, di solitudine e di orizzonti chiusi. Non si può giustificare l’alcolismo: si può solo tentare di comprenderlo e di calarsi, per il tempo di un ricovero, in quell’abisso di miseria umana e di sofferenza che molto spesso ne è il substrato. E tentare di tirarsene fuori, spolverandosi il camice, prima che la sua volta pesante si richiuda. Magari questa volta non per sempre.

Mentepreziosa

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Dodici ore

Posted by Badev on gennaio 23, 2015
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foto di BDV

foto di BDV

  Il mio Natale è questa notte di guardia che è giunta al termine più vera di tante altre. E’ il mio collega che dall’altro ambulatorio mi chiede, per favore, B, questo bambino, lo visiti anche tu? E lo so che tu non sbagli, che toccandogli la pancia troverò anch’io ciò che non vorrei trovare e sto quasi per dirti che si vede già a occhio nudo, lì, a sinistra, figuriamoci sotto le dita.

Incrociamo uno sguardo di madre così devastato dalla preoccupazione (come invocasse cautela dalle parole che stanno per essere dette), che ci toglie quell’impeto di pronunciarci a tutti i costi, anzi, ci fa rimanere silenziosi, ci fa diventare per un momento anche noi madre e padre di uno sui dieci anni, un po’ svogliato a scuola, ma simpatico da morire, con il labbro leporino che gli distorce un po’ i sorrisi, che peraltro non risparmia a nessuno.

Mentre gli fai l’ecografia i suoi occhi a mandorla ci rivelano un lungo viaggio tra due culture, attraversato da poco, verso un presente di serenità probabilmente troppo fragile: le fiammelle del color-doppler nell’immagine si muovono in una danza che avremmo preferito non vedere. Ci guardiamo tutti insieme e uno per uno. Mi scopro annuire a domande che non sono state poste, se non con un breve cenno degli occhi. E adesso non vi lasciamo soli, non ora che è indispensabile diventare spalla, orecchio, mano tesa: il pensiero è per voi genitori appena sbarcati su un continente ignoto, dove si parla una lingua diversa, si conta in millilitri, si misurano i giorni in buoni e ostili, in ore fuori e dentro l’ospedale, chissà per quanto tempo.

Il mio vero Natale d’amore siamo tutti noi qui che ti guardiamo, ben oltre il termine del nostro turno di guardia, da dietro i vetri della Radiologia, mentre ti sdrai nella TAC e dici “mamma, ma è una macchina fotografica enorme questa roba qui! Davvero ci posso entrare?”.

Badev

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Ospedale di provincia

Posted by Herbert Asch on giugno 01, 2014
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foto di DB

foto di DB

“Nella veglia salvaci, Signore,

nel sonno non ci abbandonare,

il cuore vegli con Cristo

e il corpo riposi nella pace. ”    

(Compieta – antifona al Cantico di Simeone)

La radiosveglia segna le 0:03, coi suoi numeri luminosi un po’ fastidiosi, ma indispensabili, perchè voglio sapere che ora è quando mi sveglio di notte. Come stanotte, che potrei dormire tranquillo.

E invece giro.

Di qui.

Di lì.

Macché! tanto vale alzarsi, tanto non riprendo sonno. Mia moglie dorme tranquilla, un respiro regolare, lento, appena un po’accentuato. Mi sfilo la CPAP, silenziosa compagna della notte. Non ho mai faticato a tenerla, anzi, spesso concilia un sonno profondo e senza sogni, di buon riposo. Ma stasera non ce n’è; e pure mi è venuta un po’ di fame: magari scendo a sgranocchiare qualcosa, anche se in frigo c’è poco.

Il frigo più attrezzato è a casa di mia figlia, che sta per conto suo: da lei c’è un ripiano solo per le bibite, un pacco di lattine di coca e uno di fanta; nei rimanenti spazi, tubetti di maionese, wurstel, patè, budini, pancarrè, sottilette e un sacco di altre porcate che fanno male al fegato, ma scaldano il cuore delle notti insonni.  Il nostro frigo è più salutista, verdure cotte e crude in tutte le salse, bistecche, uova. Al massimo può capitare di trovare una cartina di dietetica e triste bresaola, ormai rattrappita, di rappresentanza, perchè crudo, salame e mortadella sono svanite al primo serio assalto; la bresaola non se la fila nessuno e rimane a muta testimonianza di una volontà salutista ed imbelle.

