Archive for aprile, 2010

biglie

Posted by Giramondo on aprile 29, 2010
cronache / 4 Commenti

Ero così felice.
E devo ammetterlo, anche un po’ orgoglioso.
In questo Ospedale in Pakistan, in una città vicino al confine con l’Afghanistan,
sono arrivato da circa due mesi.
Quella mattina ero felice.
Durante il giro dei reparti, anche un po’ forzando la rigida separazione tra uomini e donne che vige in queste terre, avevo preso per le braccia Shaiza, una ragazzina di 12 anni che avevo operato due settimane prima, e l’avevo messa fuori dal letto a camminare.
Che gioia !
Shaiza era arrivata in Pronto Soccorso di notte, dopo un viaggio di una decina di ore, con una profonda ferita alla testa in regione parietale destra del diametro di
4 centimetri in seguito ad un bombardamento che, come effetto collaterale, aveva colpito anche il suo giardino di casa.
Glasgow Coma Scale di 9, pupille isocoriche isocicliche, materia cerebrale che fuoriusciva dalla ferita e, dato clinico che non quadrava con la ferita a destra, una emiparesi di tutto il soma di destra.
Parlo con i Parenti per avere il permesso per la craniotomia.
Pianifico Rx del cranio (non c’e’ la TAC…) e poi sala operatoria.
Alla radiografia capisco il perché dell’emiparesi destra:
Shaiza ha 2 biglie di acciaio in testa; una in regione parietale destra, e l’altra che ha attraversato tutto il cervello e si è impiantata nella profondità della materia cerebrale del lobo parietale sinistro, irrangiungibile.
Eseguo una craniotomia destra: estraggo la biglia di destra che è rimasta superficiale, rimuovo un po’ di teca cranica per evidenziare la lesione della dura, riparo la dura con un “patch” di fascia del muscolo temporale.
Tracheotomia per facilitare l’aspirazione delle secrezioni in reparto (non ci sono comunque ventilatori; anzi, non esiste una terapia intensiva).
Mi soffermo sulla biglia: una sferetta di acciaio di circa 5 mm di diametro.
Dalle nostre parti si trovano nei cuscinetti a sfera.
Mi viene in mente che quando ero ragazzino io biglie così le usavo per giocare al campetto sotto casa a ” buca”, a “galletto”… strane associazioni.
Lo stesso oggetto io a 12 anni lo usavo per giocare.Ho chiesto: si chiamano bombe a frammentazione.
Vengono lanciate da aerei o da elicotteri.
Ogni bomba contiene centinaia di biglie così, e quando esplodono vengono sparate come proiettili in tutte le direzioni.

La ragazza nei giorni seguenti progrediva giorno per giorno.
Abbiamo potuto rimuovere la tracheotomia dopo 5 giorni.
Si nutriva per bocca.
E, incredibile, aveva recuperato la motilità dell’arto inferiore destro grazie a un grande lavoro dei fisioterapisti.
Permaneva una marcata astenia dell’arto superiore destro, che però migliorava lentamente.
Niente febbre. Glasgow 15.

Ecco, quella mattina vederla mangiare, parlare e camminare era felicità.

Dopo due notti mi hanno chiamato che improvvisamente ha avuto un arresto cardio-respiratorio.
Sono arrivato in Ospedale e ho potuto soltanto constatare che era morta.

Probabilmente la biglia rimasta nell’emisfero di sinistra ha fatto sanguinare qualche vaso… non lo saprò mai.
Ho provato a spiegare alla madre che era presente: ma come si fa a spiegare una morte che nemmeno io capisco?

Ho imprecato dio (con tutti i suoi nomi).

Mi sono rimangiato la felicità.

E mi sono dato del coglione per l’orgoglio.

