Se riesci ti piace arrivare un po’ prima sul cambio. Intanto perché trovi parcheggio più facilmente.
E poi perché chi è dentro da dodici ore ne ha già abbastanza e l’unica certezza che ha, è che qualcuno, dopo un tot di tempo, verrà a dargli il cambio.
E non è poco.
Già lungo il percorso di ingresso raccogli una serie di informazioni: davanti al chiosco qualche infermiere che ha appena smontato dal turno di notte anticipa qualche novità, passando dal Pronto Soccorso basta uno sguardo per dirti se è tutto tranquillo (per ora, ma non diciamolo, per scaramanzia!) o già sovraffollato.
L’ascensore ti deposita proprio davanti alla rianimazione.
Qualche volta davanti alla porta campeggiano parenti tristi, assonnati e preoccupati, che trasalgono ogni volta che la porta si apre. E dagli sguardi, dall’età, dal comportamento già intuisci una parte della storia. Genitori o figli? Amici o parenti? Giovani o vecchi? Spesso non è difficile decodificare.
Poi entri: quanti zaini di trasporto ci sono? Tanti ne mancano, tanti sono i pazienti in giro. Tutti gli zaini a posto: buon segno!
Insomma già prima di entrare uno un’idea se la può fare.
Un saluto a chi c’è, togli dalla tua borsa qualche cosa per il pasto che depositi in cucina.
Ti avvii verso lo spogliatoio nel corridoio, trovi le chiavi in una delle sedici tasche dove potresti averle messe ieri sera, ed entri.
Quanti anni sono che vieni a cambiarti in questo spogliatorio? E quante stanze-spogliatoio hai cambiato in venticinque anni?
La fila degli armadietti fronteggia un doppio schieramento di scarpe, anzi una parete bifilare di zoccole dove alcuni paia di scarpe, o qualche stivale d’inverno, si inseriscono come le molecole della pompa del sodio nella membrana della parete cellulare.
E il gioco sta nell’indovinare chi c’è di là a partire dalle scarpe che ha lasciato di qua.
Le scarpe sempre leziose della collega che ne ha una intera collezione e che non ti ricordi la volta che ha messo lo stesso paio due giorni di seguito. E poi i dr.Martin della tosta elisoccorsista, le lumberjack del collega giramondo, le scarpe seriose di buona fattura del collega anziano, le paperine allegre della collega creativa, le scarpe un po’ petulanti della collega precisina, e quelle un po’ scalcagnate del collega sfigato, a cui accosti le tue barche oversize, che ormai trovi solo più in Germania.
Ti piace fare con calma i gesti preparatori, moderna vestizione del cavaliere, che invece dell’armatura indossa un comodo pigiama.
Mentre ti cambi non potrai fare a meno di pensare come sarai questa sera, quando ti ritroverai di nuovo qui, davanti a questo specchio. Stanco ma ancora presente o assolutamente tritato? Contento di quello che hai fatto, o pensieroso su dilemmi insoluti? Sarà stato un giorno utile o inutile?
E poi sei pronto.
Spegni la luce, chiudi la porta alle tue spalle e via. Lì ci ritornerai solo dopo dodici ore, al momento del cambio.
Ora sentirai le consegne, con un rituale che si ripeterà identico dopo dodici ore
…E dopo dodici ore, come in un confessionale laico, in una cronaca che ha del religioso, lascerai memoria di quel ch’è stato al tuo collega, e di quel che ancora c’è da fare, di quello che hai pensato ed imbastito, infilandoci se del caso anche qualche fatto curioso avvenuto, qualche prodezza compiuta, o qualche svista occorsa.
E l’ironia con cui saprai condire il racconto sarà il sale di quella giornata o nottata, che nel solo racconto, nudo, dei fatti, potrebbe semplicemente risultare tecnico, arido, squallido o terrificante, o tutte queste cose insieme.
Intanto, elencando le tue prodezze o le tue viltà lentamente smetterai di risuonare di tutti gli echi che ti rimandano le cose che hai fatto, i pazienti che hai visto, le decisioni che hai dovuto prendere. Con calma ti potrai avviare, lasciando cadere pezzo per pezzo gli episodi mentre ti avvicini all’uscita.
Quasi prepari uno stato di vuoto mentale, hai il bisogno fisico di segnare il cambiamento avvenuto.
E ti vengono in mente le parole di Roy Batty in Blade Runner: “…e tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia…”
Herbert Asch