Archive for novembre, 2009

Marco C.

Posted by il Jolly on novembre 27, 2009
racconti / 2 Commenti

Era stata una splendida giornata estiva. Lo ricordo con esattezza, anche se sono passati alcuni anni. Dopo un pomeriggio passato al mare, avevo percorso il breve tratto di autostrada da Senigallia a Fano per prendere servizio alle 20.00 nel turno di guardia notturna di anestesia all’Ospedale Santa Croce. Anestesista – Rianimatore… in quel momento avevo 36 anni. Neanche il tempo di ricevere le consegne che dal cercapersone arriva una chiamata dal PS: un politrauma, codice rosso! Scendo velocemente le scale e attraverso il corridoio di ingresso al Pronto Soccorso. Mi sento carico, pronto, efficiente. Già in specialità avevo preso parte alla gestione di gravi traumi, così pure a Fano, città di mare, con un estate sempre critica per le urgenze. L’impatto visivo dell’ingresso di un traumatizzato al PS è sempre drammatico, concitato, di forte impatto emotivo, soprattutto se è giovane, soprattutto se ha la tua età, soprattutto se è terrorizzato, immobilizzato su una tavola spinale con uno stiff-neck ben posizionato. E’ vigile e ben orientato, prima di essere impacchettato è riuscito a telefonare alla moglie per avvisarla di quello stupido incidente in scooter, dopo un bagno al mare di ritorno dal lavoro, inconsueto per lui prima di cena, ma il mare era talmente invitante! Lamenta dolore all’addome, mi sembra tranquillo. Monitoraggio pressione arteriosa e saturazione O2 nei limiti, leggermente tachicardico all’ECG. Mentre l’infermiera fa un prelievo di sangue per emocromo, chiedo un Eco-addome urgente. In effetti l’addome è teso e dolente, mentre per altri distretti l’esame clinico sembra negativo. Arriva anche un Chirurgo. Marco ha un buon 16 Ga in un avambraccio, ma ne posiziono un secondo nell’altro, sto piu’ tranquillo. ECO-FAST, così si chiama l’esame che il Radiologo conduce. C’è del versamento libero in addome, più abbondante a livello dell’ipocondrio destro. Chiedo al Chirurgo di allertare l’equipe di sala. Telefona al suo Primario per avvisarlo. Ok andiamo in sala, ma prima ci vuole una TAC addome per valutare meglio l’entità delle lesioni. La pressione tiene bene, saturazione ok, sempre tachicardico. Il dolore è intenso. Gli somministro 5 mg di morfina ev. Andiamo alla TC, veloci però… cazzo!! TC addome con mezzo di contrasto: rottura del fegato, emoperitoneo massivo. Marco è sempre più agitato, la pressione è in picchiata. Mi portano l’emocromo fatto all’ingresso: Hb 12. Gli faccio un EGA: Hb 8… dopo neanche tre quarti d’ora! Marco mi chiama, è terrorizzato, non respira, non riesce a respirare. Mi guarda e mi dice: aiutami! Mi guarda fisso negli occhi: aiutami! Gli rispondo di sì… sì!. Sta desaturando… l’addome è tesissimo, respira veramente male. Ho con me lo zaino d’emergenza ed è arrivato anche l’infermiere di anestesia. Lo intubo, lo ventilo, la saturazione risale. Guardo il collega chirurgo, non dico nulla, poi chiamo l’ascensore e vado in SO, ci vado e basta. Chiamo Davide, il collega di turno in Terapia Intensiva. E’ un amico, e gli chiedo aiuto. Chiedo aiuto a tutti. Posiziono sul letto operatorio Marco, lo connetto al ventilatore di anestesia in O2 e protossido d’azoto. Niente altro. La pressione non è più rilevabile. Inizio ad infondere sangue zero negativo: due sacche, mentre Davide mi porta dal PS altre quattro unità crociate di emazie concentrate. Infondiamo come disperati ognuno su di un lato tutto quello che abbiamo. Ci portano una pompa di Noradrenalina, non serve, ma va bene! L’intervento inizia e la situazione appare subito disperata. Il fegato è una poltiglia in mezzo ad un mare di sangue, la vena porta, la cava inferiore lacerate. Ci vorrebbe il padreterno della chirurgia vascolare. Ci vorrebbe il Padreterno. Dopo circa quarantacinque minuti di inutili tentativi di emostasi chirurgica, parecchie sacche di sangue, parecchi liquidi, parecchie imprecazioni, Marco inizia a bradicardizzare. Avviso il Primario di chirurgia della imminenza dell’arresto cardiaco. C’è anche un tentativo di massaggio dal sacco pericardico… poi nulla. Letizia, graziosa infermiera della terapia intensiva, capelli rossi, simpatica, si affaccia e mi guarda. Ha gli occhi lucidi. Esco per ultimo dalla sala. Devo parlare con la moglie, mi dicono che hanno due bambine. E’ nello studio del mio primario, distesa in poltrona, in lacrime. Gli dico che ho cercato… ho tentato tutto, ma mi esce una voce ridicola che non sento mia, vorrei stendermi ai suoi piedi e chiedere perdono, ma rimango in piedi inebetito, non riesco neanche a piangere. Le stringo le mani, le mie sono fredde, poi esco. Quel giorno la Morte mi ha preso a schiaffi, ne sono seguiti altri, ma quello è stato il giorno di Marco C. e della mia inutilità. Me lo tengo stretto.

