guerra

Manca qualcosa?

Posted by Giramondo on giugno 01, 2017
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foto di NC

foto di NC

La guerra in Afghanistan (quest’ultima intendo…) è iniziata nell’Ottobre 2001…
Sì lo so, mi sembra già di sentirvi… ma che palle questo qui con la guerra in Afghanistan, e ormai non ne parla più nessuno, e cosa c’è da dire ancora, il solito pacifista rompiballe…
ALT, fermatevi un momento.
Rilassatevi, tranquilli… dedicatevi questi 10 minuti per finire di leggere.
Nessuna retorica pacifista.
Nessuna argomentazione politica da proporre.
Sono solo un chirurgo che lavora da dieci anni in paesi in guerra, e circa la metà di questi anni li ho passati in Afghanistan. Volevo semplicemente condividere alcune descrizioni cliniche dell’ultima settimana di ammissioni nell’ospedale dove attualmente lavoro, nel sud dell’Afghanistan.
Vediamo un po’.
A un bambino di 10 anni ferito da mina manca una gamba.
Ad una bambina di 12 anni ferita da mina mancano le due gambe e la mano destra; in poche parole, se sopravvive, avrà bisogno per tutta la vita di qualcuno che la spinga in sedia a rotelle perché con una mano sola proprio non si può.
Ad un bambino di 15 anni ferito da schegge di un missile mancano entrambi gli occhi; avrà bisogno per tutta la vita di qualcuno che lo aiuti a fare tutto.
A un bambino di 14 anni mancano una gamba, l’ano ed il pene, portati via da una mina; adesso però in più ha una colostomia ed un catetere sovrapubico che porterà per tutta la vita.
Ad una bambina di 4 anni (quattro anni) manca la parola: un proiettile le ha portato via lingua e mandibola ma le ha regalato una tracheotomia per respirare ed una gastrostomia per nutrirsi.
Anche ad un altro ragazzino di 16 anni manca la parola. A lui però la pallottola ha portato via il cervello temporo-parietale sinistro con l’area di Broca: è arrivato in pronto soccorso con la materia cerebrale che colava sulla barella e sul pavimento. Il suo Glasgow Coma Scale era 10, per cui abbiamo chiuso la sua ” dura mater ” con un bel patch di fascia lata della coscia; andrà a casa così: muto, parlando con gli occhi e paretico a tutto l’emisoma destro.
Diciamo che questi sono solo pochissimi casi di questa settimana; le ammissioni giornaliere variano dalle 5 alle 15 al giorno, ogni giorno; vengono ammessi solo ed esclusivamente feriti di guerra. Fate il conto in un mese, fate il conto in un anno.
Questo Ospedale ha 90 letti… sempre pieni.
Questa guerra, dicevo, dura ormai da 16 anni ( più o meno tre volte la durata della Seconda guerra mondiale, tanto per capirci ).
Alle persone che vivono qui cosa ha portato ?
Sono PERSONE, come me, come te che mi leggi. Sono esseri umani.
Sono bambini, bambini normali… bambini come tutti i bambini.
Manca qualcosa? Manca il senso di appartenere tutti alla stessa famiglia umana.
MANCA UMANITÀ.
NON C’È NESSUNA PIETÀ.

Giramondo

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Nuovo ricovero

Posted by Midiego on maggio 01, 2015
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Foto di MV

Foto di MV

Entra in reparto un barella, accompagnata da mascherine di protezione, è la prima cosa che noto, si accende il dubbio… Sulla barella spiccano oltre la mascherina un paio di occhi, di quelli che noi occidentali non possiamo permetterci. Un insieme di ossa raggruppate da un velo di pelle, una voce flebile imbarazzata, e lo sguardo sperso, impaurito. Non parla italiano, ne’ inglese, ne’ francese, ma una lingua che viene da lontano, talmente radicata nelle sue origini che prende il nome dal proprio popolo. Il traduttore c’è e mi aiuta a capire chi mi trovo davanti, almeno in senso clinico.
È quello che viene dopo che fa la differenza.
Costretto in isolamento dentro una stanza, solo, sento per lui l’ulteriore discriminazione che si aggiunge a quella che c’è già in giro, come se non bastasse. Porta sulla pelle i segni della guerra, le cicatrici dell’imposizione di presunti valori e regole che non appartengono a nessuna morale se non quella che segue la follia umana. Nella banale intimità del corridoio mi racconta a gesti e improvvisate parole come la baionetta gli abbia trafitto il torace, il calcio del fucile ferito la fronte, le percosse e le cinghiate abbiano segnato in realtà soltanto quel velo di pelle..
La verità è che hanno compromesso definitivamente orgoglio, anima, cuore, sentimento, dignità, diritti.
La verità sono gli otto mesi di cammino a piedi dall’Afghanistan all’Italia, e i suoi compagni morti di stento, con dentro agli occhi soltanto più la speranza di quel cammino.
La verità sono i suoi fratelli minori uccisi a colpi di kalashnikov, i suoi figli e sua moglie rinchiusi in casa per non cadere sotto i cecchini.
La verità sono i valori di una religione antica, manipolati per seminare terrore tra la gente, una guerra tra i poveri.
La verità traspare da quegli occhi.
Che alla fine su quel letto d’ospedale siamo poi tutti uguali senza distinzione alcuna.
Che fermarsi ad un pregiudizio, non ne vale mai la pena. Mai.

