Archive for gennaio, 2010

Federico “ho fatto la mia parte”

Posted by folfox4 on gennaio 26, 2010
racconti / 3 Commenti

La comunicazione per me più difficile è stata quella che mi sono ritrovato a fare una notte ai genitori di un bambino di 5 anni che giunse alla mia osservazione dopo 3, 4 giorni passati in chirurgia con un’appendicite evoluta in shock settico.
Quando Federico giunse in reparto era allo stremo ed ebbe quasi subito un’arresto cardiaco.
Per non perderlo e prima di andare in sala operatoria furono necessari 45 minuti di rianimazione cardio-polmonare. Quando rianimi qualcuno ed in particolare un bimbo, il cui torace lo tieni tra le mani, ti senti travolgere da un istinto fortissimo quasi incontrollabile che ti spinge a fare qualsiasi cosa per tenere l’essere umano che ti è stato affidato in vita.
La sensazione che provai quella notte fu quella di riversare la mia energia vitale nel corpo di quel bambino. Essendo Federico un bimbo piccolo, la sensazione che provai era quella di essere dentro il suo corpo, come se stessi tenendo tra le mani il suo cuore.
Quando polso e pressione finalmente ricomparvero provai un temporaneo sollievo, come dire: “l’abbiamo ripreso”, “ci stava sfuggendo e siamo riusciti a riacchiapparlo”.
L’infermiera che era con me e con la mia collega mi disse, in seguito, che ritmavo la rianimazione bestemmiando, sinceramente non lo ricordo così come ho dimenticato il corpo e il viso di Federico.
Dopo 45 minuti di rianimazione, travolto dall’imperativo quasi diabolico di tenere in vita Federico ero prostrato fisicamente e psichicamente e senza il tempo di riflettere su ciò che avevo vissuto mi disposi a parlare con i genitori che erano rimasti fuori dalla porta senza sapere costa stesse accadendo.
Li feci accomodare nella stanza dei colloqui e gli dissi che Federico aveva avuto un’arresto cardiaco, che era pressoché morto e rischiava ancora di morire da un momento all’altro.
Mentre parlavo ebbi la sensazione che il padre mi ascoltasse, che in base alle mie parole comprendesse le gravi condizioni del figlio e rimettesse insieme i pezzi dei giorni trascorsi in ospedale, quando probabilmente non si era reso conto della gravità della situazione.
Dal modo in cui mi ascoltava e mi guardava ebbi la sensazione che avesse compreso che ci eravamo veramente fatti in quattro per salvare almeno temporaneamente la vita al figlio.
Della madre invece ricordo lo sguardo ostile, ebbi la sensazione di essere il primo medico che si offriva veramente al dialogo da quando il figlio era stato ricoverato e tutto in lei esprimeva un forte astio nei miei confronti che diceva: “me lo avete ammazzato”.
Fu estremamente duro per me quel colloquio: era evidente che c’erano in scena due dolori distinti, quello dei familiari, certamente centrale e devastante e il mio di operatore dell’ospedale che sentivo sulle spalle la responsabilità di ciò che non era stato fatto, di ciò che non si era compreso tanto che il bambino si trovava in fin di vita.
Il caso clinico di Federico mi metteva paura, il bambino era più morto che vivo immaginavo che la sepsi e l’arresto fossero conseguenti all’appendicite che i chirurghi, inspiegabilmente, per giorni non avevano voluto operare.
Percepivo un forte imbarazzo, mi sentivo in colpa, ci si sente sempre in colpa quando le cose vanno male. Fui invaso da un’intensa sensazione di colpa come se tutto dipendesse da ciò che avevo fatto o mancato di fare nell’assistere il paziente, mi rendo conto che è una specie di delirio di onnipotenza, ma è esattamente ciò che si prova.
Adesso narrando di quella notte mi viene in mente che, per la prima volta da quando avevo 18 anni, mi ritrovavo in un contatto fortemente sentito con un bambino.
Fino a 18 anni avevo sempre avuto una grande intesa con i bambini, se ne incontravo uno ero contento e loro in genere erano entusiasti di me, poi improvvisamente persi questa capacità, era come se inspiegabilmente fossi diventato indifferente nei loro confronti. Questa sensazione di distanza emotiva dai bimbi era sorta in coincidenza con i primi rapporti sessuali quando, sperimentai il terrore di poter avere un figlio.