Giramondo

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Haiti, oh cara

Posted by Morris on aprile 20, 2010
pensieri / 1 Commento

I turni di guardia notturna sono spesso un occasione per portare avanti un po’ di lavoro che altrimenti durante il giorno non ci sarebbe tempo o voglia di affrontare. Ci sarebbe quella procedura interna da aggiornare, ci sono da preparare le statistiche semestrali sulle infezioni ospedaliere, ci sarebbero… E in genere ti dici sempre, beh, ci penserò la prossima sera che sono di guardia se il reparto è tranquillo.
Questa è una di quelle sere, e sto smaltendo con una certa rapidità le mie scartoffie.
Bene, mi sono meritato un caffè, la macchinetta è qui vicina, e anche se emette una broda ignobile ormai ci sono assuefatto.
Con il bicchierino fumante in mano, torno al computer e vado a cercare su Internet le ultime notizie.
Sono passati pochi giorni dal terremoto ad Haiti, e, smaltita la sbornia iniziale dei media, le notizie sul dopo-sisma sono ormai diventate più scarne. Vado sul sito On-line di un noto quotidiano e la notizia di punta, a tutto schermo è: “Brad e Angelina si lasciano! Tutti i particolari!!”.
Un po’ più sotto, con grande rilievo: ” Perché il Tal dei Tali è stato eliminato da “Amici”: tutti i retroscena segreti!!”.
E quindi, con ampio rimando nei servizi sportivi, il sobrio commento sulla vittoria di un gruppi di strapagati signori in braghette su un altro gruppo di strapagati signori in braghette (” EROICI!!!!”).
Le notizie da Haiti sono su un link piccolino a fondo pagina (“Incertezza sul numero delle vittime: 75000? 100000?150000?”, e chi se ne frega, sembra di capire dal tono); un’altra notizia, è data con più risalto: “Scandalo! Medici ad Haiti mettono su Facebook foto choccanti!” (eh, signora mia, dove andremo finire).
Seguono alcune delle foto scandalo, in cui si vedono alcuni dei medici in questione, inviati da Portorico per contribuire ai soccorsi, che bevono birra, si producono in atteggiamenti goliardici, impugnano fucili a pompa.
Certo, sono foto che viste così non fanno un bell’effetto, ma poi mi chiedo: se noialtri, abituati alle nostre corsie asettiche, ai nostri ritmi costanti, alle nostre belle flow chart decisionali si/no, ai nostri “Mhhh… prima di operare voglio il via libera dell’anestesista-voglio il via libera del cardiologo-voglio un’altra Tac-voglio 5 sacche di O negativo”, ci trovassimo catapultati dall’oggi al domani lì, in un Inferno che fa sembrare al confronto una linda clinica svizzera l’ospedale da campo della Wehrmacht a Stalingrado, come reagiremmo? Non capiterebbe anche a noi di avere atteggiamenti cinici, o di fare cose stupide per allentare la tensione, per non impazzire?
Ma no, queste cose non si fanno: ormai siamo talmente convinti che la realtà virtuale che ci siamo costruiti sia il mondo vero da pensare i medici e gli infermieri devono per forza essere come quelli di E.R., i poliziotti come Montalbano, i professori come Mr. Chips e che la vita è un enorme villaggio vacanze in cui gli altri sono animatori o camerieri al nostro servizio.
L’invecchiare, l’ammalarsi, il morire, non sono entità contemplate, almeno per noi. Gli altri… beh, gli altri sono gli altri (e a loro penserà qualcun altro).
Giusto in tempo per interrompere le mie riflessioni prima che vadano troppo in là, entra nello studio uno dei nostri infermieri, uno in gamba, con una cartella in mano.
“E’ della 306A, una signora di 93 anni con neoplasia gastrica e carcinosi peritoneale. I familiari vogliono parlare con un medico perché non la vedono bene e sono preoccupati”. C’è un attimo di silenzio. Mi guarda in faccia, e capisce parola per parola quello che sto pensando.
“Faccia con calma, dottore, quando ha un attimo…”
“Cinque minuti, Marco. Cinque minuti e sono da loro”.

Morris

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il cappotto blu (frammenti di memoria)

