Archive for maggio, 2009

cose turche

Posted by il guardiano on maggio 29, 2009
cronache / Nessun commento

Arrivo un quarto d’ora prima. In corridoio non c’è ancora nessuno. La signora delle pulizie sta finendo, e il suo carrello si affaccia un po’ ingombrante dalla porta di un ambulatorio. Mi siedo alla scrivania e guardo l’elenco dei pazienti. E’ breve, solo tre. Ma le visite sono lunghe, quindi non è che farò tanto in fretta. Leggo il primo: Adyle Kezam. Cominciamo bene, penso, chissà chi mi arriva. Così cerco di raccogliere qualche informazione in più. Leggo la scheda. Adyle Kezam, ragazza turca di 28 anni. All’ammisione una emorragia cerebrale da sanguinamento di una malformazione artero-venosa. Dimessa poco più di un anno fa dalla nostra rianimazione in discrete condizioni. Il collega che aveva preso l’appuntamento si era segnato alcune note: “…in Italia per un master in astrofisica al Politecnico. Riparte fra un mese. Parla solo inglese”. Subito non ci faccio caso, poi nel momento in cui rimetto in fila tutte quelle informazioni mi accorgo che risuonano in modo particolare. Le parole “turco”, “emorragia cerebrale”, “rianimazione” e “astrofisica” formano una strana assonanza, o dissonanza, quasi comica. Sembra un film di Woody Allen. O una più semplice candid camera. Da qualche parte c’è una telecamera nascosta, sicuro. Non mi resta che stare alle regole e aspettare la rivelazione finale del gioco. Ma la vera prova da sforzo la farà il mio il mio inglese scalcagnato. Per fortuna al fondo di una cartellina ci sono tutti i test originali (in inglese), potrò limitarmi alle solite frasi di circostanza.
Si affaccia un viso straniero alla porta, un uomo: “Buon giorno… siamo per la visita…” e non finisce la frase. “Kezam?” chiedo. “Sì, mia sorella…”. “Prego, entrate…”. Sono in tre. Adyle, suo fratello, e la madre. Quella dell’inlgese era una bufala, penso. “Parlate italiano?” “No… poche parole… inglese o turco”. E’ il fratello a rispondere. Mi aveva fregato, con quelle frasi piazzate lì al posto giusto. Altro che bufala. La recita è cominciata senza che neanche me ne accorgessi, il sipario si è spalancato all’improvviso e io devo fare la mia parte. Parto con i soliti “nice to meet you…” (piacere di conoscervi) e un bel sorriso. Indico le sedie. Prendiamo tutti posto. Ora mi tocca spiegare la faccenda dell’ambulatorio del follow up, dei test… Che casino. E’ complicato in italiano figuriamoci nel mio inglese! Prendo un po’ di tempo, rileggendomi la storia clinica di Adyle. Poi il silenzio comincia ad essere imbarazzante, ma non mi viene niente di intelligente e soprattutto comprensibile da dire. Allora sollevo lo sguardo e lancio il più banalissimo: “how are you?” (come va?) pensando “adesso si alzano e se ne vanno”. Invece Adyle sorride, e risponde con la massima calma: “fine… now I’m fine…” (bene, adesso bene), sottolineando intensamente quel now, come dire: c’era un prima e c’è un adesso. Poi come per giustificare il grassetto delle sue parole inizia a raccontare. Adesso sta bene, perché ha finito il master. Proprio due giorni fa ha discusso la tesi (ASTROFISICA…!), ma è stato faticoso dare gli ultimi esami. Studiava e non si ricordava niente. Aveva mal di testa. E si ripeteva in continuazione: “sono diventata stupida…!”