Ricordo che dopo una delle mie prime esperienze la ragazza con cui stavo ebbe un ritardo e fui colto dall’angoscia fortissima di averla messa incinta. Avevo un pensiero ossessivo che mi martellava la testa: “oddio è incinta, oddio aspetto un figlio”.
L’intensità di quell’angoscia a mio avviso anormale, mi riporta ad una sensazione simile che sperimentai intorno ai 9 anni, quando ci fu il forte rischio di una guerra atomica: era la crisi di Cuba … La televisione bombardava di informazioni ed io ricordo quell’angoscia; delle volte mi dondolavo e dicevo; “Ho paura della radioattività. Ho paura della radioattività”.
Questa stessa sensazione la provavo anche a 4-5 anni, la stessa età di Federico, quando passavo le mie giornate nel grande armadio di legno della nonna; dentro c’era la biancheria, un profumo di lavanda ed io guardavo il mondo sbirciando dalle ante.
Il giorno in cui mi ritrovai a rianimare Federico, ritrovai l’intenso trasporto fisico ed emotivo che provavo per i bambini ma questa volta non stavamo giocando; tenevo tra le mani il suo cuore e provavo a non farlo morire.
L’energia che si è mobilizzata in termini di quantità era la stessa di quando ero giovane solo che questa volta la qualità dell’energia era diversa.
Come dicevo non ricordo l’aspetto fisico di Federico, mentre ricordo bene che quando una settimana dopo lui morì, il primario mi chiamò a casa per dirmi che il padre mi voleva parlare. Sebbene fossi di riposo andai dai genitori, rimasi del tempo con loro e poi per la prima volta da quando ero in rianimazione andai al funerale di un malato morto.
Era giugno, quell’estate andai in montagna, ma i giorni passavano ed io mi sentivo incapace di godermeli, mi sentivo scombinato, aleggiava in me un intenso senso di tristezza che si rischiarò quando tornando giù da cima Tosa, pensai che potevo dedicare una via di ascesa a Federico.
Mi misi d’accordo con Demis la mia guida di Tione di Trento e ad ottobre tornai in montagna e aprii questa via, 150 metri di parete rocciosa, del 5° grado.
Fu una scalata impegnativa, che richiese sforzo, attenzione e molta concentrazione. Dopo 5 ore di scalata mi ritrovai in cima, era stupendo e pensai che quello era il posto adatto dove seppellire Federico, lì poteva riposare e guardare il magnifico panorama che lo circondava.
L’Adamello, la Presanella e giù giù monti fino al massiccio dell’Ortles.
Non ero riuscito a salvarlo, mi sentivo in colpa, mi domandavo se c’era qualcosa di più o di diverso che avrei potuto fare per garantirgli la vita e alla fine era importante per me accompagnarlo alla morte e seppellirlo simbolicamente.
La discesa in corda doppia durò solo 30 minuti e fu estremamente piacevole.
Si era compiuto un cerchio, si era chiuso un ciclo della mia esperienza professionale, da giovane medico a maturo signore che fa il medico. Una vera rivoluzione.
Dopo l’incontro con Federico ho perso una visione un po’ ideale della professione o forse posso dire che ho perso una corazza che mi permetteva di mantenere una distanza dal dolore che mi circondava quotidianamente.
Prima di Federico non avevo mai avvertito così intensamente la sofferenza, come se la vita mi avesse fatto capire attraverso quel bambino che cosa significa caricarsi sulle spalle un essere umano e portarlo verso la vita.
Oggi “sento” la malattia che devasta il corpo dei malati… una lastra, una TAC, un referto degli esami ematochimici, non sono più per me solo parole o numeri… “vedo” il disfacimento dell’organismo.
Questa percezione della malattia mi fa dolore e questo dolore mi fa sentire debole.
Via via nei miei 30 anni di pratica clinica la medicina è molto cambiata divenendo sempre più complessa. La malattia di un essere umano nasce appunto dall’incontro tra uno specifico essere umano con una specifica entità nosologica e questo incontro è unico per cui al medico è sempre richiesto di fare la spola tra quello specifico individuo malato e ciò che scientificamente si conosce di quella malattia.
Ci si muove quindi nell’incertezza di ciò che è meglio fare per quel singolo essere umano che hai davanti alla luce dell'”evidenza scientifica”.
Federico mi è morto
Non sono riuscito a salvarlo
Sono andato a dargli una degna sepoltura

