Archive for maggio, 2010

la soglia del dolore

Posted by Morris on maggio 31, 2010
pensieri / 6 Commenti

“Voi uomini avete una soglia di sopportazione del dolore così bassa che se sbattete il gomito contro uno spigolo non sentite la scossa, cadete fulminati. Poi si lamentano se noi facciamo l’epidurale per partorire e loro farebbero l’anestesia anche per farsi la barba. ” da: le più belle frasi di Luciana Littizzetto.

Ho riletto già un paio di volte questa frase che campeggia nel mezzo della mia pagina di Facebook e mentre la guardo ancora sento che mi monta dentro un’ ondata di rabbia.
Mi ha mandato questa riflessione una povera di spirito che per disgrazia ho accettato fra i miei amici: già non la sopportavo al liceo, e risentendola tanti anni dopo ho avuto un’ ulteriore conferma del fatto che le persone non migliorano col tempo come il vino: possono solo peggiorare. Figurarsi, ha messo come foto iniziale del profilo un’ immagine in bikini palesemente di almeno dieci anni fa in posa da strafiga, e continua a postare come perle di saggezza aforismi che scarterebbero anche per i Baci Perugina.
Ma questa qui no, non la reggo proprio. Non è perché anche oggi ho visitato l’ ennesima fibromialgica che, quando le ho appoggiato un dito sotto la scapola, si è contorta ed ha urlato come se l’ avessi trafitta con un kriss malese. Poverette, oramai le capisco, le mie fibromialgiche, e le tratto anche abbastanza bene, con adeguate parole di conforto. Non è colpa loro, è che le disegnano così, come Jessica Rabbit.
No, quello che mi rende insopportabili queste parole è che oggi sono andato in camera mortuaria a dare l’ ultimo saluto a Roberto.

Roberto era un collega con cui ho percorso praticamente tutti questi anni di lavoro, anzi, uno dei pochi che oltre che collega potevo definire anche un amico. Abbiamo iniziato insieme con le prime guardie mediche sul territorio, siamo stati assunti praticamente insieme in questo ospedale, per un po’ abbiamo lavorato insieme nello stesso reparto.
Quindi una riorganizzazione interna lo ha “convinto” a passare ad un rapporto di collaborazione libero-professionale, a cui si è adattato inizialmente con un po’ di frustrazione, poi con un impegno ed una professionalità che lo hanno portato ad essere uno dei più stimati e richiesti specialisti del circondario.
Era uno di quei medici che teneva a darsi un tono e ad avere un’ immagine consona al suo ruolo, sempre in cravatta ton-su-ton con la camicia, d’inverno con il panama leggermente inclinato, e la sua naturale eleganza strideva un po’ con i miei pantaloni stazzonati e le mie magliette da 7 euro al supermercato. Ma si capiva che il suo atteggiamento non era un volersela tirare, ma una forma di rispetto verso i suoi pazienti che “volevano” vederlo così.
Poi, alcuni anni fa, le prime avvisaglie; difficoltà a respirare in certi momenti, alla sera sempre più spesso un po’ di febbricola.
L’iniziale atteggiamento da struzzo di tutti noi che lavoriamo in sanità (cosa vuoi che sia, passerà da solo); quindi i primi accertamenti, con risultati interlocutori. Si sa, curare un collega non è mai semplice, così di fronte ad un esame negativo o dubbio di solito il consiglio è spesso di rivolgersi ad un altro specialista “sicuramente più pertinente al tuo caso”.
Così di controllo in controllo, lo vedevo sempre più stanco e preoccupato. Mi aveva confessato che per tenere sotto controllo la febbre e attenuare la sensazione di spossatezza aveva cominciato ad assumere regolarmente del cortisone. Poi, finalmente, all’ ennesimo controllo la diagnosi : una forma leucemica rara, “una di quelle classiche cose da una su un milione che capitano solo ai medici”, disse l’ ematologo con grande tatto e sensibilità.
Iniziò così il solito calvario; i cicli di chemio, accertamenti sempre più serrati ed invasivi, la nausea, i capelli persi, la faccia gonfia per i farmaci, il colorito sempre più pallido.
Ciò nonostante continuava sempre il suo lavoro, con l’ attenzione e la cura di sempre: la mattina andava a fare la chemioterapia, il pomeriggio veniva da noi a svolgere il suo ambulatorio , non prima di essersi fatto sparare in vena uno Zofran ed un desametazone.
In ultimo portava un busto , perché le vertebre rese sempre più fragili dai cortisonici avevano cominciato a cedere. Vedevo il dolore che gli costava ogni movimento, ed era una sofferenza anche per me. Una volta, capendo quello che stavo pensando, mi disse:” Ho dei figli piccoli, è importante che non pensino che mi sto arrendendo”.
In questi anni mi è capitato di perdere diversi colleghi. Alcuni, dopo essersi ammalati, sono semplicemente spariti, come i vecchi eschimesi, che quando sentono prossima la fine si allontanano dal villaggio e si perdono nel bianco.
Roberto no, quando non ce l’ha più fatta si è ricoverato da noi, anche perché i luminari che l’ avevano assistito e che fino a poco tempo prima gli avevano garantito che era sulla soglia della remissione vedendo la situazione precipitare si erano improvvisamente tirati indietro.
Così siamo stati costretti a seguire il suo declino, e abbiamo potuto ammirare la dignità con cui lo sopportava.
Quando infine lo abbiamo trasferito ad una struttura “sicuramente più pertinente al suo caso”, lo sono andato a salutare mentre gli ambulanzieri lo portavano via.
“Cerca di tornare presto”, gli dissi, e sapevo che non sarebbe tornato.
“Vedrò di non deluderti”, rispose con un debole sorriso, e dal suo sguardo capii che lo sapeva anche lui.
Ecco, stamattina lo sono andato a salutare per l’ ultima volta alla camera mortuaria. Ai familiari non ho potuto dire altro che in casi come questo mi sento inadeguato come medico e come uomo.
Inadeguato. Non mi viene nessuna altra parola.
“Voi uomini avete una soglia di sopportazione del dolore così bassa…”
Sotto alla scritta occhieggia, invitante, il link “commenta”.
Che dite, se la mando affanculo e la cancello dai miei amici di Facebook sono troppo cattivo?