il Jolly

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sulla strada

Posted by Riverrun on novembre 15, 2009
cronache / 1 Commento

Notte come tante altre, fino a questo momento.

Suona il telefono, un sobbalzo, il sonno viene automaticamente ricacciato indietro all’estremo limite della percezione. Resta una leggera nausea ma di notte ci sono abituato.

Un codice rosso, mi viene riferito.

Fuori è freddo e mi vesto pesante.

Quasi una cerimonia, la vestizione, come prima di una tauromachia, solo più rapida.

Salgo sull’auto medica.

Si tratta di un incidente.

La tensione che si accumula silenziosa fra l’autista e me durante il tragitto. Rimaniamo in silenzio. La luce blu del lampeggiante che rotea intorno a noi, le nostre immagini debolmente illuminate riflesse dal vetro delle finestre.

Capiamo che stiamo per arrivare, vediamo automobili ferme e fanali in lontananza, gente in piedi sull’asfalto che ci fa segno. Ci facciamo strada. Apprensione ormai palpabile, diventa angoscia, gli occhi cercano, esco dall’auto.

Due persone coinvolte sedute sul ciglio, appoggiate ai platani, apparentemente in discrete condizioni.

Dentro l’ambulanza, mi dicono, c’è un’altra persona. Dalla voce concitata del soccorritore, dal linguaggio non verbale capisco che è grave.

Salgo sul predellino ed entro.

Mi chiudo la porta scorrevole alle spalle.

Sulla barella un uomo sulla trentina, robusto, agitato. Parla concitatamente sempre la stessa frase “Aiutatemi non riesco a respirare”. Non rimane fermo, gli arti brandeggiano come pale impazzite. Io, un assurdo Don Chisciotte contro i mulini a vento. In due non riusciamo a tenerlo fermo. Posizionare un accesso venoso è oltre l’orizzonte del possibile. Il sibilo continuo dell’ossigeno a tratti si affaccia alla coscienza. Ripartiamo subito. Mi chino su di lui per visitarlo, una mano mi afferra un avambraccio, faccio fatica a divincolarmi. Agli emitoraci solo movimenti preternaturali e paradossi, la mia mano quasi sprofonda fra il crepitio delle costole. La sirena sul tetto urla, la velocità è elevata, ci dobbiamo attaccare ad ogni appiglio utile nell’abitacolo, ma il tragitto sembra infinito. Lui continua ad agitarsi, le parole sempre più sconnesse. Manca poco ormai. Siamo sul viale. In fondo si vede l’insegna del Pronto Soccorso. Improvvisamente, smette di respirare, le membra si rilasciano e si accasciano senza più volontà propria, preda della forza di gravità e dei bruschi movimenti del mezzo. In una frazione temporale, da essere umano a cadavere. Mi rendo conto di avere il laringoscopio in mano, lo infilo fra gli strattoni e i sobbalzi nel laringe inerte.