Folfox4

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vi racconto la SLA ovvero la solitudine dei medici di terapia intensiva

Posted by Malanotteno on gennaio 17, 2010
testimonianze / 4 Commenti

Rispetto all’ultima volta che l’ho vista la signora Maria è più triste, dimagrita, è diminuita la mimica facciale.
– Come sta la sua nipotina?
– Sta crescendo bene e va molto volentieri all’asilo nido.
– Sta ancora leggendo i quotidiani?
– Si, a volte li leggo io, a volte quando non ce la faccio me li legge mio marito, ma ormai leggere i giornali sta diventando angosciante.
– Sta seguendo la nascita del PD?
– Si ma non mi piace la contrapposizione tra Soru e Cabras.
L’impressione che ho avuto quel giorno è stata di una donna molto presente a se stessa.
– Signora Maria mi sembra un po’ giù di umore oggi.
– Perché secondo lei come dovrei essere?
– La capisco, ma forse si potrebbe aiutare con qualche farmaco , un ansiolitico o un antidepressivo.
– Sino a quando ce la faccio preferisco di no, in seguito si vedrà.
– Sta dimagrendo molto, evidentemente quello che riesce a mangiare non le basta, forse è il caso di aggiungere un po’ di nutrizione enterale attraverso la PEG.
– Ma cosa me ne faccio di mettere su qualche chilo.
– Una buona alimentazione serve per prevenire le lesioni da decubito e le infezioni, comunque se lei non è d’accordo lasciamo così, d’altronde abbiamo sempre cercato di rispettare la sua volontà.
Dal suo sguardo, ho capito subito che mi ero intrappolata in una situazione difficile. Infatti alla mia affermazione non poteva che seguire la sua domanda.
– Davvero dottoressa rispetterebbe la mia volontà? E se arrivasse il momento in cui io le chiedessi di staccare il ventilatore, lei lo staccherebbe?
Non ero pronta. Avevo riflettuto a fondo sulla possibilità di trovarmi in una situazione così, come credo abbiano fatto tutti gli anestesisti quando tirarono un sospiro di sollievo perché per fortuna non era toccato a loro essere il medico curante di Nuvoli o di Welby .
Me la sono cavata mediocremente.
– Suvvia signora, io penso e le auguro che la sua vita, anche se in questa condizione, per lei abbia sempre motivo di essere vissuta.
Io così pensavo e le auguravo. Feci finta di non capire quello che continuò a dire subito dopo.
La donna che ha intelligenza soprafina ha capito benissimo che non le stavo rispondendo e io sapevo di non aver risposto, sapevo soprattutto di non saperle rispondere.
Sapevo che quanto successo quel giorno era una puntata di un dramma iniziato quattro anni prima,
sapevo della mia vigliaccheria.
Andai a trovarla qualche altra volta. La malattia evolveva molto velocemente. Tutti i muscoli erano paralizzati, riusciva solo ad aprire e chiudere gli occhi e con questo vocabolario comunicava con i familiari e con il personale che la assisteva intensamente. Lo sguardo rimaneva ancora vivace.
Giaceva nel letto immobile. Ritmicamente, attraverso la tracheotomia il ventilatore forzava l’aria nei polmoni, la nutrizione enterale raggiungeva l’intestino attraverso la PEG, l’urina veniva raccolta nella sacca attraverso il catetere vescicale perché noi potessimo misurarla e calcolare il bilancio dei liquidi, mani pietose la pulivano quando andava di corpo, l’aspiratore rimuoveva le secrezioni bronchiali che lei non riusciva a espellere con la tosse e la saliva che non riusciva ad inghiottire, altri dovevano allontanare le mosche che d’estate si posavano sul suo viso e la grattavano quando forse aveva prurito.