Midiego

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per una brocca d’acqua

Posted by Rachele on gennaio 28, 2011
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E’ una bella mattina di sole quando le donne della famiglia si recano al serbatoio d’acqua in cima alla collina. Ma qualcuno vede in questa madre e i suoi figli un obiettivo militare, come se fosse così difficile distinguere una famiglia afgana da un gruppo militari armati… e così parte il missile con il suo carico di morte e distruzione e nel giro di un attimo distrugge una famiglia. Due bambini muoiono sulla collina, la madre e 4 figli vengono trasportati all’ospedale di Emergency.
Tre sorelle dai 5 ai 10 anni appaiono subito molto gravi. La più piccola è in coma perché i frammenti dell’esplosione le sono penetrati in testa e nell’addome, le due più grandi sono in shock per i frammenti penetrati nel torace e nell’addome.
Comincia la solita corsa in sala operatoria per cercare di strappare alla morte chi è troppo giovane per morire così, per una brocca d’acqua in una bella giornata di sole… Si mobilitano i chirurghi, si attivano gli anestesisti, il laboratorio per il sangue. Le tre sorelle vengono operate: una per una toracotomia d’urgenza, l’altra all’addome e la terza per un intervento alla schiena nel tentativo di evitarle la sedia a rotelle a vita. I frammenti dell’esplosione sono anche penetrati nelle gambe e nelle braccia delle tre bimbe e i chirurghi con pazienza rimuovono i tessuti distrutti e le schegge.
Le due ragazzine più grandi si svegliano nella terapia intensiva di Kabul, si guardano intorno, chiedono della madre, anche lei ricoverata nel nostro ospedale, chiedono quell’acqua che è quasi costata loro la vita. Fa pena vederle così tutte e tre, nei grossi letti, con flebo, pompe, cannule ovunque perché i bambini non dovrebbero stare in un letto di ICU, ma giocare con gli aquiloni sotto il cielo di questo paese… Invece una di loro non correrà mai più dietro agli aquiloni colorati perché le schegge le hanno lesionato il midollo e quello che la aspetta d’ora in poi è la vita di una paraplegica a soli 10 anni, per sempre…
Per due giorni la più piccola delle sorelle rimane attaccata al ventilatore, in coma farmacologico per dare tempo al suo cervello di riparare i danni del trauma. Il terzo giorno proviamo a svegliarla e per quelle strane risorse che solo i bambini hanno, la bimba si sveglia, respira bene, apre gli occhi di nuovo a quel mondo che le ha finora concesso molto poco… Non parla ma si guarda intorno, afferra il dito dell’infermiere per portarselo alla bocca e poi la siringa per bere. E’ una bella piccola bambina, con gli occhi pieni di vita e i capelli rossi per l’ennè che qui si usa specie dopo il Ramadan per colorare mani e capelli.
Non sappiamo chi ha lanciato il missile, né ci interessa saperlo perché per noi la guerra sono solo i nostri pazienti, soprattutto questi bambini che hanno avuto la sfortuna di nascere qui e che imparano cosa è la morte e la sofferenza prima ancora di imparare a camminare. Ed è per loro che Emergency è qui e che continua con i suoi medici e infermieri a dare una speranza di vita e di futuro a tutte le vittime di guerra.