Morris

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storie di pronto soccorso (prima notte)

Posted by rem on maggio 19, 2010
racconti / 4 Commenti

Ci sono capitato per caso in un PS
non per scelta. Un giorno il direttore sanitario mi chiama e mi chiede se mi va di fare Pronto Soccorso
Rifletto lo guardo poi dico: certo che sì
So che è la risposta giusta
Come lo so ?
Un’intuizione, il mio spirito guida, la mia innata capacità di fare la cosa giusta al momento giusto? No.
È solo il terzo mese di prova e posso essere licenziato senza preavviso.
E’ un’ottima scelta che contribuirà alla mia crescita professionale
e personale
– dice il Direttore – anche lui, se solo potesse tornare indietro farebbe la stessa cosa, è veramente stufo di continuare a stare dietro alle scartoffie, alle beghe sindacali e a tutto quello che comporta un incarico come il suo, vorrebbe tornare a fare il medico se solo potesse, ma tant’è. Così è la vita.
A proposito…
inizio domani notte.
E’ un vero bastardo il direttore Sanitario

La prima notte

Prendo servizio alle 8 di sera percorro la lunga linea gialla che porta dalla Radiologia alle Sale di visita, ho un camice bianco pulito e degli zoccoli, per il resto sono un perfetto borghese: camicia blu pantaloni di velluto, non ho indossato la classica tuta verde per scelta, non voglio tirarmela, anche perchè a ben vedere non so fare un cazzo, fino a ieri mi occupavo di Geriatria poi hanno ridotto drasticamente i posti-letto del reparto perché rendeva poco, solo pensionati in bilico sulla soglia dell’indigenza, e oggi sono qui nel Dipartimento di emergenza-urgenza-accettazione.
Nessuno mi ha spiegato niente, nessuno mi ha portato a vedere i luoghi o mi ha illustrato le procedure, non mi hanno fatto alcun corso specifico.
Da questa sera sono un medico dell’urgenza
spero in bene per me
e anche un po’ per i pazienti.
Che Dio me la mandi buona.
Anche se non sono credente.
Spero che non voglia farmi un dispetto per così poco, e poi negli ultimi tempi incomincio ad avere qualche ripensamento.
Lo giuro.