. Io ascolto, e capisco, capisco tutto, non una parola su dieci, tutto! Adyle parla un inglese morbido e fluente, senza sbavature, senza suoni gutturali, senza arrotolare o aspirare incomprensibilmente le sillabe, con un tono calmo e accogliente. E io capisco. E più capisco, più mi viene da guardarla con attenzione (non l’ho ancora fatto). Muove le mani con leggerezza, disegnando nell’aria piccoli arabeschi (cose turche ovviamente…), muove gli occhi come alla ricerca di immagini, che una volta evocate fissa con grande intensità, sorride (e il sorriso resta sempre, come una musica di sottofondo). Così, quando questa piccola storia finisce, mi sento pieno di cose da dire, da spiegare, e come l’acrobata che è già in cielo nel momento in cui spicca il salto, così anch’io comincio a parlare. Decisamente meno fluente, ma tutto sommato comprensibile. Prima spiego il progetto, poi i test, poi faccio altre domande (ricordi, sogni, operazioni, controlli), rispondo (cosa è successo veramente, come sono andate le cose, cosa le hanno fatto, cicatrici, segni, tubi, sonde…). Il resto è tutto in discesa, macina i test uno dietro l’altro, qualche chiarimento, poi tutto finisce.
Tiro un sospiro. Ce l’ho fatta, sono arrivato alla fine, chi l’avrebbe mai detto. Ci alziamo, ci salutiamo (in inglese, in italiano, in turco). “Ancora una cosa…” dice lei prima di lasciare la stanza “è possibile vedere la rianimazione?”. La mamma non capisce, il fratello traduce (in turco), c’è un po’ di imbarazzo (loro non vogliono: non è il caso, troppe emozioni). Adyle attende la mia risposta. “Ok”, dico solo. Lei sorride di nuovo, di più. Fratello e madre accettano, vedono il sorriso, aspetteranno fuori, dicono. Poi quando la porta si apre la tentazione di guardare dentro è forte, così decidono di entrare tutti. Lei non ricorda niente, loro sì. Il personale si accorge della visita. Sono arrivati i turchi. Molti la ricordano, Adyle, la ragazza turca che faceva il master in astrofisica, molti non c’erano in quei giorni, molti sono arrivati dopo. Madre e fratello piangono. Lei no. Lei mantiene la sua calma, la sua gentilezza. Il suo inglese morbido è come una ninna nanna che seduce e incanta. Adesso si è arricchito di una tonalità nuova, quella dello stupore, e della commozione. Poi di nuovo tutto finisce, tutto precipita verso l’uscita, verso i saluti. Strette di mano. Buon ritorno. Buona fortuna. Grazie di tutto. Torno sui miei passi. La commedia è finita (o era una candid camera?), in un angolo del corridoio scorrono i titoli, nella mia testa parte la sigla. Di fronte all’ambulatorio c’è un altro paziente che aspetta. Mi fermo un istante, attendo il buio e la scritta “fine”.