Mi siedo al tavolo con un cubetto di parmigiano ed una fetta di pane di segale.

E mi vengono in mente le notti di tanti anni fa, primo lavoro da anestesista, in un ospedale di provincia, anni ottanta…

Allora il Pronto soccorso era in mezzo all’ospedale, che si alzava sopra di esso per cinque piani. Le sei stanze di cui si componeva si aprivano tutte sul corridoio, tre di qua e tre di là: cucina, studio medico, sala emergenze, deposito barelle e una grossa sala a due postazioni.  E bon.

Ti sedevi in corridoio e le tenevi d’occhio tutte. Con uno degli internisti, che spesso faceva la notte, ci si intendeva bene. Di buona favella, grande e grosso era di una simpatia immediata, e schietta. Molto colto, aveva fatto già un po’ di tutto in ospedale: l’internista, il neurologo, il trasfusionista, il gastroenterologo, a seconda di dove c’era bisogno. Verso le undici, quando non c’era casino, andavamo a sederci in portineria di fronte alla bollatrice. Si salutava un po’ chi andava e veniva, essendo l’ora del cambio, e intanto ci si faceva un idea della geografia interna dei reparti. A seconda di chi montava capivi se si poteva andar a fare due chiacchiere o era meglio girare alla larga, se c’era accesso al frigo, oppure se si sarebbero barricati dentro.

Erano tempi in cui si cominciava a parlare di BLS, e un mattino, era sceso in Pronto il nuovo primario, fresco di studi dall’America e da lui avevamo visto, per la prima volta, con meraviglia, applicata la tecnica del massaggio cardiaco, che fino al giorno prima ci eravamo immaginati un po’ così a modo nostro, con i gomiti piegati e a livello del letto, qualche colpo e via… ci abbiamo provato, ma… il cuore non ha retto…

Vedemmo il nostro capo pompare come un forsennato su una panchetta rialzata per venti minuti, braccia tese e spalle perpendicolari, dopo avere intubato il paziente, sparando fiale di adrenalina nel tubo, senza stare a perder tempo a mettere flebo impossibili da mettere; e il cuore del paziente era, miracolosamente (a nostra impressione) ripartito…

Degli stessi anni, ricordo un ragazzo con una ferita penetrante sino al pericardio; oggi l’avremmo portato in cardiochirurgia (se ci arrivava) ma allora per lui toccò cercare il chirurgo bravo, ma che non si trovava, niente telefonini ancora.

Poi a qualcuno era venuto in mente di andarlo a stanare nella garçonniere che aveva nel condominio di fronte. E lì l’aveva effettivamente trovato, con la nuova infermiera appena entrata in servizio (ma quello era un altro tipo di servizio…). Lui venne, ricucì gli strati con una calma ed una perizia impareggiabile, e alle tre di mattina si ritirò a finire i discorsi iniziati.

C’erano, a volte, notti tranquille.

Herbert Asch

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Altissimo rischio di aztrugatnat

Posted by Nicola on maggio 24, 2014
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foto di NC

foto di NC

 

Sono finita in un Paese Lontano, dove sto lavorando in vari ospedali come Personal Care Assistant su turni special con un contratto casual, tramite una Nursing Agency.  Una versione in prosa approssimativa ma comunque soddisfacente della traduzione dal paeselontanese all’italiano sarebbe questa: sto lavorando in vari ospedali come oss, tramite un’agenzia che mi chiama per coprire dei turni quando gli ospedali richiedono pesonale extra.

Io comunico la mia disponibilitá sui tre turni all’agenzia settimanalmente. In teoria loro dovrebbero contattarmi sempre settimanalmente per propormi dei turni compatibili con le mie disponibilitá e io potrei accettarli o rifiutarli a seconda di ció che piú mi aggrada, perché essere uno special con contratto casual vuol dire essere liberi. In teoria. In pratica gli ospedali fan richiesta all’ultimo, per cui l’agenzia mi chiama all’ultimissimo e io non c’ho na lira, quindi, schiava del Dio Danaro, mi do sempre disponibile e mi guardo bene dal rifiutare qualsivoglia turno, dato che non so mai quando sará la prossima volta che mi chiameranno.

Nella pratica, la mia vita da Personal Care Assistant nel Paese Lontano funziona grossomodo cosí…

Sto dormendo profondamente. All’improvviso un casino indefinito, extrasistole da “cosa sta succedendo??” poi capisco: é il telefono. Nella confusione mentale del sonno interrotto allungo una mano chiedendomi perché mai il mio cellulare stia suonando per avvisarmi che la batteria é carica al 100% e solo dopo qualche secondo mi rendo conto che si tratta invece di una chiamata.

