Archive for novembre, 2010

l’alfa e l’omega

Posted by Herbert Asch on novembre 26, 2010
pensieri / 5 Commenti

Se riesci ti piace arrivare un po’ prima sul cambio. Intanto perché trovi parcheggio più facilmente.
E poi perché chi è dentro da dodici ore ne ha già abbastanza e l’unica certezza che ha, è che qualcuno, dopo un tot di tempo, verrà a dargli il cambio.
E non è poco.

Già lungo il percorso di ingresso raccogli una serie di informazioni: davanti al chiosco qualche infermiere che ha appena smontato dal turno di notte anticipa qualche novità, passando dal Pronto Soccorso basta uno sguardo per dirti se è tutto tranquillo (per ora, ma non diciamolo, per scaramanzia!) o già sovraffollato.
L’ascensore ti deposita proprio davanti alla rianimazione.
Qualche volta davanti alla porta campeggiano parenti tristi, assonnati e preoccupati, che trasalgono ogni volta che la porta si apre. E dagli sguardi, dall’età, dal comportamento già intuisci una parte della storia. Genitori o figli? Amici o parenti? Giovani o vecchi? Spesso non è difficile decodificare.
Poi entri: quanti zaini di trasporto ci sono? Tanti ne mancano, tanti sono i pazienti in giro. Tutti gli zaini a posto: buon segno!
Insomma già prima di entrare uno un’idea se la può fare.

Un saluto a chi c’è, togli dalla tua borsa qualche cosa per il pasto che depositi in cucina.
Ti avvii verso lo spogliatoio nel corridoio, trovi le chiavi in una delle sedici tasche dove potresti averle messe ieri sera, ed entri.

Quanti anni sono che vieni a cambiarti in questo spogliatorio? E quante stanze-spogliatoio hai cambiato in venticinque anni?

La fila degli armadietti fronteggia un doppio schieramento di scarpe, anzi una parete bifilare di zoccole dove alcuni paia di scarpe, o qualche stivale d’inverno, si inseriscono come le molecole della pompa del sodio nella membrana della parete cellulare.
E il gioco sta nell’indovinare chi c’è di là a partire dalle scarpe che ha lasciato di qua.
Le scarpe sempre leziose della collega che ne ha una intera collezione e che non ti ricordi la volta che ha messo lo stesso paio due giorni di seguito. E poi i dr.Martin della tosta elisoccorsista, le lumberjack del collega giramondo, le scarpe seriose di buona fattura del collega anziano, le paperine allegre della collega creativa, le scarpe un po’ petulanti della collega precisina, e quelle un po’ scalcagnate del collega sfigato, a cui accosti le tue barche oversize, che ormai trovi solo più in Germania.

Ti piace fare con calma i gesti preparatori, moderna vestizione del cavaliere, che invece dell’armatura indossa un comodo pigiama.

Mentre ti cambi non potrai fare a meno di pensare come sarai questa sera, quando ti ritroverai di nuovo qui, davanti a questo specchio. Stanco ma ancora presente o assolutamente tritato? Contento di quello che hai fatto, o pensieroso su dilemmi insoluti? Sarà stato un giorno utile o inutile?

E poi sei pronto.

Spegni la luce, chiudi la porta alle tue spalle e via. Lì ci ritornerai solo dopo dodici ore, al momento del cambio.
Ora sentirai le consegne, con un rituale che si ripeterà identico dopo dodici ore
…E dopo dodici ore, come in un confessionale laico, in una cronaca che ha del religioso, lascerai memoria di quel ch’è stato al tuo collega, e di quel che ancora c’è da fare, di quello che hai pensato ed imbastito, infilandoci se del caso anche qualche fatto curioso avvenuto, qualche prodezza compiuta, o qualche svista occorsa.
E l’ironia con cui saprai condire il racconto sarà il sale di quella giornata o nottata, che nel solo racconto, nudo, dei fatti, potrebbe semplicemente risultare tecnico, arido, squallido o terrificante, o tutte queste cose insieme.
Intanto, elencando le tue prodezze o le tue viltà lentamente smetterai di risuonare di tutti gli echi che ti rimandano le cose che hai fatto, i pazienti che hai visto, le decisioni che hai dovuto prendere. Con calma ti potrai avviare, lasciando cadere pezzo per pezzo gli episodi mentre ti avvicini all’uscita.
Quasi prepari uno stato di vuoto mentale, hai il bisogno fisico di segnare il cambiamento avvenuto.
E ti vengono in mente le parole di Roy Batty in Blade Runner: “…e tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia…”