il guardiano

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stesse stelle

Posted by Giramondo on maggio 19, 2009
cronache / 1 Commento

Cambogia.
Metà Marzo, 2009.
A notte inoltrata mi suona il telefono: è il pronto soccorso dell’ospedale dove lavoro.
Mi riferiscono che è arrivato un ragazzino di 10 anni con un trauma cranico per un incidente stradale di 2 ore prima.
Qui fa sempre molto caldo; il mezzo di locomozione più comune e più economico è il ciclomotore; sopra un sedile di motorino viaggiano sempre dalle 3 alle 6 persone, bambini e neonati compresi.
Caschi, sconosciuti; velocità, almeno 70 km orari; fanali, spesso inesistenti.
Mi alzo, mi vesto, e prima di uscire guardo Aràl, la ragazza che ho conosciuto in questa missione; stiamo percorrendo un tratto di vita insieme; forse le nostre strade saranno condivise per tanto tempo… ma forse, e poi questa è un’altra storia. Le dò un bacio; lei non se ne accorge, continua a dormire.
Arrivo in reparto.
Il bimbo ha una profonda lacerazione del cuoio capelluto in regione temporo-parietale sinistra, GCS 8, midriasi a sinistra ed emiparesi a destra. I parenti mi riferiscono che è stato cosciente per circa un’ora dopo l’incidente e poi ha perso conoscenza.
Ovviamente qui non c’è la TAC.
Decido di eseguire una craniotomia sinistra… e chiedo a Budda che sia un extradurale.
Gli infermieri cambogiani mi aiutano a spiegare a mamma e papà che le condizioni sono gravi, che probabilmente loro figlio non ce la farà, ma che faremo il possibile.
Ci serve il loro consenso per operare.
Mi guardano. Qualche parola in khmer con gli infermieri.
Impronta d’inchiostro sulla cartella: è il consenso.
Il piccolo viene rasato.
Andiamo in sala; il personale di sala trasporta e sistema il malato sul letto operatorio; anestesista internazionale e cambogiano sono pronti.
Inizio.
Cute, teca cranica… ecco, non ci siamo: nessun ematoma extradurale.
Vedo un coagulo al di sotto della dura.
Un ematoma sottodurale; cioè: apro la dura, aspiro l’ematoma, richiudo dura, teca cranica, scalpo.
Sono sicuro che c’è una fonte di emorragia cerebrale che io non posso vedere, che riprenderà a sanguinare.
Sono sicuro che dopo alcune ore di coscienza il piccolo ripomberà in un coma questa volta senza speranza.
Non posso fare altro.
Impotente.
Fuori dalla sala parlo con i genitori, spiego la situazione.
Mi guardano ancora: “Aukun, aukun ” ( grazie, grazie ), sono le loro parole.
Io non ho parole per dire come mi sento.
Devo respirare un po': esco nel bellissimo giardino del reparto.
Caldo anche di notte; a me piace.
C’e’ odore di fiori; ma anche di fiume e di acqua stagnante.
Guardo in alto: stasera il cielo è terso e senza luna. Nerissimo.
Tutte le stelle mi guardano, interrogative.
Non ho risposte.
Tra qualche ora o tra pochi giorni ci sarà un’altra stella li con voi: un piccolo bimbo cambogiano, accoglietelo con la vostra luce, coccolatelo, tenetelo al caldo, fatelo brillare come voi stanotte.

Afghanistan.
Primi giorni di Aprile, 2009.
Stanotte sono uscito dalla sala operatoria dopo un’urgenza.
Qui fa ancora freddo.
Guardo in alto.
Stesse stelle.
Non posso sapere qual’è, ma sono sicuro che una piccola stella cambogiana brilla anche in questa valle afghana.
E spero che mi protegga. 

Giramondo 

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la Risonanza Magnetica

Posted by Sun-Tzu on maggio 11, 2009
cronache / 2 Commenti

Avere un quoziente intellettivo in perfetto equilibrio con il proprio potassio non è un criterio indispensabile per fare l’anestesista. Però aiuta.
Quando squilla il DECT dell’emergenza l’anestesista sa che la vita di uno sventurato è nelle sue mani. Ed in questo caso sarebbe stato meglio tagliargliele, le mani. Magari prima che potesse usarle per iscriversi a Medicina.
Qualche piano più in basso e pochi corridoi più in là, c’è una signora non più giovanissima ma ancora in buona forma. Sta sdraiata sul lettino della Risonanza Magnetica Nucleare. Fino ad oggi conduceva una vita tranquilla in totale indipendenza. Poi improvvisamente il braccio di sinistra ha cominciato a non funzionare più a dovere.
La signora è agitata. Un po’ è preoccupata e spaventata. Un po’ è maledettamente claustrofobica. A casa sua non prende neanche l’ascensore. E abita al terzo piano.
Non si preoccupi – dice il medico radiologo – le chiamo subito l’anestesista che le fa qualcosa per farla rilassare. Non so se il collega radiologo mantenga una formula di comunicazione nebulosa e vaga per farsi comprendere meglio anche da chi non è del mestiere o se nebulosa e vaga è anche la sua idea su ciò che fa l’anestesista. L’anestesista in risonanza spesso rilassa i malati agitati. Uno psicoterapeuta pret-a-porter. Che il rilassamento a volte avvenga con un curaro ed un anestetico e ci voglia un tubo ed una macchina per respirare bene può sembrare un vezzo.
In questa storia l’anestesista, però, è uno che sta alla calma e alla ragionevolezza come Ibrahimovic sta alla meccanica quantistica.
Partito alla volta della radiologia con lo zaino per l’emergenza intraospedaliera che ci puoi curare tutti i feriti della scorsa Parigi-Dakar e l’immancabile bombola dell’ossigeno, entra nei locali della Risonanza Magnetica con la delicatezza delle squadre speciali d’assalto.
Impossibile fermare l’eroe prescelto. Il cavaliere dell’apocalisse fa solo in tempo a sentire un incredulo tecnico di radiologia che gli urla: ma dove ca……
La signora adesso è ferma. Il cervello è ben ossigenato avendo una bombola di 15 kg di ossigeno puro nei pressi della testa. Non fosse per una frattura affondata della teca cranica si poteva pensare ad un buon lavoro.