Rachele

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biglie

Posted by Giramondo on aprile 29, 2010
cronache / 4 Commenti

Ero così felice.
E devo ammetterlo, anche un po’ orgoglioso.
In questo Ospedale in Pakistan, in una città vicino al confine con l’Afghanistan,
sono arrivato da circa due mesi.
Quella mattina ero felice.
Durante il giro dei reparti, anche un po’ forzando la rigida separazione tra uomini e donne che vige in queste terre, avevo preso per le braccia Shaiza, una ragazzina di 12 anni che avevo operato due settimane prima, e l’avevo messa fuori dal letto a camminare.
Che gioia !
Shaiza era arrivata in Pronto Soccorso di notte, dopo un viaggio di una decina di ore, con una profonda ferita alla testa in regione parietale destra del diametro di
4 centimetri in seguito ad un bombardamento che, come effetto collaterale, aveva colpito anche il suo giardino di casa.
Glasgow Coma Scale di 9, pupille isocoriche isocicliche, materia cerebrale che fuoriusciva dalla ferita e, dato clinico che non quadrava con la ferita a destra, una emiparesi di tutto il soma di destra.
Parlo con i Parenti per avere il permesso per la craniotomia.
Pianifico Rx del cranio (non c’e’ la TAC…) e poi sala operatoria.
Alla radiografia capisco il perché dell’emiparesi destra:
Shaiza ha 2 biglie di acciaio in testa; una in regione parietale destra, e l’altra che ha attraversato tutto il cervello e si è impiantata nella profondità della materia cerebrale del lobo parietale sinistro, irrangiungibile.
Eseguo una craniotomia destra: estraggo la biglia di destra che è rimasta superficiale, rimuovo un po’ di teca cranica per evidenziare la lesione della dura, riparo la dura con un “patch” di fascia del muscolo temporale.
Tracheotomia per facilitare l’aspirazione delle secrezioni in reparto (non ci sono comunque ventilatori; anzi, non esiste una terapia intensiva).
Mi soffermo sulla biglia: una sferetta di acciaio di circa 5 mm di diametro.
Dalle nostre parti si trovano nei cuscinetti a sfera.
Mi viene in mente che quando ero ragazzino io biglie così le usavo per giocare al campetto sotto casa a ” buca”, a “galletto”… strane associazioni.
Lo stesso oggetto io a 12 anni lo usavo per giocare.Ho chiesto: si chiamano bombe a frammentazione.
Vengono lanciate da aerei o da elicotteri.
Ogni bomba contiene centinaia di biglie così, e quando esplodono vengono sparate come proiettili in tutte le direzioni.

La ragazza nei giorni seguenti progrediva giorno per giorno.
Abbiamo potuto rimuovere la tracheotomia dopo 5 giorni.
Si nutriva per bocca.
E, incredibile, aveva recuperato la motilità dell’arto inferiore destro grazie a un grande lavoro dei fisioterapisti.
Permaneva una marcata astenia dell’arto superiore destro, che però migliorava lentamente.
Niente febbre. Glasgow 15.

Ecco, quella mattina vederla mangiare, parlare e camminare era felicità.

Dopo due notti mi hanno chiamato che improvvisamente ha avuto un arresto cardio-respiratorio.
Sono arrivato in Ospedale e ho potuto soltanto constatare che era morta.

Probabilmente la biglia rimasta nell’emisfero di sinistra ha fatto sanguinare qualche vaso… non lo saprò mai.
Ho provato a spiegare alla madre che era presente: ma come si fa a spiegare una morte che nemmeno io capisco?

Ho imprecato dio (con tutti i suoi nomi).

Mi sono rimangiato la felicità.

E mi sono dato del coglione per l’orgoglio.