Posted by Garganico on aprile 12, 2010
racconti / 1 Commento

Durante le ultime festività e dopo numerosi tentativi miseramente falliti, ho trovato un po’ di tempo per sistemare la mia vecchia e polverosa soffitta piena di tante cose, tutte assolutamente inutili, che, chissà perché, non hanno mai trovato la loro collocazione terminale definitiva.
In uno scatolone ben chiuso ho trovato un vecchio cappotto di colore blu, con il bavero completamente consunto e logoro, che ho fatto fatica a riconoscere: ecco dov’era finito il compagno di tante notti passate insieme durante il servizio di guardia medica sul territorio svolto da neolaureato.
A pensarci bene non so quanto tempo è passato. Forse venticinque anni, forse di più. Sicuramente nella memoria sembra in un’altra epoca, in un’altra era, un secolo fa. Il ricordo chiaro e lucido è per il mio cappotto blu, pesante, con un collo ampio, che, alzato, mi riparava e mi proteggeva dal gelido clima delle notti invernali della periferia torinese. Con me i miei pochi strumenti di lavoro: il fonendo, lo sfigmo, una pila, dei farmaci, un ricettario. Ero laureato da poco tempo e per un neolaureto, in quel periodo, c’era la possibilità di fare il medico frequentatore volontario in qualche reparto ospedaliero e sperare in qualcosa o in qualcuno, oppure iniziare a darsi da fare in prima persona mettendo a disposizione le poche nozioni apprese all’università. Scelsi di fare entrambe le cose. Di giorno il medico volontario, pulito, elegante. Di notte il medico di guardia medica in una delle zone più degradate e difficili della periferia torinese. Il medico di frontiera, come amavo chiamarmi. Ero l’istituzione sanitaria a cui di notte tutti potevano rivolgersi per qualsiasi motivo, anche non medico. L’ASL di competenza metteva a disposizione del coraggioso sanitario per le visite domiciliari una 126 con i finestrini rotti e bloccati in fase di apertura, che la rendeva per questo motivo assai simile a una moto. Per questo, forse, il ricordo e l’amore indelebili per il mio superprotettivo cappotto blu. Come sede un garage, che funzionava anche come ambulatorio, dotato di una segreteria telefonica capace di accumulare decine di chiamate in pochi minuti. Si iniziava alle otto di sera, si finiva alle otto del mattino. Ogni notte era, per qualche motivo, indimenticabile. Gli utenti reclamavano il loro diritto ad essere visitati presto, velocemente e possibilmente bene.
Personalmente sono arrivato a farne più di cinquanta in un solo turno di queste visite “urgenti”, salendo e scendendo dalla 126, cercando vie sullo stradario, suonando a campanelli che spesso non funzionavano. Il mio cappotto blu mi proteggeva dal freddo e da qualche paura che inevitabilmente viene quando si lavora al buio, di notte, da soli.
Quella notte che i carabinieri di Orbassano mi chiamarono per una constatazione di decesso di un suicida nei boschi tra Stupinigi e Orbassano, infilai il mio cappotto blu, alzai il bavero a protezione non solo del freddo. Era buio veramente ed io i boschi di solito non li frequentavo neanche di giorno. Il viottolo era stretto, sconosciuto, impenetrabile. Per vedere meglio abbassai il bavero protettivo del cappotto. Non fu una buona idea perché subito dopo vidi la vecchia 126 lentamente scivolare sul lato destro della strada per fermarsi nella cunetta laterale. Per fortuna ero solo ammaccato ma intero. Come comunicare a qualcuno il mio incidente, la mia posizione, che ora avevo difficoltà ad espletare il compito per cui ero stato così prontamente chiamato? Diamine! Potevo ancora camminare e avevo anche la pila che di solito serviva per i riflessi pupillari. Allora in marcia. Si, ma, verso dove? Non si vedeva assolutamente nulla. In lontananza mi sembrò di intravedere un casolare. Mi diressi là. Dopo un po’ arrivai e fui veramente fortunato perché trovai un contadino che, senza troppe spiegazioni, tirò fuori il suo trattore e raggiunse la mia, ormai più vecchia, 126 rimettendola sul viottolo, e che, miracolosamente, era ancora in grado di procedere. Non so quanto tempo fosse passato ma mi rimisi alla ricerca di quel dannato posto per la constatazione del decesso del suicida. Finalmente nei meandri del bosco incontrai i carabinieri che mi salutarono cordialmente, mi ringraziarono e mi dissero che essendosi accorti che il suicidio era avvenuto nel territorio di Orbassano, avevano chiamato la guardia medica di quell’ASL e che le procedure burocratiche erano comunque state espletate. Mantenni apparente calma e professionalità e, nonostante il freddo, durante il ritorno, non provai neanche a proteggermi dai finestrini perennemente aperti. La segreteria telefonica, nel frattempo, aveva accumulato un numero imprecisato di messaggi registrati. Iniziai ad ascoltare il numero 1, il 2, il 3,il 4. Il messaggio numero 5 era un vero e proprio grido di dolore assoluto, un urlo che in quel garage semibuio avrebbe spaventato anche uno più coraggioso di me: “Dottore, dottore, per favore, faccia qualcosa! Durante il rapporto si è rotto il preservativo! Adesso siamo nei guai, abbiamo bisogno subito del suo aiuto! Ci dia qualcosa, la pillola del giorno prima o del giorno dopo, non so come si chiama, comunque faccia qualcosa!” Avevo ancora diverse chiamate da ascoltare, ma la disperazione di questo utente meritava sicuramente una pronta risposta. Così feci. Non chiedetemi cosa dissi a questa coppia. Non me lo ricordo chiaramente. Espletai le visite richieste, alcune delle quali in condomini dove la maggior parte dei campanelli erano bruciati e dove gli ascensori non funzionavano. Al sesto piano di uno di questi mi aprì un signore con una vistosa ferita sanguinante alla testa dicendomi: “Venga dottore, venga a vedere cosa ha combinato questo disgraziato!”. Il mio istinto mi suggerì di non muovermi, spostai solo leggermente la testa, ma fu sufficiente a vedere tutto il corridoio funestato di pezzi di vetro e oggetti di vario tipo con parte di un armadio reclinato su stesso. In fondo al corridoio si scorgeva un giovane sdraiato per terra con la canottiera inzuppata di sangue e con una mazza in mano. La persona che aveva aperto la porta e che sembrava essere il genitore continuava a ripetere: “Venga dottore, venga a vedere cosa ha combinato, faccia qualcosa!” Risposi di stare tranquillo. Non impiegai molto a raggiungere la 126, che sebbene avesse i finestrini rotti aveva il pregio di una messa in moto fulminea. Alzai il bavero del mio cappotto blu e mi recai alla stazione dei carabinieri pretendendo un accompagnamento a questa visita. I carabinieri indossarono a loro volta un cappotto blu e sorridendo dissero che loro quei due li conoscevano da tempo e che in effetti era meglio essere accompagnati. Nell’appartamento entrarono prima loro, poi io con la mia borsa da medico, mentre i due litiganti incuranti continuavano a fare e a dire di tutto. Feci una veloce medicazione e somministrai un sedativo ad entrambi, quindi chiamai due ambulanze, una per il padre che mandai al pronto soccorso di Moncalieri, l’altra per il figlio al pronto soccorso delle Molinette. Ringraziai i carabinieri che, chissà perché, a loro volta ringraziarono me. Mentre tornavo per l’ennesima volta al mio garage si intravedevano le prime luci del nuovo giorno e stringendomi nel mio cappotto blu pensavo che tutto sommato sarebbe potuto andare anche peggio. Non c’è mai un limite al peggio!
Alle otto con la barba lunga e il cappotto blu con il bavero ancora alzato ma vistosamente sgualcito, portai i registri e i ricettari negli uffici dell’ASL. Come al solito ero già in ritardo e anche quella mattina non avrei fatto in tempo a fare la barba. Gli impegni istituzionali di medico frequentatore volontario mi attendevano… ma questa è un’altra storia.