Herbert Asch

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se non c’è urgenza

Posted by Morris on novembre 13, 2010
racconti / 2 Commenti

Dunque, mi chiamo, diciamo, Priscilla, e vi scrivo tramite quell’individuo inaffidabile di Morris perché è lui quello che ha fatto il classico, e in qualche modo dovrà rendersi utile, visto che l’ho sposato.
Sono anch’io medico (si, è un classico, i medici si sposano fra di loro perchè la loro è una vita di sacrifici, di turni impossibili ecc, ecc e chi meglio di un collega può capire ed esserti vicina, tanto per andare alla sagra dei luoghi comuni) e ormai da una vita faccio “provvisoriamente” la guardia medica sul territorio (o, come si dice adesso, “Continuità assistenziale”, che fa più figo).
Quando cominciai a fare guardie, tanto tempo fa, mi trovai una sera in turno con un collega non più di primo pelo e quando gli chiesi perché era ancora lì mi rispose: “Mah, vedi, questo può sembrare un lavoro da schifo, però quando al mattino smonto e mi incrocio con gli schiavi che entrano in ospedale con il capo chino e il pensiero del Primario, del Direttore sanitario, del Direttore amministrativo ecc. ecc. che gli alitano sul collo, mentre io sono libero di andare a pescare, ti dirò, mi sento quasi felice”. Allora mi sembrò un’eresia, ma con il tempo ho cominciato a capire un po’ di più il suo punto di vista.
Il fare prevalentemente turni notturni ti dà effettivamente la possibilità di avere tempo per la famiglia durante il giorno che gli altri lavori non ti danno. Lo svantaggio, intuitivo, è che se la notte stai sveglia e di giorno fai la mamma (e per di più una mamma di oggi, di quelle con l’horror vacui, che se non riescono ad occupare ogni istante libero loro e dei figli con qualche impegno le prende l’angoscia) prima o poi ti capita di stramazzare al suolo.
Ho trovato la quadratura del cerchio ottenendo, grazie all’anzianità acquisita, l’ambito posto presso una sede periferica con un tasso di chiamate decisamente più accettabile di quello dell’ area urbana. Si, possono capitare notti di tregenda con chiamate da poderi dispersi mentre fuori c’è un tempo da lupi, ma di tanto in tanto c’è un bel turno in cui il telefono sembra essersi dimenticato di te.
L’altra faccia della medaglia è che qui sei sola, completamente sola; sola con i tuoi dubbi, con la paura di sbagliare; non hai dietro di te laboratorio, radiologia, consulenti; nemmeno un collega di guardia con cui scambiarti un parere. La decisione è solo tua, e tutte le notti devi tirare la tua monetina mentale per decidere se quel dolore addominale giustifica un Buscopan o un invio in ospedale, e speri sempre che cada dal lato giusto, la monetina.
Ma oggi non ci sono monetine da lanciare, non ci sono alternative possibili. “Ci sarebbe da constatare un decesso”. Quante volte ho sentito questa frase. Solo che stavolta al telefono c’è il maresciallo dei carabinieri, e come indirizzo a cui recarmi ho solo un chilometro della strada statale. “Tanto quando arriva lì ci vede, ci siamo noi, i vigili, l’ambulanza….”
Lì è un punto in cui la statale costeggia il fiume che scorre diversi metri più in basso, c’è un parapetto, da cui si vede un sentiero lungo l’argine, asfaltato per fungere da passeggiata turistica. Solo che non sono turisti a percorrerlo oggi, ma solo figure in divisa. E in mezzo a loro, stesa sotto un lenzuolo macchiato di rosso, una sagoma.
C’è una scalinata che dalla strada porta al lungofiume, e la scendo con una sensazione di straniamento: guardo la scena come dall’ esterno, come se quello fosse CSI e io stessi guardando un episodio alla TV.