Chi voleva parlare con lei o guardarla negli occhi doveva allungarsi sul letto e portare il viso sopra il suo perché non riusciva più a eseguire i movimenti di lateralità del capo.
Come si sentiva, cosa pensava, nessuno di noi poteva saperlo. Il marito ha continuato a leggerle il giornale tutti i santi giorni ma alla fine non sapeva più se lei gradiva, se ascoltava e se capiva.
Lo sguardo nel tempo si era spento, gli occhi erano diventati vitrei. Era un corpo sul quale ogni giorno si andavano a misurare la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca, la temperatura, la diuresi, il bilancio dei liquidi, le calorie introdotte.
Tutti ardentemente avremmo voluto leggere, conoscere i suoi pensieri, ma la situazione non dava strumenti di lettura.
Si potrebbe pensare che la risposta era semplice se solo ci si fosse fermati a chiedersi:
– Ma io al posto suo cosa avrei desiderato?
– Ma siamo proprio sicuri che ciò che vale per una persona vale per tutti e che ciò che vale oggi vale anche per domani?
Ha ragione chi enfatizza il valore dell’unicità degli esseri umani. Il più grande valore di ogni uomo sta nell’essere unici ed irripetibili. Proprio per questo non si può affermare che ciò che va bene per una persona può e deve andare bene per tutte le altre.
Io so cosa vorrei per me nella condizione di Maria. Vorrei che la mia volontà venisse rispettata e penso debba essere rispettata la volontà delle persone che la pensano diversamente da me. Non esiste la ragione di uno che deve valere per tutti gli altri.
Ma c’è un grosso problema da risolvere.
Come capire la volontà delle persone che non sono in condizioni di esprimerla?
Spetta al medico decidere? Al magistrato? Ai parenti?
O piuttosto ognuno di noi deve poter decidere del suo destino quando è in condizioni di decidere, per quando non lo sarà più e se dovesse cambiare idea lo può sempre fare?.
Non è stato di grande aiuto il dibattito che in quel periodo si andava sviluppando sui temi cosi detti eticamente sensibili.
Ho cercato conforto nei documenti emanati dal comitato nazionale di bioetica, nella Costituzione nella convenzione di Oviedo ma soprattutto nel codice di deontologia medica. Ho letto anche l’Enciclica Evangelium Vitae cercando lumi, ma questa è utile per chi crede che la vita l’abbiamo avuta in dono e solo Dio ne può disporre. In quei giorni, ognuno ha detto la sua avendone o no titolo e cultura scientifica. Molta confusione sui termini e sul senso da dare alle parole. Cos’è l’accanimento terapeutico? La nutrizione artificiale è un atto medico o assistenza? L’astensione da terapie invasive, nel rispetto della volontà del paziente, quando questo non ha più speranza cos’è? Eutanasia nelle varie declinazioni, attiva, passiva, omicidio del consenziente, suicidio assistito. Qualcuno è persino arrivato a mettere in discussione il concetto di morte e di stato vegetativo permanente. In questa nostra povera Italia, si rischia di avere una morte di destra e una di sinistra così come uno stato vegetativo di coalizione.
Quello che manca un po’ a tutti è la compassione, intesa come partecipazione affettiva alla sofferenza del malato senza speranza. Manca ai politici e anche agli uomini di chiesa troppo vincolati ai codici delle caste di appartenenza. Manca anche a molti medici. E’ più facile fingere di non sentire quando è il tuo turno e sperare che qualche altro senta per tutti al turno successivo. Ma la notte, quando si rimane soli con la propria coscienza e ci si chiede – cosa avrei voluto io al posto di Maria – come si fa a dormire tranquilli se hai finto di non sentire?