Garganico

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dottore, che Apgar mettiamo?

Posted by Rabuccia on aprile 03, 2010
cronache / 2 Commenti

L’ ostetricia extraospedaliera, chiamamola così, è sempre stata oggetto di grande timore per gli operatori del 118… ad un certo punto in una piovosa notte d’estate i timori stessi erano diventati cosa concreta…Sono passati tanti anni ma, con un piccolo sforzo, facendo riemergere i ricordi ed il loro sapore come faceva Proust con la sua madeleine nel the… ecco riaffiorare pienamente questo indimenticabile episodio…

Era ancora, per il sottoscritto, il periodo della specializzazione in Anestesia e a completamento ore svolgevo dei turni di 118 in montagna presso il servizio di P. L’attività non era particolarmente affaticante… i codici rossi erano pochi, l’ambiente giovane, e l’esperienza che si accumulava in sala operatoria dava garanzie di sempre crescente manualità… insomma lavoravo sereno con quel candido entusiasmo, quella santa voglia di fare e strafare che tutti noi conosciamo bene…

L’operatrice della centrale fa squillare il telefono in stanza alle tre e mezza di una notte d’agosto da tregenda in cui, proprio in quel momento, un temporale si abbatteva gagliardo su tutta la valle con un repertorio completo di lampi e tuoni…

Quello che nell’obnubilamento del sonno interrotto sentivo al telefono mi faceva subito accapponare la pelle: “C’è una ragazza che sostiene di essere sul punto di partorire nel bagno di casa a B. Alla fine del paese c’è una casa bassa sulla destra… Non sa più cosa fare… Non è venuta subito in ospedale perchè dice di aver nascosto la gravidanza ai genitori… Dottore, sembra quasi uno scherzo a dir la verità, ma bisogna andare a verificare. Tra l’altro ha chiuso il telefono.”