Il maresciallo mi deve vedere un po’ bianchina, e mi prende da parte. “E’ solo una formalità, dottoressa. Si è buttato da lassù, vede? E’ senz’altro morto sul colpo. Quelli del 118 gli hanno già fatto il tracciato e hanno preparato il certificato di morte, c’è solo da firmarlo, così possiamo spostare la salma.”
Mi faccio forza e mi avvicino alla salma. L’infermiere catafratto nelle sua bella tuta tattica arancione mi porge una risma di fogli e un ECG rigato da una serie di linee piatte parallele. Guardo i certificati e ,quando vedo il nome del morto posto in intestazione, ho un flash back.
Sono tornata ad una chiamata di circa quindici giorni fa: “Venga , dottoressa, faccia in fretta perché abbiamo un nonno un po’ fuori controllo.”
Fuori controllo, direi, era un eufemismo. Il nonno in questione, ospite di una delle tante case di riposo della vallata, era addossato spalle al muro e biascicava frasi scommesse con uno sguardo che non prometteva niente di buono. Soprattutto perché impugnava un paio di forbicioni lunghi una ventina di centimetri.
Va bene, voce calma, mantenere la distanza, non perderlo di vista. Per prima cosa bisogna avvisare i familiari (“Mah, dottoressa, che vuole, coi figli non va d’accordo, non si fanno vedere praticamente mai”).
OK, allora chiamate i vigili urbani e il 118, che cerchiamo di fare un ASO (per fare il TSO mi servirebbe un secondo medico in controfirma, e dove lo vado a trovare di domenica?). Chiamo il centralino dell’Ospedale provinciale, e chiedo di cercarmi lo psichiatra in turno in “Diagnosi & cura” per avvisarlo del bel personaggino che sto per inviargli. Mi risponde una collega che, alle mie spiegazioni, fatte sempre controllando con la coda dell’occhio che il potenziale accoltellatore non si sposti dal suo angolo, risponde, con tono scettico: “Mah, non potete dargli qualcosa per calmarlo un poco? Se non c’è urgenza, io giovedì sono in ambulatorio in consultorio lì da voi e così lo vedo e gli aggiusto la terapia….”
Come no, mi viene da dirle, gli procuriamo anche un cartamodello e una bella pezza di tessuto frescolana, così di qui a giovedì con i suoi forbicioni ti prepara un bel tailleurino pronto da indossare.
No guarda cara, sono arrivati il 118 ed i vigili, se ce la facciamo lo carichiamo e te lo spediamo. Adesso chiudo, ciao.
Ci vuole un po’ molta pazienza, poi il vigile del paese, che lo conosce, lo convince a posare le forbici. Con molta cautela, riusciamo a fargli un Serenase, e a convincerlo a salire sull’ambulanza. Quando è tutto finito sono stremata, e non so cosa darei per allungare le gambe sul mio divano sorseggiando un bel the. Invece mi aspettano ancora quindici ore di turno.
Tutto questo mi è tornato in mente perché quel povero mucchietto di ossa rotte sotto il lenzuolo è il mio vecchietto coi forbicioni. Quando lo ho inviato all’ ospedale, lo hanno visitato, lo hanno tenuto in osservazione per qualche ora, “visto che il paziente si mostrava tranquillo e collaborante”, lo hanno rispedito alla struttura di invio con una terapia neurolettica più forte che, con tutta probabilità, si è guardato bene dall’assumere. E per fortuna prima di buttarsi giù dal cavalcavia non ha avuto l’idea di impugnare di nuovo le forbici e di portarsi dietro compagnia nel suo ultimo viaggio.
Ecco, in quest’anno in cui cade il trentennale della morte di Basaglia si è fatta tanta retorica. Ci si dimentica purtroppo spesso che la pazzia e la demenza sono spesso una prigione peggiore di un ospedale psichiatrico, che finisce per rinchiudere non solo i malati ma anche chi deve vivere a loro vicino, e che le strutture che devono seguire questi malati sono terribilmente sottodimensionate e insufficienti.
Mah, cerchiamo di non pensarci. Finalmente sono sul mio divano; e questo bel the dolce e ben zuccherato penso proprio di essermelo meritato.