Malanotteno

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lost in translation

Posted by Morris on gennaio 09, 2010
racconti / 3 Commenti

Mio nonno Mario era un marinaio; o meglio, lo era stato negli anni della guerra. Faceva il macchinista sui sommergibili, e non parlava volentieri di quella esperienza.
Ma in quegli anni aveva maturato un amore per il mare che era durato per tutta la vita e una refrattarietà ai lunghi discorsi. Certi anni durante l’estate ospitava noi nipoti a un capanno da pesca che aveva in riva all’Adriatico, e anche noi bambini eravamo sottoposti alla disciplina marinaresca; non ci toccavano l’alzabandiera ed i comandi col fischietto, ma quasi. Era un uomo molto burbero ed incazzereccio, scettico a priori sul genere umano (l’aggettivo con cui più spesso lo sentivo definire una persona era “cl’imbazel”, quell’imbecille), ma talora capace di slanci sorprendenti.
Come quel giorno di fine estate in cui stavamo aiutandolo a portare le sue cose lontano da riva, perché si stava preparando una burrasca coi fiocchi.
Avevamo già tolto dalla barchetta con cui stendeva le reti “da imbrocco” i remi e tutte le parti rimovibili, portandole al capanno, e così alleggerita ci preparavamo a tirarla in secca quando notammo un assembrarsi di gente sulla riva che vociava e indicava al largo. Guardai nella direzione indicata e mi si drizzarono i capelli in testa; in lontananza, in mezzo a un mare teso dal vento di terra e ormai del colore del piombo, un uomo nuotava affannosamente rincorrendo un materassino rosso e blu, in volo sul pelo dell’acqua venti metri davanti a lui.
” E’ un tedesco, il vento gli ha portato al largo il materassino e quel patacca, anziché lasciarlo andare si è intestardito a riprenderlo”.
A quel tempo non c’erano, come adesso, bagnini tecnologici con l’acquascooter. Si poteva contare solo sul moscone rosso, e tornare indietro a forza di braccia con quel vento contrario sarebbe stato una bella rogna .
Mario non ci pensò su due volte. Avevamo smontato il fuoribordo dalla sua barchetta, ma non lo avevamo ancora portato al capanno. Lo rimise a posto avvitando i morsetti con due giri secchi e svitò il tappo del serbatoio, leggero in maniera inquietante. In fondo al contenitore sciacquettava un misero residuo di miscela.
“Nonno, devo andare al capanno a prenderti la tanica della benzina e i remi?”, chiesi.
” Si, così intanto cl’imbazel us’ anega” fu la risposta. Senza dire altro, Mario girò la barca, avviò il vecchio Mercury con uno strappo e si diresse verso il bagnante, ormai un puntino al largo. Raggiuntolo, lo fece salire a bordo e affrontò il ritorno con il povero 4 cavalli che ansimava per vincere il mare contrario.
Per fortuna la miscela bastò.
Giunsero a riva assieme con le prime gocce di pioggia. Il tedesco, stremato, fu abbracciato dalla moglie; nello scambio di parole con lei, mi parve però dall’intonazione di capire che fosse arrabbiato. Con un evidente imbarazzo il bagnino ci tradusse: ” E’ incavolato perché non è riuscito a recuperare il materassino….”.
Mio nonno alzò gli occhi al cielo e commentò lapidario: “A certa gente è più facile mettere qualcosa “int’e cul che non in testa”, e con questo chiuse la faccenda senza ulteriore superfluo uso di parole.