Immagini mentali in successione rapida, intrusive, parallele a quanto accade nella realtà e destinate a non entrare mai in contatto con essa: flash delle ultime vacanze, una musica da camera in stile baroccheggiante mai udita prima, fulmini globulari di luci variegate.

In sala emergenza sarà tutto inutile. Il medico anziano, prossimo alla pensione, ne ha viste tante ormai, compila i vari moduli, la constatazione e il resto.

In sala d’attesa arrivano la moglie e la figlia adolescente. Resta da comunicare loro la notizia. Solo in quel momento mi viene voglia di piangere.

Qualche notte dopo, a casa, un sogno: mi manca l’aria. Mi sveglio sudato e boccheggiante. Una specie di contrappasso, sbiadita ricostruzione autogena di quanto doveva avere provato lui.

Riverrun

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elisoccorso (prima parte)

Posted by Herbert Asch on novembre 08, 2009
racconti / 1 Commento

Uno solo. E’ solo uno il ferito per fortuna, ma dall’alto non l’avresti detto.
L’incidente si vede bene arrivandogli da sopra: le due macchine accavallate e la moto un poco fuori nel prato, raccontano una dinamica severa.
Poi, con l’arrivo sulla scena, le cose prendono i loro giusti contorni, cominci a vedere quanti sono coinvolti, cosa si sono fatti, fai un rapido triage per vedere le priorità.
Sulle macchine ci sono solo gli autisti ben legati, ormai i veicoli sono più sicuri di un tempo quando il blocco del motore giustiziava i passeggeri anteriori. Adesso le macchine si aprono come le banane che mangia King Kong, ma all’interno ci sono sempre più spesso molti meno danni.
Il motociclista è invece finito in un prato, la moto da una parte e lui dall’altra ma il prato è molle, lui ha una tuta con la tartaruga, il casco non si è slacciato e la caduta si è stemperata in una serie di rotoloni senza incontrare ostacoli. Totale, forse ha un gomito rotto, una gamba acciaccata, ma poteva andargli ben peggio. Lo sistemo sulla Base, l’ambulanza dei volontari che ci affianca sempre, compilo i fogli e lo spedisco. Non abbiamo toccato niente dei nostri zaini siamo operativi da subito, ci ritiriamo con l’Infermiere, con un gesto indico al pilota che possiamo andare. Lui guarda l’ora, sono passati i minuti necessari a far scendere la temperatura del motore, si può riavviare, fa un cenno di assenso.
Con gli equipaggi, ci capiamo ormai con uno sguardo, un gesto.
Quando arriviamo sul target tocca a me valutare se dobbiamo fermarci per più di dieci minuti, nel qual caso vale la pena spegnere il motore, oppure se le cose possono essere veloci ed allora il pilota mi aspetta a motori accesi. Appena ho la sensazione, mi giro e lo segnalo, la mano aperta in segno di attesa per non spegnere, il pollice passato sotto il collo come a sgozzare il motore, per spegnere.
Alla partenza giro inverso: il tecnico fa allontanare i curiosi, e si va a mettere a distanza di sicurezza davanti all’eli per controllare il settore posteriore, noi buttiamo su gli zaini, li assicuriamo, ci sediamo, ci leghiamo, ci mettiamo le cuffie, ci controlliamo a vicenda. I piloti avviano, quando l’eli ha raggiunto la potenza, il tecnico sale, chiude, si lega, mette la cuffia, comunica che tutto è chiuso e a posto e via si parte.
Gesti automatici, ormai.

Non lo sapevo, ma quella sarebbe stata la mia ultima missione in elicottero, forse per questo che me la ricordo così ancora fresca nella mia mente.
Quel giorno non ci sono più state chiamate e in seguito, ormai quasi otto anni fa, non sono più salito su un elicottero, i casi della vita mi hanno tenuto fuori e così i dodici anni di servizi in elisoccorso sono passati nel quaderno dei ricordi…

Herbert Asch

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