“Proonntooo?” “ProntoNicolachiamodallagenziaTalDeiTali!” sono rallentata io o é accelerata lei? capisco solo agenzia. Non per altro, ma perché nella costruzione inglese la parola agenzia occupa l’ultimo posto nella frase. Fortunatamente é la parola chiave e capisco di cosa si tratta. “Sí, mi dica!” “Nicola, potresti lavorare oggi per uno special dalle 7 alle 19 al San Vincenzo, reparto 10 Ovest?” “Si, certo!” “7-19 al S.Vincenzo, 10 Ovest” “Certo, certo, va benissimo!” “Grazie Nicola, buona giornata” “Buona giornata!” riaggancio. Bene! Dalle 7 alle 19, reparto… merda! Li richiamo. “Pronto, scusi, sono Nicola… qual era il reparto?” riaggancio. Dunque, 7-19 reparto 10 Ovest del… merda!! Li richiamo. “Pronto… ancora Nicola… e qual era l’ospedale??” Non ce la faccio! Andiamo, oggettivamente, sono pretenziosi loro a pensare che la mia mente, naturalmente settata sull’italiano nel sonno, possa capire e registrare ben tre dati a due secondi da un risveglio brusco… é inumano!

Mi siedo sul letto e guardo l’ora: 6.03. Onnnoo!! Correre! Mi butto addosso dell’acqua e una divisa, maledico la me di ieri che pensando “figurati se mi chiamano domattina!” ha deciso di non stirare la camicia, maledico ogni bottone della camicia e le mie fisiologiche difficoltá di coordinazione delle 6 del mattino.

E intanto devo pensare, cercare di concentrarmi e valutare quale sia la scelta migliore: bici o treno? Bici o treno? L’ospedale dista quasi 8km da casa mia, ci metto circa 40 minuti in bici; la mia bicicletta pesa quanto un Ciao e, poichè qui non ci si cambia a lavoro, se mi impegno rischio di arrivare con la divisa fradicia di sudore; se non mi impegno o se mi cambio in ospedale rischio di arrivare in ritardo; in ogni caso rischio di non arrivare affatto, dato che non ho tempo per fare colazione e l’unica energia a cui posso attingere mi é data dall’ansia di arrivare in ritardo. Bici o treno? Bici! Mi si chiederá perché non il treno… non dimentichiamo che con questo tipo di contratto non ho la certezza di quante ore lavoreró in un mese, non sono che un’immigrata che lavora a giornata come i braccianti del Mississippi, non posso certo permettermi il lusso di pagare il biglietto del treno tutti i giorni! Cosí salto in sella al mio destriero e arrivo trafelata in reparto, dove mi attendono dodici ore quasi ininterrotte di camminata circolare inseguendo un vecchino con demenza armato di deambulatore che mi insulta in macedone e cerca di picchiarmi e mordermi ogni volta che lo trascino fuori dalle stanze degli altri degenti. Dodici ore. Neanche per raggiungere il campo base dell’Everest ho mai camminato tanto in un solo giorno.

E questa è la mia gavetta oltreoceanica nella quotidianitá. Urca, tenete a freno l’ividia!

Devo ammettere che i turni non sono sempre cosí, a dire il vero quello è stato il peggiore. Il piú delle volte il grosso delle mie energie lo spendo cercando di capire il senso del mio esser lí. Ad esempio, quando la consegna é “Ragazzo autistico ricoverato per difficoltá di gestione a domicilio, puó essere aggressivo e violento… non entrare nella stanza” ma come?? “prenditi una sedia e mettiti qui in corridoio davanti alla porta” che, ci tengo a precisare, era chiusa. Non ho passato proprio tutto il turno in corridoio, ma buona parte.

Oppure quando mi chiamano per un signora a cui é stato riconosciuto un discutibilissimo rischio di autolesionismo e il mio compito é quello di stare seduta su una sedia a due metri dal letto della paziente con gli occhi puntati su di lei e riportare su una scheda di osservazione comportamentale quel che sta facendo ogni quindici minuti. Per dieci ore. Di notte.  “DORME. DORME. DORME. DORME. DORME. DORME. DORME. BEVE UN BICCHIERE D’ACQUA. RIPOSA A LETTO. DORME. DORME DORME…”

Insomma, non si tratta di un lavoro difficile o stancante, alle volte non rischiede piú impegno del semplice esser lí. La difficoltá sta nell’abituarsi al fatto che non si sa quando e se si verrá chiamati e nel trovarsi ogni volta in un ambiente diverso con persone nuove.