Franco l’infermiere più esperto del PS, che chi sa come mai la Caposala ha deciso di affiancarmi in questa prima notte, mi dà le prime coordinate:
di notte siete due medici, tu e il chirurgo, coprite il PS e anche i reparti se vi chiamano,
naturalmente può allontanarsi uno solo per volta,
non ci sono i radiologi e le radiografie te le devi refertare da solo,
non ci sono specialisti neurologi, otorino,oculisti, neurochirurghi né chirurghi vascolari
anche se qualcuno è reperibile telefonicamente.

Sono proprio le parole che avrei voluto sentirmi dire.
Ingoio una compressa di alprazolam e comincio a lavorare.
Per fortuna c’è Franco, per fortuna ci sono gli infermieri.
Lo vedo lavorare e mi chiedo io cosa ci sto a fare qua sotto.
Sa sempre cosa fare e fa sempre la cosa giusta.
Quando mi vede titubante mi dà indicazioni, ma come se fossi io ad avere l’idea.

Arriva mattino, è sempre una buona cosa, ma oggi mi sembra anche meglio.
Me ne vado con un certo grado di soddisfazione: è andata, ho rotto il ghiaccio, non dovrei aver fatto grosse cazzate, ora vado a dormire il sonno dei giusti.

E’ solo un’illusione.
I casi mi ritornano su come cipolle.
tutti i pazienti che ho mandato a casa mi appaiono in sogno puntandomi l’indice contro perché sono morti poco dopo, quelli che ho ricoverato erano quelli che in realtà non avevano un cazzo.
Bastava invertirli.
Che razza di stupido, era così semplice.

Non sono portato per questa professione.
Potevo studiare chimica inorganica.
Mi assalgono tutti i dubbi, ho una crisi d’identità che mi fa fare certi salti nel letto, non riesco a dormire
C’è anche troppa luce.
E’ contro natura dormire la mattina.
Poi crollo e mi addormento profondamente, quando mi sveglio è già ora di andare a lavorare.

rem

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Edoardo

Posted by Nuccia on maggio 09, 2010
cronache / 3 Commenti

Uno sconosciuto nella notte

Le 3 del mattino. Questa notte di guardia è iniziata male: solo ora entro in camera dopo ore dall’inizio del turno, la voglia di un po’ di riposo. Il camice appeso come ogni volta all’ “ometto” (così qui da noi  chiamiamo la gruccia), la pelle che suda costretta dal pesante cotone che non conosce stagioni. La voglia di riposare distesa  almeno un pochino.  Le forze non sono le stesse degli  anni passati, il dovere è lo stesso, i problemi di più.  Terapie intensive, pazienti oncologici, malati complessi , risorse ridotte, infermieri stressati, recuperi quasi impossibili.

Apro il mio libro “da notte di guardia” di solito un romanzo leggero, distensivo, per far riposare la mente.  Solo poche pagine e già una nuova chiamata: ” il numero 3 , non mi sembra stia male , ma ha chiesto di Lei.”.

Risalgo le scale, la sezione è al piano di sopra, cerco di ricordare il numero 3. Non è il mio reparto, il paziente  non l’ho visto altre volte, il collega del turno di giorno non mi ha detto nulla di lui , ma nel tempo ho imparato che a volte anche un piccolo sintomo vuol dire qualcosa di più.

 Un’occhiata alla cartella: metastasi cerebrali , non vedente, pz terminale. L’infermiera mi aggiorna “parametri stabili, sta come al solito, non so cosa vuole”.