Una cosa che mi è sempre piaciuto del mestiere del medico è spiegare le cose; il chiarire le dinamiche del nostro corpo, il come “si guasta”, come dovrebbe funzionare una terapia è per me sempre un piacere, e nel farlo, soprattutto con i nostri anziani, mi giovo spesso del dialetto che grazie a tutor di madrelingua come Mario padroneggio bene.
Ciò nonostante talvolta ho la sensazione di parlare una lingua straniera, e quando dopo un bel discorso fatto evitando il più possibile tecnicismi, sigle e i termini anglosassoni tanto di moda mi sento rispondere “Eh?” da uno che mi guarda come un marziano appena sbarcato dal disco volante, mi prende lo sconforto.
Alcune notti fa mi capitò di essere chiamato in Reparto al capezzale di un’ anziana signora con una demenza vascolare, ricoverata per un focolaio broncopneumonico; la paziente, nonostante la terapia in corso, respirava con grande difficoltà, con uno spiccato broncospasmo. A rendere più difficoltoso il tutto, lì a fianco si trovava la figlia, agitatissima, che “esigeva” che si facesse subito qualcosa per la mamma. Scorrendo la cartella, alla voce allergie farmacologiche, trovai, orrore , un “allergica al cortisone”, che il collega redattore del documento aveva comunque cercato di mitigare con un punto interrogativo fra parentesi. Che lui per primo non fosse convinto dell’allergia lo testimoniava il fatto che la signora si stesse facendo da alcuni giorni uno steroide inalatorio. Interrogata su questa presunta intolleranza, la figlia fu categorica: “Ah, no, non lo può proprio fare, è allergica: una volta che lo ha fatto è diventata tutta rossa in faccia e le è salita la pressione!”
Indossando la mia miglior faccia tipo “maestro-elementare-che-spiega-le-divisioni-all’alunno-zuccone”, partii a spiegarle che quella non era un’allergia, erano effetti collaterali dipendenti dalla dose somministrata, dal tipo di cortisonico, perfettamente controllabili e comunque sicuramente quasi irrilevanti in una situazione grave come quella attuale. E poi , scusi , se la signora fosse veramente allergica, il cortisone non potrebbe farlo neanche per aerosol…
“Ah – mi sentii rispondere – ma quello lì non è mica cortisone sul serio!”
Sospirai, e con calma risposi che in ogni caso eravamo in un ospedale, che avremmo potuto gestire l’eventuale rialzo di pressione (in quel momento la paziente era anzi ipotesa), e che in definitiva mi prendevo io la responsabilità. La figlia brontolò qualcosa, ma finalmente diede il via libera; e così, dopo un oretta di attenzioni e cure fra le quali era compreso anche un bel boletto di idrocortisone, finalmente potei lasciare la signora con una obiettività e dei parametri decisamente migliorati.
Forse non saremmo andati molto in là, ma sicuramente avremmo passato la notte, che poi in fondo è l’inconfessato obiettivo di quasi tutti i medici di guardia.
La mattina, prima di smontare, mi andai a rivalutare la paziente: i parametri, riferitimi dall’infermiere erano soddisfacenti. Quando però entrai in stanza, dove la signora dormiva tranquilla con un respiro abbastanza regolare, ebbi un sobbalzo. La figlia, dopo aver passato la notte a fare assistenza, era tornata a casa a riposare. Non prima però di aver lasciato, a testimonianza che per quanto potessi aver detto o fatto non ero riuscito a convincerla, un post-it giallo attaccato alla testata del letto su cui era scritto, a lettere tutte maiuscole: “ALLERGICA AL CORTISONE! NON SOMMINISTRARE!!!”.
Oh, Mario, vecchio marinaio, quanto avevi ragione!