Sun-Tsu

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una commissione urgente

Posted by il guardiano on maggio 03, 2009
racconti / Nessun commento

Quando aprì gli occhi, la signora del letto 9 avvertì immediatamente un grande senso di angoscia. Era convinta che fosse mattino, e che fosse l’ultimo giorno per pagare la bolletta del gas. Cercò di tirarsi su, per alzarsi, vestirsi e correre alla posta, ma subito fili e cateteri si misero a tirare da tutte le parti, facendo scattare gli allarmi. Due infermieri accorsero e la fermarono prima che potesse fare maggiori danni. Le spiegarono (un po’ rudemente, a suo avviso) che non era mattina, e che alla bolletta ci avrebbero pensato i suoi famigliari. Difficile, pensò lei. E poi ormai era tardi per andare alla posta. Loro, gli infermieri, la facevano un po’ troppo semplice ma non conoscevano suo marito, i suoi figli. Sentiva che quella bolletta non sarebbe mai stata pagata, e questo non era per niente un affare da poco. Il fatto è che lei non sapeva che erano capitate cose ben più importanti. Che in quei giorni era stata messa in discussione la sua stessa sopravvivenza. Lei non sapeva di essere stata molto peggio, non sapeva che aveva rischiato la vita. Quell’angoscia l’avevano vissuta i suoi famigliari, è per questo che, quando li vedeva, li trovava piuttosto strani, e, secondo lei, per certi versi ancora meno affidabili. La signora del letto 9 sapeva solo come stava in quel momento e giudicava tutto secondo quelle impressioni lì. Il suo stato di salute non le veniva affatto in mente. Tutt’al più pensava a qualcosa di contingente, di immediato: la fame, il freddo, la sete. In quel momento c’era quella benedetta bolletta che la preoccupava terribilmente, e il non poter nemmeno avvisare suo marito la metteva ancora più in agitazione. Quando arrivarono poi gli stessi infermieri di prima che per ordine del medico le dovevano infilare di nuovo lo scafandro pensò che era ora di ribellarsi una volta per tutte. Lo scafandro era una vera e propria tortura. Lì dentro l’aria circolava ad una velocità pazzesca, e faceva un rumore terribile. Ogni volta che glielo mettevano pensava di impazzire, e quando glielo toglievano cercava di capire se durante quelle dieci ore fosse impazzita o no. Certo era meglio del tubo. Ma almeno quando aveva il tubo era sedata, o in parte sedata. Ricordava ancora quel tubo che le ostruiva la bocca e le impediva di parlare. Temeva che le fosse cresciuto un enorme dente, o che a causa dell’operazione andata male le avessero riempito la bocca di garze. Quando arrivò il medico per convincerla a mettere lo scafandro sentiva che la sua forza di ribellione era già venuta meno. Forse le avevano dato un tranquillante. Pensò che fosse meglio così. Che sedata non avrebbe sentito quel rumore spaventoso. Quando si addormentò sognò di aver rotto due scafandri a forza di muoversi e dibattersi, e nel tardo pomeriggio, quando la liberarono nuovamente, vide suo marito che le sorrideva accanto al letto, ma lei aveva troppo sonno per chiedergli della bolletta, e gli fece solo un gesto come dire: “Non importa…” ma nessuno se ne accorse.

il guardiano