Ho incontrato G. al terzo anno, docente di Area Critica ed Emergenza. Lui è uno dei miei Medici, e soprattutto, uno dei miei Maestri. Sempre gentile, mai brusco, perennemente pronto a difendere la causa di chi si guadagna da vivere maneggiando cateteri e padelle (o almeno così pensa il pubblico…). Mio relatore di tesi, rappresenta il mio gancio per entrare a lavorare nel reparto di Terapia Intensiva del mio Ospedale. Da allora è passata diversa acqua sotto i ponti.
E’ un bel pomeriggio di giugno quando dal 118 arriva la richiesta di usufruire del nostro posto letto per un ragazzo di 23 anni precipitato da 10 metri. Marco, per l’appunto.
Marco è sempre stato triste, ce lo dicono i genitori. Fin dall’adolescenza soffre di una grave forma di depressione, dominata con difficoltà dai farmaci. Ha minacciato il suicidio più volte, senza mai provarci. Marco ha una sorellina. Oggi sembrava che fosse su di giri: dice al papà che gli piacerebbe fare una passeggiata con lui, quando rientra dal supermercato. Mentre il padre si avvia, Marco esce sul balcone e si butta.
I soccorsi sono tempestivi: l’equipe dell’elicottero arriva immediatamente, l’evento è pressoché di fronte all’elibase.
In ospedale Marco arriva intubato, con la pressione più bassa del suo umore. Mentre i ragazzi della CRI lo passano dalla barella al lettino della shock room, Marco va in arresto. F., del Trauma Team pratica una toracotomia resuscitativa ed una splenectomia che sono seguite da un invio a razzo in sala per una revisione chirurgica ed un emostasi più approfondita. Il tutto coronato da un angiografia intraoperatoria che non evidenzia altri sanguinamenti.
Marco entra in reparto alle 15:00; prima del rumore dell’ambu, il monitor GE ci informa con il suo laconico “BEEEEEEP” che la PA è molto bassa (50/–). La linea verde dell’ECG danza veloce sotto il nostro sguardo: tachicardia sinusale, FC 150 bpm. La PVC è bassa, emoglobina e crasi ematica fanno ridere i polli, mentre a toccarlo Marco sembra un ghiacciolo. Le due anestesiste-galline della camera operatoria se la ridono e se la raccontano mentre spingono il mobilizer della CO. I loro risolini isterici non riescono a coprire la tensione e a mascherare il problema: se Marco è ipoteso, loro non sanno perchè. Nulla di cranico, niente di mielico. Perdite intraoperatorie corrette. Nulla dal drenaggio in emitorace sinistro.
Now, it’s our job: PiCCO, riscaldamento, gasanalisi venosa e arteriosa, lattati, emocromo, funzionalità epatica e renale, coagulazione, TEG, riscaldamento attivo, 7 french in femorale e Voluven come se piovesse. Con il consueto “savoir faire” G. coordina: adrenalina a 20 ga/kg, nora idem, vasopressina… non cambia un tubo. L’assetto emodinamico è pessimo: l’indice cardiaco è depresso, le resistenze inesistenti. L’ecocardio mostra un cuore complessivamente ipocinetico. Non pnx iperteso o tamponamento. Massa nobile a non finire, coagulopatia trattata come da manuale e anche di più, grazie al VII ricombinante. Tentiamo provvedimenti quasi fantascientifici: vasopressina, idrocortisone.
Mentre qualcuno dice ECMO, V. propone di lasciarlo andare. Voleva morire, c’è praticamente riuscito. Non accaniamoci. Ma G. no, proprio non ce la fa a lasciare andare quello che fino a ieri era un bambino. Si legge nel suo sguardo.
Andiamo avanti, l’addome si gonfia sempre di più. La IABP sempre più alta. Sanguinamento a nappo, dicono i chirurghi. Sarà, ma in quella Marco inizia a buttare anche dal drenaggio toracico, andiamo in emorecupero. Al monitor la stessa fotografia di ormai ore prima: 150 di frequenza, 50 di sistolica. 20 i lattati. Midazolam e remifentanil scendono lentamente erogati dalle pompe siringa nel tentativo di proteggere Marco dal nostro accanimento, nel senso buono del termine.
Sono passate 6 ore. Richiamiamo i chirurghi. Fino ad allora G. si era espresso parlando al plurale: “facciamo questo, istituiamo quell’altro…”. La mia collega L. è sfatta, anche S., stoico per anzianità e per credo, accusa i colpi del fallimento. Poi, ad un certo punto, intorno al letto, G. dice “Ragazzi, adesso vediamo se i chirurghi possono metterci mano: diversamente, STACCO tutto”. F., il chirurgo, dice che in sala con 50 di pressione non ce lo può portare. G. concorda e incassa, sempre più curvo, sempre più tirato. Si avvicina a noi e ci dice: “Ragazzi, basta”. Spegne le pompe della nora, dell’adrenalina, della vasopressina. Ferma i liquidi e il sangue. Passa Marco in pressure support, a FiO2% 21%. Aumenta Ultiva e Ipnovel. Ha gli occhi lucidi. Mi avvicino, e lo aiuto a spegnere, a chiudere. Non può, non deve, non vuole sopportare tutto questo da solo.
Mi tolgo i guanti, prendo la mano di Marco, lo accarezzo sulla testa fino a quando il monitor GE inizia il suo concerto di allarmi. E’ finita.
In corridoio devo avere più o meno le sembianze di un lombrico. G. mi fa una carezza sulla nuca, ha quasi l’età per essere mio padre.
“Andiamo a fumare?” Ma si, proviamoci, anche se oggi mi sa che una sigaretta e qualche lacrima non bastano a lavare via tutto ciò che ci è arrivato addosso.
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