Morris

non alzare il gomito

Posted by manuele on novembre 01, 2010
cronache / 3 Commenti

Amo il mio mestiere. Desideravo già da bambino diventare medico. Dentro di me desideravo sempre stare dalla parte del più debole, forse perché debole e timido sono sempre stato anch’io. Finché un bel giorno eccomi Medico Rianimatore-Anestesista. Questo mestiere mi ha plasmato, ha modificato il mio carattere, ha infuso pian piano, giorno per giorno, in me il modo di controllare la timidezza, di prendere sicurezza, di tenere a bada la tensione, di riuscire nel panico generale ad essere calmo, prendere secondi preziosi di riflessione per me stesso e successivamente agire rapidamente per il bene del paziente con la mente sgombra dalla paura di commettere errori, di non essere all’altezza, di arrecare danno e non beneficio. Insomma, ora, dopo quasi 15 anni che faccio il medico, posso dire di convivere con essa, di aver accolto i “demoni” che continuano a bisbigliare al mio orecchio e ascoltare sempre più la mia “vocina buona e ottimista”.
Fine Novembre, domenica. Turno lungo. Un freddo cane. Il mio turno in elicottero 118 quel giorno non passava mai, non eravamo ancora usciti ed erano solo le 16.00. In base le ore passavano, tra chiacchiere, battute, caffè e qualche sigaretta con gli altri componenti dell’eli, con Marco il comandante pilota, con gli infermieri simpaticissimi e veramente in gamba.
“Beh io mi butto 5 minuti sul divano ok raga?”
“Tranquillo doc, guarda che c’è Valentino oggi…”
“Azz! E’ vero! Oggi c’è il motogp!” Mi getto sul divano, faccio appena in tempo a metter la testa tra le mani e: “BIRIBIRI-BI / BIRIBIRI-BI / BANNONE, TRAUMATICO, PEDONE INVESTITO DA AUTO… RIPETO…” Le solite piccole imprecazioni, un attimo di batticuore e in 30 secondi siamo sull’elicottero. Marco ha già acceso i motori. “Allora abbiamo tutto?” Sì. Metti le cuffie, il marsupio coi farmaci ce l’ho, con me ho Paolo e Luca, sono a posto, sono bravissimi. Poi c’è Marco. Beh dai almeno tre apostoli ci sono! Ahah! Due feriti, forse, ci sarà da intubare, credo. Beh dai, vediamo sul posto. Decolliamo e poi sentiamo cosa ci dice la centrale”.
Amo vedere la mia città dall’alto che diventa sempre più piccola, le persone minuscole, guardare l’orizzonte. Col sole pieno e le giornate limpide si riescono a vedere anche le Alpi a volte. “Cinque minuti al target. Bannone 206 hai notizie dei feriti?” la radio gracchia per un istante nelle cuffie alle nostre orecchie.
“Bannone 206 a Sierra eco, un solo ferito pare in modo non grave, il pedone, cosciente, respira”
Ok, dai tra pochi minuti siamo lì. Marco vede l’ambulanza sulla strada, solito giro di 360° a 2G. Ma perché Marco deve sempre farci venire lo stomaco in gola io non lo so..
Dall’alto vedo un camioncino a lato della strada parallelo all’asse senza evidenti segni di intrusione del veicolo, un omone vestito di bianco e braghe blu che sembra agitato, in piedi, che cammina. L’altro è seduto sul ciglio della strada, giubbotto lungo verde. I vigili sono già sul posto e hanno chiuso i due sensi di marcia. Perfetto. Atterriamo, nel campo adiacente. Tutti e tre diamo a Marco indicazioni sui possibili pericoli nelle vicinanze dell’eli in atterraggio, si tocca terra, togliamo le cuffie, aspetto che Luca apra il portellone laterale e ci indichi la via da seguire mentre ho il marsupio a tracolla coi farmaci , il monitor defibrillatore, e Paolo che mi segue a ruota con lo zaino. Passi spediti arrivo sul luogo, Paolo è già ai piedi del ragazzo seduto sul ciglio della strada, ha già capito come me che è lui ad esser stato investito. Il conducente impreca come un forsennato verso il ragazzo e subito non capisco perché.