Morris

l’elisoccorso (seconda parte)

Posted by Herbert Asch on gennaio 03, 2010
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“l’uomo catarifrangente scese
dalla sua carrozza bianca illuminandola
di una luce azzurrissima, si avvicinò
gli disse ora cura di te mi
prenderò”

Max Pezzali – La volta buona

Ricordo però ancora adesso perfettamente come il giovine specialista che ero vent’anni fa non vedesse l’ora di mettere alla prova il suo ardimento.
Da agosto di quell’anno erano iniziati i turni del servizio di elisoccorso, ma riservati solo agli specializzati, e anche se lavoravi già da qualche anno (allora era possibile) l’accesso ai mitici turni non era possibile senza la specialità.
Ma alla sessione di ottobre di quell’anno, alè, eccomi specialista.

Finalmente potevo entrare anch’io nel Grande Circo dell’emergenza: ultima frontiera rimasta, terra dei gesti estremi e delle terapie eroiche, dove si Salvano le Vite Umane e non si guarda in faccia nessuno, dove si Intuba, si Incannula, si Defibrilla, friggendo e trafiggendo in tutti i modi e da tutti i buchi quel san Sebastiano di Paziente da Salvare. Dove si arriva in elicottero (vero Deus ex machina!) e si corre a Sirene Spiegate sulle Ambulanze.

Dove si lavora fianco a fianco con tutti gli altri Supereroi, Carabinieri, Vigili del Fuoco, Polizia, Protezione Civile, Guardaparco e Vigili Urbani, pardon, Polizia Municipale e poi l’arcobaleno delle croci Rosse, Verdi, Bianche, Gialle, Oro, Azzurre, e poi le Misericordie, i Samaritani ed i Cavalieri di Malta, tutti con le loro Superdivise ed i Superattrezzi, come nei fumetti giapponesi.

Superate alcune incombenze, tipo il matrimonio, il viaggio di nozze, l’allestimento della casa nuova, eccomi alla ricerca dell’aggancio per entrare nel giro.
Attivo radio flebo, il tam-tam sempre attivo tra gli specializzandi, chi gestiva la cosa di fatto pareva fossero gli anestesisti del Policlinico e quelli del Paride Campari, (un ospedale di zona), in particolare un tale Scèspir.
– Quello delle commedie? –
– Ma no, fa l’aiuto al Campari, però puoi provare a parlarne al Megaprofessore del Policlinico prima, se lui è d’accordo non c’è problema –
– già, ottima idea –
Peccato che parlare al megaprofessore non era così semplice.

Al Policlinico conoscevo un paio di Aiuti, che non sapevano come si scrivesse Scèspir, lo conoscevano appena, ma sapevano come potevo “casualmente ” incrociare il Megaprofessore. Vieni, mi dissero, alle 7.30 all’inizio seduta. Passa sempre a quell’ora poi… insh’allah.

In quelle sale un pochino mi conoscevano, avevo frequentato per tre mesi  non da molto. Quel mattino sono arrivato alle sette e un quarto, non troppo presto, per non aspettare fuori, il giusto per entrare con gli infermieri di seduta. Sapevo come entrare, dove cambiarmi, cerco la mia conoscenza in sala, mi affianco a lui e aspetto vigile.
Mentre aspetto gli chiedo se conosce Scèspir.
Ma, il mio contatto è troppo giovane, si è specializzato l’anno prima di me. No, non conosce. No non sa come si scrive, si scriverà così come si pronuncia, no?.. ci rinuncio.
Dopo poco arriva il Megaprof, faccio in modo di incrociarlo casualmente in sala, e, chiedo se fosse stato possibile parlare un attimo con lui.
– Certo caro, solo che oggi non riesco, passa in Istituto domani verso le 10.-

Il giorno successivo era già lì alle 9.30.
In istituto incontro un’altra conoscenza di qualche tempo prima, con cui avevo fatto un po’ di gavetta nelle sale del Pronto Soccorso. Ma neanche lui sa come si scrive Scèspir, si…lo conosce, ma…
Poi il Megaprof arriva e mi fa entrare nello studio. Una volta sentito il problema mi fece nell’ordine:
una testa così su tutte le cose che dovevo sapere,
un pistolotto sulla necessità, prima di intraprendere altre attività, di fare una salda gavetta di almeno due anni di sala operatoria
– sono quasi tre anni che lavoro, professore – esagero.
una manfrina tenace sulle abilità necessarie
– ma nel mio ospedale ho già visto parecchi traumi gravi, sa…-

quindi mi regala, togliendolo dal cassetto della scrivania come cosa preziosa, una copia di un suo libretto su come si fa l’Anestesia moderna.
– Grazie professore! lo cercavo da tempo, ma non ero mai riuscito a trovarlo!- mento.
E poi… mi rimanda comunque all’aiuto del Campari.
Era ora di andare, il colloquio era finito.
Mi alzo, ringrazio il professore.
– Solo una cosa, professore. –
rimaneva l’ultimo, pesante dubbio.
– Dimmi caro –
– Scèspir… come si scrive? –

Herbert Asch

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