Un’altra difficoltá spesso é la consegna: sulla terminologia scientifica e sul vocabolario intraospedaliero il mio inglese ha ancora delle lacune non indifferenti, per cui mi é capitato piú volte di ritrovarmi in situazioni del tipo “La signora é fortemente confusa e allucinata, ha lamentato mal di testa e nausea nell’ultima mezzora, ora sta dormendo. Si mobilizza da sola, ah, occhio: è ad altissimo rischio di aztrugatnat. Ha una dieta per diabetici…” ops, forse non ho solo capito “Alto rischio di cosa?” “Altissimo rischio di aztrugatnat. Che si mobilizza da sola te l’ho detto, poi, ha una dieta per diabetici, mangia da sola…” E’ divertente vedere le ipotesi che formula il mio cervello prima di richiedere spiegazioni. Cosa avrá voluto dire?? Altissimo rischio di cosa? Cosa potrá mai fare la signora a cui devo stare attenta? Sputa? Si nasconde? Si infila le biglie nel naso? Levatele le biglie e non venite a stressare me, diamine!

Nicola

Dall’altra parte

Posted by zarianto on aprile 17, 2014
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foto di RR

foto di RR

 

Riapro gli occhi al suono decisamente familiare, ritmico e squillante dei monitor della terapia intensiva… soprattutto ritmico, nel mio caso… dopo ore di manipolazione cardiaca!

Subito, un conato di vomito, cagionato da una pressione sanguigna un po’ bassina, come leggo al monitor (che trovo rapidamente con lo sguardo), per cui richiedo gentilmente la pronta somministrazione di liquidi, puntualmente erogati.

Il volto sorridente di mia moglie e le sue mani delicate che afferrano avide la mia, mi confortano!

Un caro amico chirurgo, giunto di lontano per assistermi, mi rassicura sulla riuscita dell’intervento. Sono ancora, vivo e… vegetante!

La collega anestesista, guardia notturna, si presenta ed è semplicemente deliziosa coi pazienti.

La notte, almeno per me, scorre tranquilla.

Il trasferimento nella terapia subintensiva un po’ meno!  Le ferite sul torace e i drenaggi pleurici, a un certo punto, di notte, dolgono tanto da togliermi il fiato, ma la crisi viene affrontata e risolta prontamente dal personale in turno, sollecitato anche dalla pietà mio vicino di letto: non dimenticherò mai le parole rassicuranti dell’infermiere e le carezze amorevoli della sua collega, entrambi rimasti a vegliarmi fino a quando il sonno riesce ad avere ragione di me.

Pazienti, infermieri e medici, tutti (o quasi), non sono solo encomiabilmente gentili, ma proprio amorevoli (tranne qualcuno, ma, nel numero, si sa…) e non soltanto con me.

Possono nemesi storica, malasuerte e superstizione sottrarsi all’irresistibile tentazione di concretizzare uno dei maggiori fattori di rischio per la salute, cioè quello costituito dall’essere parte del sistema? Ovviamente no, pertanto mi complico, con alcuni problemi risolvibili nella struttura riabilitativa, presso la quale vengo inviato e dove inizia un secondo percorso terapeutico e soprattutto umano.

Conoscendo un po’ la medicina, giungo al centro abbastanza preoccupato per le mie condizioni di salute, ma presto il personale e la forma fisica dei pazienti stessi mi tranquillizzano: l’ambiente è assolutamente accogliente e familiare e il personale competente, cortese, disponibile, efficiente e divertente!

Inizia il percorso riabilitativo di tutti noi cardiopatici, sopravvissuti con consapevolezza alla cardiochirurgia, con quel senso di reducismo che presto unisce fortemente e inesorabilmente, fino alle lacrime di qualcuno, ognuno con una storia diversa da narrare, eppure simile, ricca di coltelli più o meno noti,  di corse disperate in ambulanza, di parenti dotati di inesauribile pazienza, di vuoti di memoria, di difficoltà motorie e, soprattutto, di tanta speranza, voglia di ricominciare e in special modo… di ridere!