La stanza in penombra, la solita luce notturna, un corpo emaciato, il vicino che dorme. Accanto al suo letto, domando di lui , che cosa si sente,  di cosa ha bisogno: una mano un po’ incerta mi cerca, lo guardo, un viso scavato, uno sguardo che reputo azzurro è fisso nel vuoto. “Sono diventato cieco, dottoressa non la vedo, ma prima ho sentito la sua voce in corridoio: un suono che odora di  dolc , di una persona che forse è anche bella,  mi dia la sua mano. Io sto per morire, da solo; da tempo non sono più niente, non lascio nessuno, il  mio buio aspetta una luce che presto vedrò. Ormai non mi resta più nulla se non l’illusione che ogni notte sia l’ultima. Mi dia  la sua mano un momento e mi scusi se l’ho disturbata.

Non sembra stia male, forse ha solo bisogno di una voce per lui. Gli dico “la voce tradisce, non sono più giovane, il bello è passato da tempo e in questo mestiere è meglio essere bravi”. La mano nella sua gli strappa un sorriso: la  pelle sciupata, le dita nodose, intuisce un’età quasi uguale alla sua. Mando via l’infermiera, mi siedo vicina. Gli parlo di niente, non mi ha disturbata, devo comunque star sveglia, mi può raccontare la sua malattia. Non vuole, la voce è un sussurro per non disturbare il vicino, mi spiega i colori dei fiori, i cieli azzurri che può solo immaginare e che non sono mai sempre uguali, i bambini  dai volti ridenti, di come ne amava i capricci e le gioie improvvise, mi parla dei  loro disegni, di tanti ricordi di un mondo felice, faceva il maestro di scuola; di com’era  in passato, della “fortuna” di non vedere  come può essere ora il suo viso; di giorni che sono soltanto notti più lunghe, ormai ne distingue i rumori, immagina i volti di chi lo circonda in base alle voci, ai modi di porsi,  ai profumi o agli odori di ognuno. Vuole sapere di me, di come mi piaccia di più la miseria che trovo ogni giorno, invece del verde di un prato, di un sole che splende, di gente che ” vive”, di occhi ridenti anziché sofferenti. Si scusa di nuovo perché mi fa perdere tempo, un tempo che per lui non esiste e invece è prezioso per me. Voleva “sentirmi” , ancora , ripete,  lo aveva colpito la voce, udita per caso. Gli dico qualcosa di mio; che fare del bene  mi dà ancora gioia, che la sofferenza degli altri ha ancora bisogno di me,  che questo lavoro difficile è vita.  Racconto di alcuni di loro, persone che ho potuto guarire, soltanto alcuni mi ricordano ancora,  persone che non ho potuto salvare e che non ho dimenticato.  Persone che hanno sofferto, persone che ho aiutato a soffrire di meno. Persone. Come me, come tante , a cui in ogni momento può capitare di essere nel letto ove ora sta lui.

La mano pian piano si stende intanto che ascolta. Il silenzio è rotto d’un tratto dal  suono stridente di un campanello.  Mi chiamano altrove. Sussurra un semplice  grazie  e mi lascia con poche parole: “non vedo il suo volto, ma vedo il suo cuore. Soltanto un consiglio: il mondo è più bello di quello che sembra, lo guardi davvero, si fermi un istante a osservarlo, è una grande fortuna  poterlo vedere.”

Arriva il mattino. Il turno finisce. Riprende il rumore del giorno. A casa di corsa, una doccia veloce, un caffè super forte al solito bar sotto casa perché devo tornare al più presto: “dottoressa ha avuto una brutta nottata? Si vede dagli occhi.”

No, è stata una bella nottata, ho conosciuto un poeta.  Mi colpisce una parola: occhi

La riunione mi aspetta, per strada mi vien da  guardare in modo diverso, rallento, mi accorgo di quanti colori ci sono, di quanto sia bello il più brutto degli alberi intorno: arrivo un pochino  in ritardo, ma ho  voglia di andare un momento al piano di sopra, dal numero 3 a salutarlo e dirgli che oggi c’è il sole. 

Il letto è rifatto e  Lui non c’è più.  Allo sgomento subentra un sorriso, il mio questa volta: il suo buio è finito e qualcosa  di bello ha lasciato: una stretta di mano e un semplice grazie che vale un tesoro.  Mi accorgo di non sapere il suo nome e lo chiedo: Edoardo. Adesso  sono io a ringraziarti. E tu sai perché. E chissà, forse ora mi vedi e mi aspetto un sorriso.

Nuccia

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