“Come ti chiami?” Non proferisce parola. Sarà lo shock. Tasto il polso periferico, è ok, respira da solo, benissimo. L’energumeno del camioncino sbraita ancora anche con fare preoccupato e mi dice: “Dottore, Come sta? S’è fatto male? Porca p…mi è sbucato fuori all’improvviso, in un secondo, l’ho appena sfiorato con la fiancata di destra, cazzo è sbucato fuori barcollando, ho sterzato ma non ho fatto a tempo a evitarlo !!!” Mi alzo un attimo e gli dico: “Sì sta bene, sta bene. Adesso lo controlliamo. Lei piuttosto s’è fatto male? Ha battuto la testa le gambe? Aveva la cintura?” “Sì sì dottore tranquillo sto bene, andavo pianissimo, non mi son fatto niente”. Gli do una rapida occhiata, il cosiddetto colpo d’occhio, lo visito un minuto. Sta bene. Ritorno dal ragazzo che è sempre con Paolo che cerca di farlo parlare, e che lo controlla col saturimetro.
In effetti c’è qualcosa di strano: l’auto non ha evidenti segni di collisione, il ragazzo muto è seduto, mi han detto che si è rialzato da solo sempre barcollando un po’ dopo che la macchina l’ha toccato con lo specchietto laterale. Quindi si è messo tranquillo a lato della strada senza un lamento. Continua con la mano destra a tenersi stretto il gomito di sinistra. Ha un impermeabile da caccia lungo, lordo.
“Come ti chiami, ti senti bene? Ti fa male il braccio?” Faccio per aprirgli il giubbotto ma lui si divincola e non me lo permette. “Senti, fammi ascoltare il torace, dai, non ti faccio niente sono il medico. Lo so che ti fa male il braccio ma o togliamo sto impermeabile o te lo devo tagliare”
Paolo mi guarda e con un gesto mi fa capire che questo è fuori come un cammello.
In effetti l’alito da cammello ce l’ha ! Lo convinco a farsi mettere il collare per il rachide e a caricarlo in ambulanza. Chiudiamo le porte. Parametri vitali tutti nella norma. “Mi fai vedere sto braccio che ti fa così male per favore?
Il ragazzo muto, dentro “le mura” protette dagli sguardi dei curiosi, lentamente si lascia aprire l’impermeabile, prima il lato destro e poi pian piano la parte di sinistra. Continua a tenere il gomito sinistro sempre un po’ vicino al torace.
“Nooooo !!” esclamo. Io e Paolo ci guardiamo…abbiamo un grosso sorriso sulle labbra, pronto a scoppiare in una fragorosa risata che tratteniamo con professionalità.
E’ il più grosso bottiglione di grappa che io abbia mai visto. Ma davvero, sarà tre litri!
Il ragazzo sta benone, neanche un graffio al gomito né al braccio. Era solo spaventato. Non voleva assolutamente far notare né al conducente né ai vigili il prezioso nettare che lo aveva colto per alcune ore tra le braccia di morfeo e che ancora con lui stava passeggiando sul ciglio della strada.
La mia “vocina buona e ottimista” aveva ragione: mi aveva bisbigliato che sarebbe andato tutto bene, era come se mi stesse dicendo “dai, facciamo un giretto tra i cieli, oggi è una giornata bellissima, rilassati.” Esco dall’ambulanza, compilo il modulo dell’eli e consegno il nettare alle forze dell’ordine. Saluto tutti, consegno il referto, all’autista energumeno dico di stare tranquillo, è tutto ok. Lascio il ragazzo ai militi con un codice 2 per il PS. Rimontiamo con le nostre selle fatte di monitor e di zaini medicali sul nostro cavallo alato quadrielica. Il nostro decollo è ammirato da tutti. Dall’alto, tutti i gomiti dei curiosi e dei più piccoli sono alzati per salutarci. Paolo salta su e in cuffia dice: “Oh, l’unico che ha ancora il gomito giù è il nostro amico muto!” Fragorosa risata generale e Marco canticchiando ha già effettuato la sua virata di 180° a 2G per portarci in base. E il tramonto è spettacolare.

manuele

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