Non sarò mai abbastanza grato a tutte le persone incontrate durante questo difficile e insidioso cammino, Paolo, Adriana, Giovanna, Chiara, Sara, Lara, Sergio, Giovanni, Dario, Mauro, Alessandra, Pancrazio, Loredana e tantissimi altri di cui rammenterò sempre il volto sorridente e così confortevole, benché non ne riesca a ricordare – ahimè – il nome, per la loro umanità, comprensione, simpatia e infinita bontà.

Un ringraziamento particolare va alla collega anestesista di sala operatoria che non potei rivedere dopo l’intervento, per il riguardo e la professionalità che ho avuto modo di cogliere.

A te, lettore, che hai sacrificato tempo prezioso per leggermi, auguro una salute infinita, ma dico che, in caso di necessità, troveresti molte persone disposte e in grado di aiutarti efficacemente, che ho l’impressione che costituiscano la maggioranza silenziosa che mantiene in vita, contro ogni probabilità statistica, questo nostro martoriatissimo sistema sanitario.

Grazie per l’attenzione e saluti a tutti… di vero cuore!

Zarianto

Volevo scendere…

Posted by Ultiva on settembre 15, 2013
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Foto di GN

Foto di GN

Ciao M, ciao L,

in voi rivedo me appena approdato all’emergenza-urgenza.

Prima della laurea, come voi due, facevo il volontario in ambulanza. Come voi.

Vedevo il 118 come il premio dei miei sforzi, come la destinazione finale, la sublimazione di un desiderio. Ai miei tempi, 10 anni fa, c’era Siro che drenava toraci, si destreggiava tra il betabloccante ed il calcioantagonista. C’era Giorgio, che intubava a testa in giù e senza laringoscopio. C’era Johnny (non mi ricordo mai come si scrive), che dietro al sorriso a 42 denti nascondeva l’Harrison. C’erano Maurizio, Carlo, Lorenza…. che trattavano i Pazienti per quello che avevano bisogno: non avevano paura di accedere chirurgicamente alla via aerea, non avevano paura di un alti flussi e quando si usciva in automedica o in elicottero si era sicuri del risultato. Sembrava un’orchestra, magistralmente condotta.

Quando è arrivato il mio momento, la mia possibilità di salire sull’elicottero e di fare territorio non stavo più nella pelle: si avverava un sogno.

Poi, il tempo.

I protocolli, la standardizzazione (sarebbe meglio dire la spianata verso il basso). La rabbia di non poter fare. Lo zaino che si svuota (sempre meno farmaci, sempre meno presidi: quando si vola bisogna stare leggeri), le uscite sempre meno meritevoli di una medicalizzazione. Le manovre che si riducono (il 20 di frequenza è meglio che lo veda il cardiologo, se l’emodinamica è stabile…).

La medicina non può essere ridotta ad un libro di ricette di Nonna Papera. La medicina non è matematica, è variabile, è fiuto, è conoscenza, è interpretazione.

Gli infermieri che prima intubavano, adesso usano per forza la maschera laringea. Non è quello che serve al Paziente ma è quello che passa il sistema (sia chiaro, intubando 20 volte in sala ORL impara chiunque).

E adesso, voi, poco più che girata la boa dei 27, volete andare sul territorio, ancora convinti che sia stimolante, che sia formativo, che serva a qualcosa.

Ed io che vi guardo, non parlo, non voglio tarpare le vostre ali e il vostro desiderio, dovete essere liberi di scegliere…. Ma no, non ce la faccio, non posso stare zitto. Almeno qualcosa, almeno su un blog lo devo dire.

Rimanete dove siete, continuate a fare quello che fate. Siete speciali, siete mitici. Sapete essere duri come l’acciaio e teneri come nessun altro. Siete due ottimi professionisti.

VI ho allevati entrambi da quando vi siete laureati, non standardizzatevi, non appiattitevi. Sul territorio non c’è più spazio, non si impara più, non si può più dare tutto. Non si può tornare a casa la sera con la consapevolezza di avere fatto tutto ciò che si poteva e che era necessario.

Non voglio, non vorrei, che questo tarlo divorasse anche voi. Vorrei proteggervi, ma non so da che parte iniziare.

Quando sono salito sull’elicottero la prima volta mi sembrava un sogno, una cosa meravigliosa, quanto di meglio mi sarei potuto aspettare dalla vita professionale. Ed era così. Ma era dieci anni fa.

Ieri, volevo scendere.

Vi auguro tutta la felicità e di trovare la vostra strada.

Con affetto

Ultiva

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