L’operatrice mi dà l’indirizzo completo. Il paese di B. è piccolo e dista dieci chilometri… Il posto è piuttosto semplice da raggiungere. Partiamo con l’ambulanza veloci ma senza troppa convinzione. C’erano stati diversi procurati allarmi provenienti da B. nelle settimane precedenti quindi… onestamente dentro di noi si sperava, soprattutto stavolta, nell’ennesimo scherzo…

Il pensiero di quello che ci poteva aspettare sul posto però aveva spento gli sbadigli molto rapidamente… nessuno apriva bocca… Si, beh dai l’assistenza al parto… più o meno sappiamo cosa fare…
“Hai preso la borsa da rianimazione pediatrica?”
“Si dottore”

Il tergicristallo dell’ ambulanza col suo scrin-scran seguiva in perfetta sincronia la rotazione della luce blu… le case dei paesi lungo la valle del B. sfilavano attraverso dai finestrini… e le facciate e sembravano arcigni spettatori intenti a guardare con dileggio dei concorrenti dilettanti intenti ad una gara troppo grande… Pensieri…

“Abbiamo il kit ostetrico in ambulanza?”
Il mio infermiere stavolta rispondeva con solo un grugnito di affermazione…

L’autista ad un certo punto rallenta, si ferma: “Dottore siamo arrivati. Deve essere questa la casa”
Mentre cercavamo il civico in mezzo allo scrosciar del diluvio, una figura si avvicinava spuntando dal buio dalla nostra destra. Un fantasma. Un lampo illumina la strada… Una ragazza bionda ed alta si avvicinava a noi con in mano un fagotto… In quel momento abbiamo capito che non si trattava affatto di uno scherzo. Scendiamo tutti dall’ ambulanza sotto la pioggia… “Sali, sali… presto…”

Dal fagotto spuntava quella che senza alcun dubbio era una placenta sanguinante…

“Ma cosa hai fatto…!” Non sapevamo cosa dire… La neo mamma era frastornata… e noi anche… “Partite subito che i miei genitori si svegliano…”

Non avevo dubbi: partiamo subito… Distendiamo la ragazza sulla barella. Prendo in mano il fagotto inzuppato di pioggia e e due occhioni azzurri mi fissavano accompagnati da uno di quei meravigliosi sbadigli che solo i neonati possono fare! Il mio infermiere mi fa: “Dottore che Apgar metto sulla scheda…?”

“Apgar?… si,si… ah… si… beh metti 9…!!!”

Apriamo il pacchetto ostetrico e senza pensarci troppo zac! due clamp sul cordone, taglio… controllo che la paziente non sanguini… il bambino non era neanche da aspirare in bocca. Un virgulto di vitalità… Comunicavo alla radio: “Rientro con parto espletato. Avvisate il pediatra reperibile. Neonato vivo con Apgar 9. Codice 2 per la madre”

Il bambino era splendido… Un maschietto biondino… Si guardava attorno con due occhi da aquilotto… Lo tenevo in braccio io… Lo asciugavamo per bene…

“Ma come è successo… perchè? Perchè così?”
“Ho nascosto per nove mesi la gravidanza. I miei me le avrebbero date… ed ora è nato in bagno… nel water… Ho chiamato col cellulare… non mi credeva quella del 118… Ma il bambino non voglio riconoscerlo… non so neanche chi sia suo padre…”

A quelle parole… beh non sapevo davvero cosa dire. Ho stretto il neonato più forte e ho pensato:
“Ce la farai… lo hai già dimostrato!”

In ospedale compilavo il modulo di assistenza al parto obbligatorio sotto lo sguardo incuriosito della ostetrica di turno… Il mattino dopo, smontando dalla guardia, mi recavo io personalmente a registrare la nascita nel comune di B. visto che nessuno si era fatto vedere. Il funzionario del comune che non aveva ben realizzato chi fossi… mi ha chiedeva con curiosità e stupore se ero il padre. “No, no lei scherza! Non sono io il padre ma un pò forse si…! E’ come se lo fossi”

Una notte-di-guardia un pò diversa… dolce ed un pò amara, come la vita.

Rabuccia

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