Giramondo

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una sera all’improvviso

Posted by Rachele on ottobre 30, 2009
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Sono le 19 quando una fortissima esplosione vicina a casa mi ricorda che non siamo in un paese “normale”, il primo pensiero che mi assale è “speriamo che non abbiano ammazzato nessuno…”, l’ora è cruciale, dopo la preghiera si riuniscono le famiglie, si mangia tutti insieme, dopo un giorno intero di digiuno.
Le ambulanze partono e tornano con il loro carico di sofferenza, morte e speranza.
Un quarto d’ora dopo siamo in ospedale… i pazienti arrivano insanguinati, coperti di calce sono portati a braccia, a spalle dai parenti, dagli amici, da chi è sopravvissuto…
Più di 30 arrivano già morti e sono quasi 60 i feriti che arrivano in un’ora, con lacerazioni, fratture, traumi cranici senza speranza ma ancora vivi, altri con la faccia che sanguina, non riescono a respirare e non gridano, altri con addome duro come una pietra, ci sono anche dei bambini.
Non ci sono quasi donne tra i feriti. Probabilmente sono rimaste schiacciate sotto le macerie con i loro figli mentre si affannavano a preparare tutto per la festa, la cena tutti insieme, la gioia di ritrovarsi, madri, mogli, mariti, dopo un giorno di digiuno, per assaporare insieme il gusto di ciò che si è tanto atteso. Improvvisa è arrivata la morte che si è portata via vite, speranze, gioie che non ha guardato in faccia nessuno. Mi chiedo come si può fare questo ai propri fratelli, come si può arrivare a tanto, come può l’uomo essere così crudele.
Passo da una stanza all’altra dell’emergenza, dove regna il caos più pazzesco… vedo i chirurghi sporchi di sangue dalla testa ai piedi, si affannano a soccorrere i pazienti, cercano di capire chi è grave, gravissimo, chi è quasi perso, gli infermieri che incannulano, medicano, bendano gambe braccia, tanti pazienti, tanti parenti anche loro sporchi, pieni di sangue, hanno scavato con le mani per tirarli fuori.
C’è chi si lamenta, chi non ha più fiato in gola per lamentarsi, chi si sta soffocando nel vomito e nel sangue, chi non riesce a respirare.
In emergenza c’è un paziente che sta soffocando per la polvere e i calcinacci che lo ricoprivano, ha la testa aperta da una profonda ferita da cui esce materiale cerebrale. Sarebbe uno di quelli persi, ma non sta a me decidere.
Partono le barelle verso quel posto che pare risolva tutti i problemi… la sala operatoria dove non c’è Dio ma solo poveracci come noi che cercano di fare anche nel disastro più totale del loro meglio.
In sala c’è solo un infermiere anestesista, uno giovane entusiasta della vita e sempre pronto a scherzare. Cominciano a intubarne uno, poi un altro che pare già morto sul tavolo e lo diventa subito dopo. Mi rendo conto che in due possiamo fare ben poco perché non abbiamo ventilatori, e non possiamo rimanere attaccati ai pazienti per ventilarli altri richiedono il nostro supporto o valutazione. Arriva un bimbo con addome acuto, laparotomia. Intanto esco per vedere la situazione, mi viene incontro una barella con uno che urla come un matto con la faccia insanguinata che dice di avere mal di pancia. Finalmente arriva il mio collega medico anestesista, va a vedere in pronto soccorso, la situazione giù pare sottocontrollo, anche perché li hanno mandati tutti nel reparto di terapia sub intensiva, moribondi insieme a quelli che devono essere operati, i gravi con quelli meno. Insanguinati vanno e vengono dalla radiologia, i parenti sono i portantini. Arriva un sacco di gente, perché quando capitano queste disgrazie tutta la comunità si mobilita, c’è chi ha un camice ma magari è solo un portantino, ci sono più parenti di pazienti, tutti vogliono aiutare, tengono su le flebo, spostano i malati, portano le barelle. “E’ pazzesco – penso – questa gente è veramente incredibile: mezza città è qui, dopo tre ore dall’esplosione tutti i chirurghi e gli anestesisti sono arrivati, senza bisogno di essere chiamati”.
Il mio collega anestesista va in terapia subintensiva. Dopo un quarto d’ora lo vedo tornare in sala affranto, mi dice di andare di là che è un disastro non si capisce niente, tutti che muoiono, il chirurgo sta rifacendo il triage, sono tutti urgenti!! Pennarello indelebile scrivo le categorie e la diagnosi sulla pelle di ciascuno, pensando che dalla velocità in cui andranno in sala potrebbero essere vivi o morti.
Mi chiamano i parenti di una giovane donna che abbiamo operato 10 giorni prima per una craniotomia, una scheggia le ha perforato il cervello mentre era in casa a fare i lavori. Li conosco questi parenti sono dieci giorni che ci parliamo a gesti e sorrisi, sono delle brave persone, mi chiamano perché nel letto vicino a quello della sorella hanno messo uno che mi fanno capire non sta tanto bene, infatti è morto.
Un altro è nel letto in un bagno di sangue. E’ in coma, continua a vomitare e si sta soffocando, gli infermieri, i parenti mi guardano, come se potessi fare qualcosa. Ma cosa vuoi fare?? È uno di quelli con shock inarrestabile, magari non lo opereranno neanche. Ma si può lasciare un uomo morire soffocato? No non si può. Lo sedo lo intubo, lì al letto con tutti i parenti che mi guardano e gli do un ambu, lo ventilano loro, morirà forse ma almeno non se ne renderà conto.
Ci sono tante altre cose che potremmo aiutare a fare ancora, ma noi dobbiamo andare via, le regole di sicurezza non ci permettono di stare tutta la notte in ospedale.
Non riesco ad addormentarmi, mi assale un profondo disprezzo per il genere umano che riesce a compiere certe azioni, ma anche una ammirazione per tutti quelli che si sono mobilitati, i parenti, la gente comune, penso ai miei colleghi di questo sfortunato ma incredibile paese. Sì, penso a loro che staranno tutta la notte a farsi in quattro per salvare vite umane e non per il denaro, né per la gloria ma semplicemente perché sentono che è il loro dovere di uomini, di medici.

Rachele

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